sabato 28 aprile 2012

Pio IX e la Rivoluzione italiana


libro

Come maturò l’appellativo di «Papa liberale» assegnato al beato Pio IX, in realtà strenuo difensore della Tradizione? A questo quesito risponde il Professor Roberto de Mattei nel suo esaustivo studio storiografico Pio IX e la Rivoluzione italiana (Cantagalli 2012, € 16.00, pp. 207).

Il primo atto del lungo pontificato di Pio IX (1792-1878), durato 32 anni, fu la concessione (16 luglio 1846) dell’amnistia ad oltre 400 detenuti ed esuli politici. Il gesto di clemenza era privo di connotazioni politiche, ma esso si trasformò nella propizia occasione, per le menti giacobine,  di far divampare l’incendio ideologico rivoluzionario in tutta Italia e in buona parte dell’Europa, incendio che ebbe il suo apogeo nell’anno 1848. Fu un edificio politico artificiosamente costruito. Afferma de Mattei: «È in quell’ “artificiosamente montato” che non è difficile trovare le vere cause del “delirio collettivo dell’opinione pubblica” che, dal luglio del 1846 all’aprile del 1848, creerà, attorno al nome di Pio IX, il mito del Papa “liberale”, frutto in realtà […] di un “sistematico sfruttamento” delle iniziative del pontefice, per realizzare lo storico “abbraccio” tra la Chiesa e i principi della rivoluzione francese» (1).

Il giorno della pubblicazione dell’amnistia, una grande folla, con bandiere e torce al vento percorse le principali vie di Roma inneggiando a Pio IX e altre manifestazioni si tennero nei giorni successivi, così eclatanti da turbare lo stesso Pontefice, che invitò il popolo alla moderazione. Nel primo anno di governo il Papa concesse la libertà di stampa: era il 15 marzo 1847. Con questo provvedimento sperava di evitare altre concessioni e di risolvere così il problema della stampa clandestina. Tuttavia il risultato fu ben diverso: la stampa clandestina e radicale proliferò ancor più e aumentarono le proteste contro il governo pontificio. Intanto, da Londra, il rivoluzionario Mazzini (1805-1872) esortava a gridare «Viva l’Italia e Pio IX» (2).

L’intera Penisola era disseminata di società segrete che volevano destabilizzare gli ordini costituiti. Le piazze furono messe a ferro e fuoco e si inneggiava alla Costituzione. Il 10 febbraio 1848 il Papa pronunciò un’allocuzione che si concludeva con queste parole: «Benedite, dunque, o grande Iddio, l’Italia, e conservatele questo dono, il più prezioso di tutti, la fede!» (3). Ma di quella invocazione si utilizzò soltanto il termine «Italia» e si strumentalizzò il Papa per metterlo in contrapposizione con Metternich (1773-1859) che aveva definito lo stivale una semplice «espressione geografica».

Gli eventi incalzarono in maniera sempre più violenta e tumultuosa. I repubblicani anticlericali misero in atto il loro piano di odio e il legittimo governo romano fu rovesciato. Il 16 novembre 1848 migliaia di persone si mossero da piazza del Popolo verso il Quirinale, residenza del Pontefice. Le grida erano: «Tenete duro, giovanotti, oggi è l’ultimo giorno dei preti» (4) e «Abbasso Pio IX! Viva la Repubblica!» (5). La folla arrivò dunque al Quirinale, aprendo il fuoco sul cortile e sulle finestre, ad una di esse si trovava uno dei segretari del Papa, Monsignor Giandomenico Palma, che venne colpito a morte. Furono approntati due cannoni per sfondare il portone. A difendere il Pio IX, che non perderà la santa calma, c’erano una settantina di Guardie svizzere, una ventina di carabinieri e sei ufficiali della Guardia Nobile. Per fargli scudo si aggiunsero quasi tutti gli ambasciatori stranieri, ma non i rappresentanti  degli Stati italiani. Il Sommo Pontefice per evitare lo spargimento di sangue cedette alla richiesta di costituire un governo provvisorio, ma dichiarò: «io non prendo nemmeno di nome parte alcuna agli atti del nuovo governo, al quale mi considero assolutamente estraneo» (6). Il Papa era prigioniero ormai dei rivoluzionari. Fu così che il 24 novembre Pio IX fuggì da Roma per raggiungere Gaeta.

