giovedì 18 novembre 2010
NON C'E' CHE DIO
Un particolare ringraziamento al Professor Andre Moncada per averci segnalato questo testo:
NON C’È CHE DIO
di D. Mondrone S.I.
In una lettera spedita il 21 luglio 1849 da Berlino all’amico De Blanche, marchese di Raffin, Juan Donoso Cortés ci lasciava un documento prezioso circa la sua così detta «conversione», le sue intime aspirazioni di fervoroso credente e il valore ch’egli riconosceva alla preghiera in rapporto alle condizioni politico-sociali del suo e di tutti i tempi.
«La società — scriveva dunque il celebre marchese di Valdegámas — è definitivamente colpita a morte, e morrà, perché non è cattolica, e d’altronde solo il cattolicesimo è vita. Penso di ritornare tra breve in Ispagna e sottrarmi qualche tempo agli affari per meditare e scrivere. Il turbine politico, dal quale mio malgrado mi son lasciato prendere, non mi ha permesso sino ad oggi un momento di pace e di riposo. È giusto che prima di morire io mi ritiri a parlare con Dio e con la mia coscienza da solo a solo. Per me, la vita ideale è quella monastica. Credo che per il mondo siano più utili quelli che pregano che quelli che combattono, e che se il mondo rotola di male in peggio è perché vi sono più guerre che preghiere.
Se potessimo penetrare nei segreti di Dio e della storia, penso che rimarremmo sbalorditi al vedere gli effetti prodigiosi della preghiera, anche nelle faccende umane. Perché la società trovi pace, è necessario che ci sia un equilibrio, quale Dio solo conosce, tra la preghiera e l’azione, tra la vita contemplativa e quella attiva. La chiave di tutti gli sconvolgimenti che soffriamo è forse nella rottura di questo equilibrio. Su questo punto sono profondamente convinto e ritengo che se ci fosse un’ora sola in un solo giorno in cui la terra non elevasse al cielo nessuna preghiera, sarebbero quelli l’ultimo giorno e l’ultima ora del mondo» .
La provvidenza certamente non permetterà che si giunga a tanto — perché ciò implicherebbe nientemeno che il fallimento della Chiesa — ma può ben permettere che l’uso della preghiera attraversi tali periodi di raffreddamento, da produrre, anche nell’agglomerato sociale, squilibri ai quali solo un intervento divino, socialmente sollecitato con la preghiera, può rimediare in modo radicale e sicuro. Dio può e suole permettere ciò per il nostro castigo ed emendamento. Ma se l’incoscienza o lo scetticismo arrivasse a stupirsi o a deridere chi ci ricorda che la preghiera è un elemento indispensabile per l’equilibrio sociale, quell’incoscienza e quello scetticismo sarebbero già uno dei più tremendi castighi.
È precisamente il castigo col quale è colpita oggi la società. I canoni della vita intensa, ispirati dalla eccessiva importanza data ai valori della materia, a poco a poco hanno finito con liquidare gli ultimi avanzi della cristiana concezione del nostro essere. L’uomo, con l’illusione di poter lottare con migliore successo sulle trincee della vita, ha trattato Dio come qualcuno che non entra affatto nella sfera dei suoi interessi, lo ha lasciato, come elemento che ingombra, al margine del suo cammino. Egli non ha sentito più il bisogno di pregarlo, senza accorgersi che così veniva a tagliarsi ogni collegamento con la sorgente del suo vero benessere.
È indicibilmente spaventoso il caos nel quale l’attuale conflitto ha travolto tanti popoli. Mai, nella storia, si è seminato tanto odio, mai son cadute tante vittime, mai si è sparso tanto sangue, mai si son distrutte tante opere d’arte, mai si son perdute in pochissime ore così ingenti ricchezze, mai si son viste commettere tante crudeltà, mai si è tanto sofferto. Bisogna che si assommino insieme parecchi secoli del passato per raggiungere il bilancio di rovine d’ogni genere accumulate in un solo quinquennio. Se questi sono i risultati del progresso materiale e della civiltà laica, i suoi fautori ne hanno scritto la più solenne e la più paurosa confutazione.
