mercoledì 30 ottobre 2013

Concilio Vaticano II e comunicazione con gli acattolici



di don Pierpaolo Maria Petrucci

F ra i cambiamenti dottrinali del concilio e del post concilio che toccano la fede vi è quello inerente alla partecipazione comune ai riti religiosi con gli acattolici detta  “communicatio in sacris”. Essa può riguardare la  partecipazione di un cattolico alle funzioni  religiose e pubbliche di un culto non cattolico, come quelli pagani, eretici o degli scismatici; oppure la partecipazione ai riti cattolici da parte degli acattolici. La Chiesa, per proteggere la fede dei suoi figli, ha in proposito una dottrina ben precisa, fondata sulla legge divina. Essa permette ai non cattolici di ascoltare le prediche, assistere alla Santa Messa e alle cerimonie della Chiesa, ricevere benedizioni per disporli alla fede o alla salute del corpo (CJC senior can. 1149). Essi possono anche beneficiare degli esorcismi (CJC senior can. 1152). Non è però permesso agli eretici e agli scismatici, seppure in buona fede, di ricevere i sacramenti, se non hanno prima rigettato i loro errori e si siano riconciliati con la Chiesa (Can 731,2).

Per quel che riguarda la partecipazione dei cattolici ad altri riti, occorre fare delle distinzioni importanti. Quando il cattolico ha l’intenzione di onorare Dio con il culto acattolico, una tale comunicazione, chiamata “formale”, è sempre illecita poiché implica la professione interna di una falsa religione (Prummer T I n° 523,3) Si definisce invece “materiale” l’assistenza a certi riti non cattolici, determinata da ragioni di convenienza sociale o per motivi di ufficio, senza aver veramente l’intenzione di onorare Dio con quel culto. Ma neppure questa assistenza è lecita quando è attiva, cioè quando si partecipa positivamente, compiendo qualche atto del culto non cattolico. Essa infatti è contraria al primo comandamento che ci comanda di rendere a Dio il culto che Gli è dovuto nella vera religione da Lui rivelata. Non è lecito quindi per un cattolico il prendere parte attiva ad un rito acattolico, con preghiere, canti, oppure anche suonando l’organo (S.C. de Prop. Fide d. 8 luglio 1889).

L’antico Codice di Diritto Canonico affermava con chiarezza che chi prende parte attiva ad un culto acattolico è sospetto di eresia (can. 2316). L’assistenza invece cosiddetta passiva, che si limita puramente alla presenza fisica, senza prendere la minima parte ai riti, come può essere la semplice presenza ad un funerale protestante di un parente o amico di famiglia, può essere tollerata per motivo di carità o convenienza sociale, se non vi è pericolo di perversione o di scandalo (Codice di Diritto Canonico senior can. 1258). Questa, in sintesi, la dottrina cattolica chiaramente affermata dagli autori di Teologia morale che sottolineano come il divieto di una tale partecipazione è fondato non semplicemente su una legge positiva ecclesiastica, ma sulla legge divina (Prummer, Manuale Theologiae Moralis T I n° 525; Summa theologiae moralis, Merkelbach, T I n° 753-754).
Nell’edizione del 1961 del Dizionario di Teologia morale diretto dal Card. Francesco Roberti, Padre Pietro Tocanel O.F.M. condensa egregiamente la dottrina tradizionale e, nell’articolo “Comunicazione con gli acattolici”, afferma con grande chiarezza che: “La comunicazione attiva e formale è gravemente illecita poiché sarebbe la professione di un falso culto e la negazione della fede cattolica, senza parlare dello scandalo”. Il concilio giungerà a cambiare totalmente questo insegnamento.

Lo stesso Padre Tocanel, in una edizione successiva al concilio del medesimo Dizionario di Teologia morale (Marietti 1968), riassume quella che chiama a giusto titolo la “Nuovissima disciplina”, facendo riferimento appunto all’ultimo concilio. Egli cita il decreto sulle Chiese orientali che comincia, come spesso è successo nell’assemblea conciliare, con l’affermare il principio cattolico tradizionale… per poi negarlo, dopo qualche riga, nella prassi. Si dice giustamente che: “La comunicazione in cose sacre che offende l’unità della Chiesa o include formale adesione all’errore o pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo, è proibita dalla legge divina” (n° 26). Ma…, c’è un “ma” che vanifica l’affermazione del principio citato, introducendo la possibilità di una comunione, appunto, nelle cose sante: “Agli orientali che in buona fede si trovano separati dalla Chiesa cattolica si possono conferire, se spontaneamente li chiedono e siano ben disposti, i sacramenti della Penitenza, dell’Eucaristia e dell’Unzione degli infermi; anzi anche ai cattolici è lecito chiedere questi sacramenti dai ministri acattolici, nella cui Chiesa si hanno validi sacramenti, ogniqualvolta la necessità o una vera spirituale utilità a ciò persuada, e l’accesso a un sacerdote cattolico riesca fisicamente o moralmente impossibile. Parimenti, posti gli stessi principi, per una giusta ragione è permessa la partecipazione in funzioni, cose e luoghi sacri, tra cattolici e fratelli separati” (n° 27).

Il nuovo codice di diritto canonico sintetizza questa nuova dottrina nel can. 844. Nel secondo paragrafo si afferma che i cattolici possono ricevere i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia da ministri non cattolici, nelle cui chiese tali sacramenti sono amministrati validamente, ogni volta che vi è una necessità e una vera utilità spirituale, nella misura in cui sia evitato il pericolo dell’errore e dell’indifferentismo e che non si può moralmente o fisicamente accedere ad un ministro cattolico.
Nel paragrafo seguente si afferma che i ministri cattolici possono amministrare i sacramenti di Penitenza, Eucaristia e Unzione degli infermi agli ortodossi e a tutti gli eretici che conservano la fede in questi sacramenti, se li chiedono spontaneamente e sono ritualmente disposti.

Nella nuova logica ecumenica, quindi, la fede in tutte le verità rivelate non è più un criterio indispensabile per ricevere questi sacramenti, nonostante la Chiesa abbia sempre insegnato che permettere a membri di religioni scismatiche ed eretiche l’avvicinarsi ai sacramenti senza l’abiura dei loro errori vada contro la legge divina. Per seguire la cosiddetta “ermeneutica della continuità” bisognerebbe affermare che i due insegnamenti non sono contraddittori ma entrambi validi, ognuno per il suo tempo. Cosa impossibile, nel caso concreto, in quanto la prassi è una conseguenza dei principi della fede. Se la Chiesa condannava la partecipazione attiva ai riti non cattolici, come abbiamo visto, è perché questa comunicazione implica la negazione della fede per la professione, almeno esterna, di una falsa religione. Ma poiché la fede non può evolvere in maniera eterogenea con il tempo, la “nuovissima disciplina” è inaccettabile.


La Tradizione Cattolica; Anno XXIII – n° 3 – 2012 pp 38-39