La Repubblica romana del 1949 era l’espressione concreta di ciò che l’ideologia liberale, nata sotto la Rivoluzione francese, si era proposta di realizzare: la distruzione del cristianesimo e della Chiesa. Davvero significative sono le parole di Juan Francesco Maria de la Salud Donoso Cortés, primo marchese di Valdegamas (1809-1853) pronunciate al Parlamento spagnolo, tratte dal prezioso testo di de Mattei:

«Io mi proposi di parlar francamente, e così parlerò. Io affermo necessario, o che il Sovrano di Roma ritorni a Roma, o che più non vi rimanga pietra su pietra. Il mondo cattolico non può consentire, e non consentirà giammai, alla distruzione virtuale del cristianesimo, per una sola città in balia di pazzi frenetici. L’Europa civile non può consentire, e non consentirà mai che crolli il culmine della Civiltà europea. Il mondo non può consentire, e non consentirà mai, che nella insensata città di Roma si compia l’avvenimento al trono di una nuova e strana dinastia, la dinastia del delitto. (…) Le Assemblee  costituenti, che possono esistere ovunque, non lo possono in Roma; a Roma non può esservi potere costituente, al di fuori del potere costituito. Roma e gli Stati Pontifici non appartengono a Roma, non appartengono al Papa; appartengono al mondo cattolico» (7).

Pio IX farà ritorno a Roma il 12 aprile del 1850, accolto dal tripudio popolare. Intanto, però, procedevano nei loro disegni le menti carbonare, i massoni inglesi, gli spiriti volterriani… e si compì l’usurpazione del potere temporale della Chiesa. Purtuttavia l’opera di restaurazione di Pio IX fu eccezionale. Risanò le finanze lasciate in stato fallimentare dal governo repubblicano e avviò una serie di importanti riforme amministrative. L’immagine di uno Stato della Chiesa arretrata è ben menzognera di fronte alle opere che vennero eseguite e che de Mattei riporta passo passo: vengono risanate le paludi di Ostia e dell’Agro Pontino; arginati i corsi d’acqua in tutto lo Stato pontificio; intrapresi i lavori portuali e costruiti moderni fari ad Ancona, Civitavecchia, Anzio, Terracina; realizzate migliorie nelle linee ferroviarie e nelle strade nazionali; costruiti o ristabiliti una ventina di viadotti, come quello monumentale fra Albano ed Ariccia; ampliate le linee del servizio telegrafico…. Progressi si riscontano anche nel settore industriale. Enorme poi l’opera assistenziale e ospedaliera; splendida la rinascita culturale, basti ricordare il sostegno morale ed economico che Pio IX diede per lo svolgimento delle ricerche archeologiche. Ma fra tutte le meritorie azioni avviate e portate a termine sotto il suo Pontificato c’è senza dubbio la valorosa battaglia che il Papa intraprese contro il perverso processo di secolarizzazione della società. Per un trentennio il marchigiano (8) e terziario francescano Papa Mastai Ferretti si batté senza posa per difendere i diritti della Chiesa in Europa, in America e in Asia.

Importantissimo risulta essere, poco dopo il suo ritorno da Gaeta, il ristabilimento della gerarchia episcopale in Inghilterra con la bolla Universalis Ecclesiae del 29 settembre 1850: vennero stabilite, per la prima volta, dopo la rivoluzione protestante  iniziata da Enrico VIII, tredici diocesi governate dal nuovo arcivescovo di Westminster, Nicholas Wiseman (1802-1865). «A questo primo atto di sfida di Pio IX all’Inghilterra protestante e massonica che sotto la guida del “trio” Palmerston, Russel, Gladstone, avrebbe rappresentato uno dei suoi principali nemici, si possono ricollegare i tre grandi gesti pubblici del suo pontificato: la definizione dell’Immacolata (1854), la proclamazione del Sillabo (1864) e l’apertura del Concilio Vaticano I (1870)» (9). Tre punti fermi che vanno inquadrati non nel loro tempo, ma nell’eternità della Chiesa. Il Sillabo compendia, in dieci paragrafi, i principali errori di allora, errori che mantengono tutta la loro degenerante perfidia in ogni epoca della storia. L’enciclica Quanta cura, alla quale fu allegato il Sillabo, risulta la chiave di lettura di quest’ultimo. Veniva esposta la critica alla Rivoluzione francese e al Risorgimento italiano, facendo cenno alla libertà di pensiero illuminista come «libertà di perdere se stessi». L’enciclica affermava anche la forte critica del voler porre uno Stato aconfessionale rompendo il legame tra altare e trono fino ad allora vigente.