Eppure non è nemmeno lo spettacolo orrendo di tante rovine materiali e di così indescrivibili sofferenze quello che più di tutto ci sgomenta. Oseremmo perfino dire che tutto questo è nulla — per chi sappia guardare e comprendere le cose dall’alto — in confronto di tante miserie e rovine dello spirito che ogni giorno ci si manifestano, facendoci comprendere come l’apostasia dei popoli dai principii e dalle direttive del Vangelo era assai più vasta e profonda di quanto, anche dai più accorti non si aspettasse. Quello che maggiormente ci fa paura è appunto la visione di questo fatto.
Il regnante pontefice (Sua Santità Pio XII, n.d.r.) in una lettera del 25 novembre u. s. al suo Segretario di Stato (il Cardinal Maglione, n.d.r.), deplora espressamente un così triste fenomeno: «Sebbene questo immane conflitto, il più grande certamente nella storia dei popoli, infierisca ogni giorno con maggiore violenza, arrecando innumerevoli stragi e rovine per terra, per mare e per cielo, molti tuttavia — il che osserviamo con indicibile tristezza — vivono dimentichi dei propri doveri verso Dio, trascurando e disprezzando e violando le sue sante leggi. Vero è che tutti concordemente lamentano i crescenti lutti, le difficilissime condizioni di cose, e, in molti luoghi, la paurosa crisi economica; vero è che tutti vivono, trepidano in ansia per i presenti e per i futuri pericoli; ma non tutti, colpiti e atterriti da queste tribolazioni, rientrano in se stessi, non tutti riflettono che l’umanità sconta la meritata pena, per essersi molti allontanati da Dio e dalla sua legge...» .
Di fronte a un mondo in cui tanti sembrano divenuti orde di belve che si accaniscono a depredare e ad opprimere, gli empi a distruggere quanto c’è ancora di sacro e di buono; per i pessimisti, non c’è, purtroppo, che una disperata e atroce conclusione: Non c’è più nulla da fare!... Conclusione che in un colpo solo viene a negare la bontà e potenza infinita di Dio, ed i germi di bene da Lui deposti e, nonostante tutto, conservati in fondo alla natura umana. È il verdetto di coloro che in tutte le cose difficili, e umanamente impossibili, non calcolano altro che la possibilità delle forze umane, dimenticandosi di Chi domina sul bene e sul male.
Non questa, invece, è la conclusione del Vicario di Cristo, dopo la brevissima e realistica diagnosi dei mali che opprimono la società e compromettono la sorte delle anime. Emulo dei discepoli sorpresi dalla tempesta sul lago di Galilea, quando tutto umanamente è perduto, egli chiama a raccolta le anime dei credenti, per formare con esse un grido solo di preghiera lanciato al Maestro che sembra dormire tranquillo sulle sorti dell’umanità: «Salvaci, O Signore, perché siamo perduti!» (Mt. VIII, 25). Quando tutti disperassero, egli è il solo che non può disperare, e nella fermezza della sua fede indica a tutti la sorgente sicura della salvezza.
Invece di dire come i vili: Non c’è nulla da fare! Egli insiste: C’è tutto da fare, anzi da rifare; l’individuo, la famiglia, la società. Ma appunto perché un tale lavoro supera immensamente le umane possibilità, egli confida in Dio ed esorta a rivolgerci a Colui che trionfa su tutte le difficoltà, ma che vuole trionfare con noi e per mezzo di noi. Non piegare le braccia, perché Dio operi tutto da Sé, ma collaborare con Lui. Facciamo la nostra parte, e Dio farà certamente la Sua. E la parte che spetta a noi, in quest’ora così fosca, è compendiata dal Santo Padre in questa duplice consegna rivolta caldamente «a tutti»: pregare ed espiare.