Il Papa condannava nel Sillabo, senza esitazioni o ambiguità, la filosofia del XIX secolo, che deifica la natura umana trasferendo ad essa gli attributi che nega a Dio; tale filosofia ha il suo nucleo nell’affermazione secondo cui «la ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male” (III) e da essa “scaturiscono tutte le verità religiose” (IV)» (10). Vengono dunque banditi: panteismo, naturalismo, razionalismo, indifferentismo, latitudinarismo. Il Papa afferma categoricamente  che la Chiesa non può e non deve ammettere che «ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione, che, col lume della ragione, reputi vera” (XV) e “Gli uomini nel culto di qualsiasi religione possono trovare la via dell’eterna salute e l’eterna salute conseguire” (XVI)» (11). Ecco che viene condannato il relativismo religioso, contro il quale anche il beato Cardinale John Henry  Newman (1801-1890) si scagliò. Relativismo religioso che penetrerà invece nelle maglie del Concilio Vaticano II attraverso il concetto di libertà religiosa, che riconosce in capo ad ogni persona il diritto soggettivo, nascente dalla stessa dignità dell’uomo, a non essere in alcun modo disturbato dalle azioni e dalle leggi statuali nell’osservanza del proprio culto; unico limite riconosciuto è l’ordine pubblico, vale a dire il fondamento politico ed ideologico che sta alla base di ogni singolo ordinamento giuridico: è trasferire dall’oggettivo diritto naturale, legge posta da Dio nella coscienza di ogni uomo, non incrostata da ideologie o false religioni, all’ideologia politica sottostante ad ogni ordinamento giuridico che non abbia alla sua base il suddetto diritto naturale: è il riconoscimento del più importante portato politico della riforma protestante, vale a dire la soggezione della verità metafisica e religiosa all’ideologia del detentore del potere politico. L’ironia involontaria del definire libertà ciò che, di fatto, è soggezione all’invadenza statuale, è la nota dominante di tutti gli aspetti politici del Modernismo.

Da questa viziata concezione di libertà, che, inevitabilmente, porta al totalitarismo, discende in maniera implicita, ma ineludibile, il principio secondo cui in ogni credo esiste un pezzo di verità e, quindi, anche attraverso le false religioni è possibile trovare la salvezza, vanificando in tal modo l’assoluto cattolico «Extra Ecclesiam nulla salus». Proprio contro il relativismo religioso Pio IX afferma che il Salvatore ha fondato una sola Chiesa con una unità di dottrina e di costituzione, a cui è necessario appartenere per trovare la Salvezza.

Inoltre con il Sillabo il Pontefice condannò categoricamente il socialismo, il comunismo, la massoneria, il liberalismo cattolico e il separatismo liberale, ovvero la separazione assoluta fra Stato e Chiesa. Fu il primo Pontefice a dichiarare erronei, dottrinalmente incompatibili con la dottrina cattolica e moralmente inaccettabili sotto ogni forma il socialismo e il comunismo e lo fece a partire dal 9 novembre del 1846 con l’enciclica Qui pluribus, denunciando «quella dottrina funesta e più che mai contraria al diritto naturale che chiamano “comunismo”, una volta ammessa la quale, sarebbero sconvolti i diritti, i patrimoni e le proprietà e persino la società umana» (12).