* * *
Al mondo, nello stato in cui oggi è ridotto, mancano tante cose; ma soprattutto gli manca il collegamento con Dio rappresentato dalla preghiera: una preghiera che sia proporzionata ai suoi immensi bisogni. È necessario che i governanti e gli Stati imparino dai secoli più religiosi e dalla storia stessa degli Egiziani, dei Greci, e di Roma, a costruire l’ordine civile sulle basi dell’ordine religioso e a tenerne vivi i rapporti mediante l’istituzione d’un culto pubblico e ufficiale, col quale pubblicamente e sinceramente si riconosca Dio come fondamento della società, come ispiratore delle sue leggi, come rifugio nelle ore di eccezionale pericolo.
«Studiamoci, scriveva Platone, di imitare in tutti i modi immaginabili il regime antico. Noi dobbiamo fondare le case come gli Stati affidandoci a ciò che vi è d’immortale nell’uomo e consacrandone come leggi le volontà della Mente suprema. Dove invece uno Stato è fondato sul vizio ed è governato da uomini che si mettono sotto i piedi la giustizia, allora non c’è più mezzo di salvezza» . «Le città e le nazioni meglio date al culto divino, insisteva anche Senofonte, son sempre state le più durevoli e le più sagge, come i secoli più religiosi sono sempre stati i secoli più illustri per il genio» . «Nessuna sufficiente prosperità per lo Stato che abbia abbandonata o malamente coltivata la religione» .
«La società, infatti, scrive il Bougaud, riposa essenzialmente e necessariamente sopra Dio. In Lui solamente trova la vera idea del potere, della giustizia, del diritto; la vera idea della libertà e della responsabilità umana; l’idea del valore e della inviolabilità dell’anima; l’idea dell’obbedienza, del dovere, del sacrificio e della virtù. Fuori di Dio, non si dà né giustizia sociale, né fede patriottica. Sopprimete Dio, e la società non è più che un ammasso di pietre senza cemento; è una statua senza piedistallo: né sperate in un miracolo che ve la faccia reggere in piedi» .
Il medesimo autore, or ora citato, nel Cristianesimo e i tempi presenti, ispirandosi probabilmente a un famoso articolo del Taparelli, La civiltà ai piedi della Croce , continua a dimostrare come essendo il sacrificio dei singoli — sacrificio dei genitori, dell’impiegato, del magistrato, del lavoratore, del medico, del soldato, del sacerdote, ecc. — alla base della compagine sociale, questa non avrà mai una statica sicura e tranquilla se non si appoggia su Dio, principio unico del sacrificio, perché Egli solo ne può essere il remuneratore. «Così, quanto più la presenza di Dio è reale in seno alla società, quanto maggiormente Egli è la base riconosciuta delle leggi, delle istituzioni, dei poteri, dei costumi pubblici e privati; tanto più la pace e l’ordine sono profondi e tanto maggiormente progredisce la civiltà. Non già che, anche allora, non ci siano miserie — sempre la società, composta da esseri imperfetti, sarà imperfetta — ma almeno non è da temere che siffatte miserie pervengano allo stato acuto né che simili disordini individuali producano mai catastrofi sociali» .
Ma una fede in Dio, nel vero Dio, sarebbe inutile se i suoi articoli si riducessero a soggetti da museo o ad argomenti per studiosi della storia delle religioni. La fede che non si traduce in opere, le opere che essa direttamente inculca, è una fede cadaverica, è un ingombro e non già un principio germinativo di forza. Ciò è vero tanto in riguardo alla vita spirituale degli individui, quanto per gli effetti che esercita sulla società. Perciò il riconoscimento pubblico e nazionale della Religione postula che, tra gli atti principali nei quali questo si esplica, ci sia la preghiera nazionale lealmente rivolta, insieme con la collettività, oppure in nome di questa, a Dio, per chiedergli la prosperità della Patria e l’aiuto necessario nell’ora di particolare bisogno. Ma oggi una delle cose, la prima cosa che manca a tanti Stati, tutt’altro che ignari del Cristianesimo, è precisamente questa: la pratica della preghiera nazionale.