Significativa, inoltre, la constatazione che gli architetti rivoluzionari idolatrano lo Stato non anteponendo nessun diritto naturale ad esso. E dagli errori filosofici maturano e si sviluppano gli errori e i peccati. Da qui l’utilitarismo come norma di vita, ossia il servirsi di ogni strumento per raggiungere i propri scopi (machiavellismo), la distruzione del reale e vero concetto di diritto e di autorità, la corruzione, il principio di non intervento. Poi il Papa, nell’ottavo paragrafo, si sofferma sulla sacramentalità e indissolubilità del matrimonio contro gli scardinatori della famiglia, che sostenendo il divorzio, di fatto, scompaginano l’ordine sociale presente nel diritto naturale. Infine, nel decimo gruppo, vengono condannate la aconfessionalità dello Stato, la libertà di culto, la libertà di pensiero e di stampa. L’ultimo errore denunciato è quello secondo cui «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e a conciliazione» (13).

Ebbene, Pio IX, il Papa della più ampia ed articolata condanna di ogni compromesso con il cosiddetto «pensiero moderno» è stato beatificato da Giovanni Paolo II (1920-2005) il 3 settembre del 2000, insieme a Giovanni XXIII, che aprì il Concilio Vaticano II, per portare la Chiesa ad avere una «simpatia immensa» verso «la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio» (14), come detto in quella significativa sintesi di tutta l’Assise che fu l’omelia di chiusura del medesimo pronunciata da Paolo VI (1897-1978).

Afferma il professor Roberto de Mattei: «Pio IX è stato beatificato innanzitutto per la virtù eroica dimostrata nello svolgere le funzioni caratteristiche del Papa, che sono quelle di pascere, reggere e governare la Chiesa universale» (15). Postulatore della causa di beatificazione è stato Monsignor Brunero Gherardini, succeduto nell’incarico a monsignor Antonio Piolanti (1911-2001). Pare quasi che il beato Pio IX assista monsignor Gherardini nella sua ardua, ma salutare impresa teologica: quella di far finalmente chiarezza, con i suoi illuminati e illuminanti libri, sugli errori che sono divenuti presunto patrimonio comune della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II.

Cristina Siccardi



NOTE



(1)                       R. de Mattei, Pio IX e la Rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena, p. 31.

(2)                       Ivi, p. 36.

(3)                       Ivi, p. 43.

(4)                       Ivi, p. 50.

(5)                       Ibidem.

(6)                       Ivi, p. 51.

(7)                       Ivi, p. 60.

(8)                       Era nato a Senigallia, in provincia di Ancona.

(9)                       R. de Mattei, Pio IX e la Rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena, p. 66.

(10)                 Ivi, p. 148.

(11)                 Ivi, pp. 148-149.

(12)                 Ivi, p.149.

(13)                 Ivi, p.159.

(14)                 Paolo VI, Discorso di chiusura del Concilio Vaticano II, 7 dicembre 1965.

(15)                 Ivi, p. 190.

Fonte: FSSPX

venerdì 27 aprile 2012

AMERIO - IOTA UNUM - IL PIRRONISMO






Ringrazio l'amico Piero Mainardi per aver riportato, in forma sintetica, importanti passaggi del libro di Romano Amerio, Iota Unum, e di avermi concesso di riportarli nel mio blog.