Non è il caso di riportare qui la bella dimostrazione del padre Taparelli circa l’influsso della preghiera cattolica sulla civiltà . È necessario però ricordare che l’omaggio reso a Dio per mezzo della preghiera pubblica ed ufficiale è un dovere assoluto della società, principalmente perché essa deve a Dio il corpo e l’anima di cui si compone: gli uomini cioè con il loro naturale bisogno e istintivo impulso a consociarsi, e l’autorità che anima e compagina un tale aggregato. Essendo, infatti, il sovrano un uomo in tutto simile agli altri uomini sui quali governa, questi gli riconosceranno tale diritto solamente a patto ch’egli ne abbia avuta l’investitura da Dio, perché «solo Dio con un maggior grado di essere, di potenza, di maestà, può conferire al mio simile un impero sopra di me» .
Ma dove sono oggi gli Stati, fatte rarissime eccezioni, che rendono a Dio questo dovere di giustizia mediante l’omaggio della preghiera? Anche quando interi paesi si son trovati sull’orlo del precipizio, e una parola di fede, un’invocazione al trono dell’Altissimo sarebbe caduta sull’anima dei popoli come l’unica parola apportatrice d’una speranza, quell’invocazione è ostinatamente mancata sulle labbra dei loro capi, o se fu pronunziata, era tale che sarebbe stato meglio non fosse mai stata proferita, tanto era blasfema e negatrice d’ogni sincerità e d’ogni idea di rettitudine e di giustizia.
Uno Stato che non prega è destinato, presto o tardi, a morire asfissiato, perché la preghiera è ossigeno non solo per la vita spirituale degli individui, ma anche dei popoli. Un tale Stato potrà avere periodi di materiale benessere, ma la sua non sarà mai la vera civiltà, o se tale l’aveva ereditata, questa dovrà lentamente seguire una linea di declino. Se di ciò fosse necessario avere una dimostrazione, oggi la stiamo avendo nel modo più lampante e più tragico. Quando, perciò, tutti i discorsi e le promesse e i programmi di un ordine nuovo, di una ricostruzione stabile della vita sociale e di un assetto o risanamento economico ci vengono da uomini che, in un compito così tremendamente difficile, credono di poter fare da sé, mettendo da parte l’aiuto di Dio, noi non abbiamo in essi nessuna fiducia. A meno che Dio non intervenga per sua pura misericordia, le loro splendide chiacchiere creeranno nient’altro che nuove illusioni, e il loro lavoro finirà con aggiungere soltanto nuove rovine.
Chi leggesse pertanto anche le sole encicliche e i messaggi sociali degli ultimi due Papi (S.S. Pio XI e S.S. Pio XII, n.d.r.), troverebbe con quanto rammarico essi deplorino questa pratica dimenticanza di Dio — un Dio lealmente creduto ed invocato, soprattutto da quanti sono a capo e responsabili delle sorti dei loro popoli — e con quale insistenza continua ed accorata esortino di ricorrere a questo grande e potentissimo mezzo di salvezza, alla preghiera. Meglio di tanti uomini politici e strateghi, essi hanno saputo cogliere nel segno, quando, appunto da questo mancato ricorso a Dio, hanno pronosticato come tutti gli sforzi, anche i più sinceri, di allontanare lo scoppio dell’attuale conflitto, e tutta la presuntuosa speranza di contenerlo nel più breve limite di spazio e di tempo sarebbero miseramente naufragati.
«In tanto agitarsi di uomini — ammoniva paternamente Pio XI — in tanto parlare e conferire, in tanti discorsi e dibattiti, chi mai ha sentito parlare di Dio, accennare alla Provvidenza di Dio, chi mai ha sentita o affermata una parola di riconoscenza, di omaggio, di ossequio per questa mano alla quale veramente e non a quella degli uomini ubbidiscono gli avvenimenti? Dolorosa constatazione: no, non è così che uomini, che creature sulle quali, in tanta parte, risplende la luce del Vangelo, la luce del Cristianesimo, dovrebbero fare! Comportandosi in quel deplorevole modo si va incontro a un terribile pericolo, quello che Egli, il Signore, possa dire: Fate senza di me. Si sente bene che un più tremendo castigo non potrebbe certo cadere sulle creature; che cosa può fare infatti la creatura, che cosa può fare il mondo intero senza il Creatore?» .
Quando quell’immortale Capo della cristianità volgeva al mondo ammonimenti così giusti e così paterni, si era ancora in tempo per ricorrere a Dio e supplicarlo di scongiurare quanto il suo Vicario aveva previsto e che si sta ora avverando. Ma quelle parole rimasero inascoltate, ed oggi si paga. Sapranno almeno ricordarle gli uomini, i quali, stanchi e seriamente impressionati dalle tremende lezioni della guerra, che si fanno sentire oggi, e più ancora si faranno sentire domani, agognano a una pace vera? «Possano essi — esorta a sua volta Pio XII — riconoscere il loro errore e comprendere che il Cristo Salvatore, nonostante le defezioni, i rinnegamenti e gli oltraggi, resta ancora e sempre a loro vicino, le mani tese, il cuore aperto, pronto a dir loro: Pax vobis!, se essi stessi in uno slancio sincero e fiducioso, cadranno ai suoi piedi con quel grido di fede e di amore: Mio Signore e mio Dio! (Io. XX, 28)» .
* * *
Inascoltato da quelli che sono a capo delle nazioni, Pio XII, come tutti i suoi predecessori, rivolge alto ed instancabile il suo appello a tutta la famiglia dei credenti, affinché si supplisca almeno con la preghiera individuale a ciò che ufficialmente non si compie. «Dio può tutto — aveva detto nella sua prima Enciclica — al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli, e in qualsiasi parte Egli vuole, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi per plasmare le cose e gli eventi e per volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. Pregate, quindi, pregate senza interruzione» .
Alla vigilia e nel corso pauroso del presente conflitto non ha mai cessato d’insistere su questo appello. «Memori che le umane industrie a nulla valgono senza il divino aiuto, invitiamo tutti a volgere lo sguardo in Alto ed a chiedere con fervide preci al Signore che la sua grazia discenda abbondante su questo mondo sconvolto, plachi le ire, riconcilii gli animi e faccia risplendere l’alba di un sereno avvenire» . E poiché agli orrori d’una guerra devastatrice si potranno aggiungere domani quelli d’una pace che sia nuova semina di odii, nuovamente insiste:
«Vi esortiamo tutti ad unire alle nostre preghiere le vostre, affinché il lume e la protezione dell’Onnipotente preservi quelli, nelle cui mani saranno poste decisioni di così gran momento per la tranquillità del mondo, e tanto gravi responsabilità, dal ripetere, in forma mutata, antichi errori e dal ricadere in mancanze del passato, avviando — anche senza saperlo o volerlo — l’avvenire dei popoli e della stessa propria nazione in un cammino, sul quale non sarà per trovarsi alcun vero ordine, ma solo timori e cagioni di nuove sciagure» .