CAP. XV – IL PIRRONISMO

1.1     Impianto teologico del discorso – 

Un’analisi dello spirito di vertigine, cioè di giramento e di esorbitazione, entrato nella Chiesa del secolo XX, può essere condotto anche in linea puramente filosofica. Tenendo presente che la filosofia è però una disciplina subalterna che rimanda a un’ulteriorità di fede.
La crisi della Chiesa è una crisi di fede, ma il vincolo esistente tra la costituzione naturale dell’uomo e la vita soprannaturale, impone lo studioso cattolico di ricercare l’eziologia della crisi in un ordine più profondo di quello filosofico.
Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. Chiamiamo questo attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo lo chiamiamo PIRRONISMO, che non investe questa o quella certezza di fede o di ragione bensì IL PRINCIPIO MEDESIMO DI OGNI CERTEZZA, cioè la capacità conoscitiva dell’uomo.
Non si tratta in tal senso di un fenomeno isolato ed esoterico, peculiare a qualche scuola filosofica ma permea la mentalità del secolo e lo stesso pensiero cattolico transige con esso.
Il fenomeno inoltre attinge a una profondità teologica oltre che metafisica, perché attinge la costituzione dell’ente creato e quindi anche quella dell’ente increato del quale il primo è una imitazione analogica.
COME NELLA DIVINA MONOTRIADE L’AMORE PROCEDE DAL VERBO, COSI’ NELL’ANIMA UMANA IL VISSUTO DAL PENSATO. SE SI NEGA IL PRECEDERE DEL PENSATO AL VISSUTO, DELLA VERITA’ ALLA VOLONTA’, SI TENTA UNA DISLOCAZIONE DELLA MONOTRIADE. Se infatti si nega la capacità di cogliere l’essere, l’espansione dello spirito nella primalità dell’amore rimane sconnessa dalla verità perdendo ogni norma e degradando a pura esistenza. Defezionando dall’Idea divina, tenuta per irraggiungibile, l’umana vita si riduce a puro mobilismo e cessa di portare i valori del mondo ideale, E se non fosse impossibile che Dio lasci la sua creatura devolvere in puro moto, privo di assiologia, il mondo dell’uomo sarebbe un divenire senza sostanza, senza direzione e senza terminazione.
Il pirronismo che mette  all’alogismo pseudoassoluto (pseudo in quanto il pensiero non può negare sé stesso) deforma anche l’organismo ontologico della Monotriade e ne inverte le processioni.
La dinamica della vita, se la verità è irraggiungibile, non procede più dall’intelligibile ma lo precede e addirittura lo produce.
Il rifiuto dell’Idea equivale al rifiuto di Dio, perché leva dalla vita umana ogni traccia di valori eterni e indistruttibili. Se la volontà non procede dalla conoscenza, ma da se stessa si produce e si giustifica, il mondo destituito dalla sua base razionale, diviene insensatezza. Dal momento che  si nega l’attitudine del nostro intelletto a formare concetti aventi similitudine col reale, tanto più la mente è incapace di apprendere e concepire il reale, tanto più sviluppa da sé stessa la propria operazione producendo pure escogitazioni fidenti nel pensiero ma sconfidate di cogliere il vero.
Se il pensiero non ha una relazione essenziale con l’essere, allora non subisce la legge delle cose e non è misurato, ma misura. Da qui Protagora col suo “l’uomo è misura di tutte le cose” E le tre proposizioni di Gorgia  sentono il rifiuto di andare all’oggetto e la protervia della mente che gira su sé stessa: “Niente esiste. Se qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile. Se fosse conoscibile, non sarebbe esprimibile”.

1.2     Il pirronismo nella Chiesa –

Il pirronismo è la negazione della ragione. E’ superficiale il giudizio sulla società moderna di sovrastimare la ragione. Va bene se si intende la facoltà calcolatrice e costruttiva del pensiero, a cui dobbiamo la tecnica  e il dominio delle cose: ma tale facoltà sta in un grado inferiore.
Se per ragione si prende invece la facoltà di cogliere l’essere delle cose e il loro senso, e di aderirvi col volere, allora l’età contemporanea pende più verso l’alogismo che il razionalismo.
La Chiesa con Pio XI affermava nella Humani generis contro lo spirito del secolo “ Il vero e genuino valore della conoscenza umana e la possibilità di conseguire la verità in modo certo e immutabile”; Paolo VI il 2 giugno 1972 dichiarava che “Noi siamo i soli a difendere il potere della ragione”; Nella Lumen Gentium riprendendo il Vaticano I “Col lume naturale della ragione umana si può conoscere con certezza Dio come principio e fine di tutte le cose”; e nella Gaudium et spes sono condannati quelli che “non ammettono più alcuna verità assoluta”.
Ma questi asserti contro il pirronismo non riflettono la mentalità di gran parte del Concilio e sono in antitesi cogli sviluppi postconciliari.
Il Card. Léger afferma che.” L’asserzione secondo cui la Chiesa possiede la verità può risultare giusta, se si fanno le necessarie distinzioni. La conoscenza di Dio, di cui la dottrina esplora il mistero, impedisce l’immobilità concettuale” (OR 25 novembre 1963). Il cardinale nega che si diano nella Chiesa e fuori, verità immobili, e poggia il suo pirronismo sopra la trascendenza, come se il non potersi conoscere infinitamente l’infinito da parte del finito levasse via ogni conoscitività, mentre al contrario la fonda.
Il card. Heenan constatava su OR, il 28 aprile 1968, la generale scepsi (di dubbio conoscitivo in opposizione alla certezza dogmatica) relativistica del Magistero: ”Il Magistero non si è conservato che nel Papa. Dai vescovi non viene più esercitato e ben difficilmente una dottrina erronea viene condannata dalla gerarchia. Oggi fuori di Roma il Magistero è divenuto così malsicuro di se stesso che non tenta quasi più nemmeno di guidare.” Qui si colpisce la desistenza dell’autorità ma anche l’incertezza pirroniana entrata nel corpo della Chiesa.
Il card. Alfrink il 23 settembre 1965 professa apertamente il pirronismo:”Il Concilio ha messo in movimento gli spiriti e non esiste quasi nessun soggetto nella Chiesa che non sia messo in discussione”
Il card. Suenens alla Settimana degli intellettuali cattolici di Parigi del 1966 afferma: ”La morale è soprattutto viva, dinamismo di vita e sottomessa, a questo titolo, a una crescita interiore che scarta ogni fissità”. Qui è palese lo scambio che fa il cardinale tra morale, che è un’esigenza assoluta e immutabile che si impone all’uomo, e la vita morale concreta che fluttua nell’individuo tra giudizio e giudizio. La morale non è dinamismo soggettivo, ma la Regola assoluta, partecipazione della Ragione divina.