Questo invitare, raccomandare, insistere sulla necessità della preghiera nessuno pensi che sia, sulla bocca del Vicario di Cristo, espressione d’un formulario obbligato. È appello che nasce dalla consapevolezza della naturale impotenza dell’uomo e dalla fede nell’infinita onnipotenza di Dio, posta mediante la preghiera a disposizione della sua creatura. Nella vita, l’uomo che ha bisogno di aiuto si volge all’uomo che può darglielo, e se costui non è un mostro, e dispone realmente di mezzi e di generosità, andrà volentieri incontro al fratello che domanda. Ora, se l’uomo ascolta la preghiera dell’uomo, molto più l’ascolta Dio, che è Padre di tutti, che da tutti si attende l’omaggio della preghiera e a tutti può venire in aiuto. E come tra noi uomini, quanto più deboli son coloro che pregano — il bambino, la donna, l’anziano, il malato oppresso dalla sofferenza, il povero vessato dall’indigenza e dalla fame — tanto più la loro preghiera è potente; così, maggiore è la nostra debolezza, più valido sarà il titolo della nostra preghiera sul cuore di Dio, quando questa debolezza ci fa stare, di fronte a Lui, al posto che ci spetta.
Il genere umano ha sempre dovuto riconoscere questa debolezza, perciò ha sempre pregato. L’archeologo che dirige i suoi scavi sui ruderi delle più remote città, nulla incontra più frequentemente sotto i suoi ferri di lavoro quanto gli avanzi di templi, di altari e di oggetti votivi, che sono i monumenti della preghiera levata in ogni luogo e in ogni tempo alla divinità, anche se non debitamente conosciuta. Né alcuno pensò mai che piegarsi in adorazione e in preghiera al cospetto dell’onnipotenza del cielo fosse una umiliazione intollerabile per le meschine impotenze della terra. Bisognava che la Bontà incarnata del vero Dio insegnasse agli uomini la preghiera stupenda del Pater noster, per sentir bestemmiare dal Rousseau: «Invece di pregare, lavora! La mendicità non è bella né quando si rivolge a Dio, né quando stende la mano agli uomini».
Eppure nessuno ha mai pensato che l’uomo si avvilisca, quando: nell’impotenza d’imparare da sé, si rivolge a un maestro che lo istruisca; nella impossibilità di liberarsi da una malattia, ricorre all’aiuto del medico; o disperato di potersi difendere contro l’ingiusto, fa ricorso all’autorità o a un avvocato. Strano! L’uomo che si tiene sommamente onorato di essere ammesso per pochi minuti di udienza presso un sovrano di questo mondo — udienza che spesso si paga con le difficoltà di ottenerla, con le lunghe anticamere e gli eventuali rifiuti opposti a qualche supplica difficile — dovrebbe poi sentirsi umiliato quando appunto con la preghiera si eleva fino al Sovrano dell’universo, per accedere al Quale non vi sono né orari, né etichette complicate, né si va col timore di non esser bene accolto. Ma «chi è pari al Signore, Dio nostro, che troneggia sì alto e abbassa lo sguardo sul cielo e sulla terra? Lui che solleva dal fango il misero, e dal letame rialza il povero, per dargli posto tra i nobili, tra i più nobili del popolo suo» ( Salmo 113). Bisogna che l’orgoglio dell’uomo giunga veramente fino al colmo del ridicolo per muovere una simile obiezione alla preghiera.
Ma non meno ridicoli son quelli che pensano di liquidare la necessità di pregare, osservando che se Dio è onnisciente, già conosce i bisogni nostri, ed è perciò inutile che ci diamo noi la pena di tenerlo informato. «Sappiamo bene, risponde il padre Gaetani, che Dio conosce tutto fin dall’eternità; nondimeno Egli, nella sua sapiente provvidenza, soccorre ai bisogni delle sue creature, secondo la diversa natura delle creature stesse: dalle creature inanimate e irragionevoli, incapaci d’implorare l’aiuto, Iddio non aspetta la preghiera; dalle creature umane Iddio aspetta la preghiera, e l’aspetta, non per conoscere ciò che Egli già sa, ma perché la creatura umana, intelligente e libera, concorra all’avveramento del disegno divino. Riconoscendo la propria indigenza e innalzando a Dio la sua anima supplichevole. Se Dio soccorresse a tutti i nostri bisogni, senza richiedere mai l’omaggio della nostra preghiera, senza che noi gli porgessimo mai un segno della nostra dipendenza, oh quanto facilmente noi dimenticheremmo il nostro benefattore e finiremmo col crederci in diritto di avere quei beni, che Dio misericordiosissimo ci elargisce» .
Si giunge perfino a dire che la preghiera è una pratica che ormai più non risponde al ritmo della vita moderna. Quelli perciò che pregano e che raccomandano di pregare son gente arretrata, poco pratica e che tutto al più si può tollerare confinandola in qualche monastero. Ebbene, «a noi è cara questa scomunica, risponde il ven. Contardo Ferrini, perché ce la predisse Cristo. Ad ogni modo, è certo che, se cessassero i riti santi di questa povera patria, se non si vedesse più estollersi sui pinnacoli del tempio la croce, io esulerei da questo deserto morale maledetto da Dio e peregrinerei fin dove trovassi un altare di Dio, del Dio che rallegra la mia gioventù. E a chi mi rimproverasse di spirito timido e pusillo, io direi che solo nella preghiera attingo forza e dignità, che se ho un inizio di carattere, e certo molto più di tutti i liberali passati presenti e futuri, lo devo alla preghiera; che se i miei studi approdano a qualche cosa, lo devo alle benedizioni della preghiera. E a chi mi rimproverasse di sciupio di tempo, io direi che per l’efficacia consolatrice della preghiera io non ne perdo nei teatri, nei caffè, nelle mille inutilità di una vita dissipata, che la preghiera mi fa amare il raccoglimento, la solitudine e il lavoro; risponderei che se tutti pregassero e pregassero a modo, non solo le condizioni morali, ma le materiali altresì, si avvantaggerebbero di molto» .
* * *
Basterebbe soltanto avere un po’ più di fede in ciò che Gesù Cristo medesimo ci ha insegnato sulla necessità, sulle qualità e sulla forza della preghiera, e meditarlo con animo sgombro da pregiudizi, per capire come veramente l’uomo, in tutto ciò che gli tocca di compiere o di soffrire, non dispone di una forza più valida della preghiera: «Ogni cosa che domandere con fede nella preghiera, l’otterrete» (Mt. XXII, 22); non ha un mezzo più prezioso per elevare i suoi pensieri e nobilitare i suoi sentimenti, quanto l’intimo conversare con Dio mediante la preghiera; né un rifugio più sicuro e inesauribile di conforto, quanto la preghiera, sulla cui soavità refrigerante e consolatrice sono state scritte le pagine forse più ispirate di tutta la letteratura religiosa. Vi sono giorni, infatti, in cui se tanta povera gente non avesse il conforto della preghiera — e Dio lo fa sentire — non le rimarrebbe che la più nera disperazione.
Ma la preghiera a cui fa appello il Santo Padre non è quella elevata a Dio in vantaggio, diciamo pure la parola, puramente egoistico; non è la preghiera dei cristiani che abbracciano la vita interiore come un affare del tutto personale e privato; è bensì la preghiera intesa nel caritatevole plurale del Pater noster, con cui ogni cristiano può e intende di fatto di diventare, unitamente con Cristo, un intercessore presso Dio per tutti i bisogni del genere umano. E se ciascun cristiano, almeno quelli più sensibili dinanzi al caos in cui ci troviamo, si rendesse conto di quello che può la preghiera per strappare a Dio quegli aiuti che sembra affatto illusorio attenderci ancora dagli uomini, forse invece di svolgere la sua ansiosa attenzione ai maneggi delle cancellerie e ai programmi politici, guarderebbe con migliore fiducia alle Trappe, alle Certose, alle umili clausure, dove assai meglio che rumorosi uomini di Stato, vi sono anime sconosciute che trattano direttamente con Dio l’affare tremendo della nostra salvezza.