1.3 L’invalidazione della ragione. Rifiuto neoterico della certezza – 

Nel libro di Jean Sullivan, Matinales, l’invalidazione della ragione viene sostenuta a viso scoperto. L’autore nega la distinzione tra fede e amore senza accorgersi di sformare la divina Monotriade e che esista crisi nella Chiesa. Fatto consequenziale questo perché dire crisi vuol dire discernimento impossibile da farsi per chi non ha misura fissa.
 Da osservare che la distinzione tra credere e amare, oltre che nella Scrittura, è fondata nell’essere dell’uomo in cui intelletto e volontà sono reamente distinti, distinzione che rimanda per analogia alla distinzione reale nell’organismo ontologico della Monotriade.
“I credenti s’immaginano che la fede va con la certezza…ma le certezze generalmente sono fondate su cosa? Sul non approfondimento delle conoscenze”.
Chi pretende che non si possa  avere certezza di una cosa creduta cammina fuori della dottrina cattolica. Che la fede sia certezza è dogma cattolico e che questa certezza non sia privilegio di anime mistiche e di anime semplici, ma lume comune a tutti i credenti, pure.
La calunnia del Sullivan è compagna dell’altro errore celebrato da Giordano Bruno, secondo cui la certezza e la fede troncherebbero la possibilità dell’azione. “vivere è perdere la fede” sostiene l’autore, ma senza la stabilità del pensiero sarebbe impossibile la comunione con altri spiriti, dovendo il nostro spirito essere in ogni momento tramutabile in tutte le guise.
La dottrina cattolica pone al contrario che la comunione implica qualcosa che dura identica nella vita. D’altronde il pensiero non procede dalla vita, la vita dal pensiero e teologicamente non dallo Spirito Santo il Verbo, ma dal Verbo lo Spirito Santo.
La certezza è lo stato mentale che consegue all’approfondimento e non alla superficialità del conoscere, come sostiene il Sullivan. Qui il Pirronismo sta col suo gemello: il MOBILISMO e come questo finisce nella blasfemia.