«Non è vero, esclamava Louis Veuillot, che noi cristiani possiamo poco!». È stato scritto — e solo chi sa calcolare i valori del mondo soprannaturale in confronto di quelli materiali può capirlo — che Dio, pur di ottenere la santificazione di una sola anima, permetterebbe sconvolgimenti terribili. E per contrario, toccato dalla preghiera di poche anime che abbiano, col completo sacrificio di sé, acquistato un illimitato potere d’intercessione sopra di Lui, può imprimere un corso affatto nuovo a tutto un groviglio di avvenimenti. «Avevo messo dinanzi a te, nel tuo tempo, i due piatti di una bilancia dove si pesavano i destini dell’umanità: in uno era il bene, nell’altro il male. Tu non eri altro che un granello di sabbia; ma chi ti dice che questo granello di sabbia non avrebbe fatto piegare la bilancia dalla mia parte?». È il poeta Alphonse de Lamartine che fa parlare così il Giudice divino (Le Contempl., III, XXX).
Ma lasciamo i poeti. Al capo XVIII del Genesi leggiamo il dialogo che si svolge tra Dio deciso a distruggere Sodoma col fuoco, e Abramo che ricorre a tutti gli ardimenti della sua amicizia con l’Altissimo per scongiurare un tale castigo: — No, o Signore, tu non farai morire il giusto insieme con l’empio! —. — Ma dove sono i giusti?—; — Se ve ne fossero cinquanta, manderesti il tuo fuoco? —. — No, non lo manderei, ma dove sono?—. — Beh, dacché ho cominciato... Se ve ne fossero cinquanta meno cinque?—. — Non manderei il mio fuoco, ma dove sono codesti quarantacinque giusti?—. — Se allora ve ne fossero solamente quaranta... trenta... venti... dieci?—. E il Signore, disposto sempre fino all’estrema indulgenza: — Ebbene, per amore di quei dieci non la castigherei—. Ma nemmeno quei dieci giusti si trovano in Sodoma, e la città viene inesorabilmente distrutta. Al capo XXXII dell’Esodo, leggiamo invece, come essendosi Iddio tremendamente sdegnato da voler sterminare tutto il suo popolo, per l’idolatria in cui questo era caduto, la preghiera del solo Mosè ottiene che Egli non compia tutto lo sterminio che aveva minacciato.
Ora, quando si pensa all’abominio della totale idolatria in cui è piombata oggi l’umanità — idolatria dell’orgoglio, della ricchezza, del piacere, della forza bruta, dell’odio — il mondo meriterebbe solo di essere completamente subissato. Se Dio lo risparmia dal peggio, si deve soltanto al prezioso tributo di preghiere e di espiazioni offerto da anime, che il mondo ignora, ma che in realtà ne sono i veri salvatori. L’appello del Santo Padre vuole appunto che il numero di queste anime si moltiplichi, si moltiplichi fino a raggiungere col peso dell’espiazione e della preghiera quella misura che faccia piegare la bilancia divina dal lato della misericordia.
Nulla resiste infatti all’azione invisibile, ma sicura della preghiera ben fatta. Essa è come lo stillicidio che ricama i banchi di porfido. È come un fiume sotterraneo che a un certo punto trova il suo sbocco e dilaga. È come quelle piante che i contadini del Vesuvio seminano sul lastricato della lava: ciò che non può il piccone, per il recupero di sì fertili campagne sepolte, lo può il lavoro di quelle umili piante.
Pregare invece di imprecare, inginocchiarci invece di agitarci soltanto, accettare con spirito di espiazione anziché ribellarci alle sofferenze che giorno per giorno ci arrivano. Ma soprattutto ricordarci che abbiamo nei meriti di Cristo un tesoro inesauribile al quale appoggiare la nostra preghiera e col quale abbiamo di che pagare tutti i nostri debiti e di che guarire da tutti i nostri mali. Anziché lasciare inerte questo divino capitale, bisogna che impariamo da capo come impadronircene, come avvalercene, perché soltanto nel Nome e nel Sacrificio redentore di Lui è possibile la salvezza.
(Civiltà Cattolica, anno 1944, a firma di Domenico Mondrone S.I.)
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