1.4     L’invalidazione. I teologi di Padova, di Ariccia - 

Il congresso dei moralisti a Padova del 1970 votò questa conclusione:” Essendo l’esercizio della ragione sistematicamente incluso in una condizione storica particolare, non è possibile il suo esercizio in termini generali”. Questa è la distruzione della ragione.
Analogo il Pirronismo del congresso dei teologi ad Ariccia del 1971 secondo la corrente dominante “nessuna proposizione può essere ritenuta assolutamente vera”. Non si danno prolegomeni razionali alla teologia perché “la parola di Dio si giustifica da sé stessa e si interpreta da se stessa”.
L’antitesi alla teologia della Chiesa è ancor meno importante che alla filosofia.
In primo luogo  non può essere senza ragionevolezza la fede dell’uomo, creatura ragionevole; secondo, la parola di Dio non si giustificherebbe da sé stessa poiché solo l’evidenza immediata o mediata, dà giustificazione a una parola. Ora l’evidenza manca alla parola di fede alla quale appunto si assente per fede e non per evidenza.  Terzo, dire che la parola di Dio si interpreta da sé stessa è un composto di parole e non una enunciazione. Perché interpretare significa mettersi in mezzo tra parola e uditore, tra intelligibile e intelligente. L’interprete è un terzo che media una dualità non può la parola di Dio intramezzare sé stessa.
Per i teologi di Ariccia “il teologo deve parlare secondo le categorie dell’uomo del nostro tempo deve tener conto della SVOLTA ANTROPOLOGICA e questa consiste in un CAPOVOLGIMENTO DEL RAPPORTO TRA OGGETTO E SOGGETTO E NELL’IMPOSSIBILITA’DI APPRENDERE L’OGGETTO IN SE’ STESSO”.
Questa è la formulazione del Pirronismo e la distruzione della dottrina cattolica. Essa è sottomissione della ragione, sottomissione voluta dalla ragione stessa.
Il fatto che questi teoremi siano accolti da un congresso di teologi cattolici cui prolude un cardinale (car. Garrone) significa che si abusano i vocaboli e che non esiste più teologia cattolica.
In un colloquio riportato negli Atti, svoltosi nel gennaio ’82 a Trieste un vescovo affermava:” Non esiste una ragione assoluta di stampo idealista o marxista [né di qualunque altro stampo] dispiegantesi nella storia dell’umanità nel suo concreto divenire, bensì una RAGIONE STORICAMENTE DATA le cui forme variano al variare dei contesti culturali. NON SI TRATTA DI RIPROPORRE UNA CONCEZIONE METAFISICA, FILOSOFICA O TEOLOGICA TOTALIZZANTE”. Qui è scopertamente invalidata la ragione, ripudiata la Provvidenza, negata la metafisica, epocato Dio.

giovedì 26 aprile 2012

SìSìNoNo i primi storici numeri ora on line





Nel 1975, iniziava questa opera di divulgazione senza precedenti! Segnalo per coloro che volessero leggere quali erano i drammi, le attese e le speranza di quei valorosi uomini di Chiesa che iniziarono questa monumentale opera di divulgazione Cattolica, i primi numeri della Rivista ora on line. 


Da SìSìNoNo n°1 anno I  

...Il compito ingrato che la nostra pubblicazione si assume è quello di andare controcorrente e di aiutare ad andare controcorrente, non per gusto, ma perché, per seguire il bene, e oggi più che mai necessario andare controcorrente. La   nostra pubblicazione perciò divulgherà idee chiare dicendo « si » a quanto è conforme alle Fede cattolica trasmessa dagli Apostoli (di cui è depositaria e custode la Chiese docente, cioè il Papa e i Vescovi soggetti a lui ) e dicendo « no » senza mezzi termini a quanto pretende di soppiantarla. Seguirà il binario della Verità, anche se doloroso. Non terrà alcun conto dì qualifiche di poteri; non cercherà di farsi amici né temerà i nemici.  Non riporterà nulla che non sia suffragato dai fatti o documentazioni ... Perciò  confidiamo nell'aiuto di Dio e di quei lettori che comprenderanno il valore dello scopo di bene che essa si prefigge e la necessità di un argine all'offensiva di malcostume in atto dentro e fuori delle Chiesa, ma sempre contro la Chiesa. In questi tempi ai cui sembra che non ci siamo più occhi per vedere ed orecchi per intendere, a questi lettori «Si sì, no no » chiede di collaborare nel modo che  riterranno più opportuno, cominciando dalla propagazione delle idee. Le collaborazione di «penne» è aperta e tutti. A tutti però, e chi può e non può prestare nessun aiuto, si chiede l'aiuto della preghiera. La  nostra pubblicazione non pretende di cambiare il mondo, ma vuole dare il proprio piccolo contributo infatti, dovere di ogni cristiano dopo aver difeso se stesso dal deserto, tentare la difesa degli altri e la riconquista del deserto. In questo giorno, con l’offerta del nostro oro (ne abbiamo tanto quanto l'obolo della vedova), incenso e mirra, nel nome del Signore iniziamo il lavoro.

Epifania 1975

La Direzione

martedì 24 aprile 2012

AMERIO - IOTA UNUM - GLI ORDINI RELIGIOSI






CAP. XIV – GLI ORDINI RELIGIOSI

1.1   Gli ordini religiosi nella Chiesa postconciliare -

Il grave scadimento intervenuto negli ordini religiosi fu generalmente dissimulato, adottando la prospettiva ottimistica di Giovanni XXIII, scambiando variazione e mobilismo per sintomi di vitalità.
Ma lo scadimento è palese nel fenomeno delle defezioni dei consacrati, per stare alle statistiche tra il 1966 e il 1977 i religiosi nel mondo sono calati da duecentoottomila a centosessanticinquemila, cioè di una quarto ( i più colpiti furono i Domenicani (da dieci a seimila); i Cappuccini (da sedici a dodicimila);i Gesuiti (da trentasei a ventiseimila); i salesiani (da ventidue a diciassettemila).
Né si può sostenere che l’assottigliamento quantitativo si accompagni a un raffinamento qualitativo: la qualità si manifesta per sé nella quantità. Bisogni essere in molti perché alcuni eccellano.
Lo scadimento è anche provato dalla novità: tutti gli istituti religiosi hanno, in capitoli appositamente radunati, riformato costituzioni e  regole in modo talora temerario e sempre con effetti più distruttivi che edificativi.
Il rinnovamento avrebbe dovuto riuscire ad un adattamento ad extra in vista di conseguire più efficacemente la santificazione che è il fine generale della Chiesa.
Ma la legge generale sulla quale avvennero le riforme post-conciliari è la seguente; tutte le riforme senza eccezioni dal difficile al facile o al men difficile e mai invece dal facile al difficile o al più difficile. E’ il rovescio di quella che appare nella storia delle compagnie religiose. Tutte le riforme allora nacquero dal fastidio della mollificazione della disciplina e dal desiderio di una vita più spirituale, più orante e austera.
La riforma si elabora oggi in gran parte attraverso una grande verbigerazione monotipica giusta il lessico moderno.
Nei Capitoli di rinnovamento una Congregazione “si interroga”, “si lascia interpellare”, “confronta le esperienze”, “ricerca identità nuove” (il che implica che diventi altro da se stessa), “mette a punto nuovi principii operativi”, prende coscienza della nuova problematica della Chiesa” (il che significa che i fini sono mutati), imposta “il problema della creatività” e tende a “costruire delle vere comunità” (come se quelle passate fossero pseudocomunità), escogita i modi “per inserirsi nel contesto” e via dicendo.

1.2   L'alterazione dei principi. La stabilità -

La crisi dei religiosi, come di tutte le altre parti del corpo ecclesiale, è una conseguenza dell’ immodica assimilazione al mondo di cui si prendono le posizioni, poiché si dispera di acquistarlo agendo dalle posizioni proprie.
Non ultima né insignificante è la mutazione dell’abito dei religiosi e delle religiose, sempre informata al desiderio di non più differenziarlo dai secolari. E’ un sintomo della PERDITA DELLE ESSENZE, e un sintomo di servilità. Dal disprezzo dell’abito ecclesiastico si scende al disprezzo di quello liturgico, e si vedono nelle celebrazioni officianti in abiti prettamente laicali.
La vita religiosa è un genere di vita conformato ai consigli evangelici e perciò più eccellente della vita conformata ai precetti. La tendenza secondo la quale si riforma oggi al vita religiosa è parallela alla tendenza con cui si riforma il sacerdozio. Qui sta l’obliterazione del divario tra sacerdozio sacramentale e sacerdozio comune.
L’esistenza dell’uomo essendo considerata in flusso e la volontà umana perpetuamente ambulatoria di contro a uno stato di persistenza e fissità della legge, uno stato di vita implica un ordine fisso entro il quale si modelli il flusso. La fissità è data dall’impegno della volontà che si lega per sempre a quell’ordine, cioè al triplice voto di castità, povertà e obbedienza. Ora, è nell’allentamento all’osservanza dei voti che si produce una tale declinazione della Regola. Dal latino regere abbiamo “regula” nella duplice accezione di sostenere e dirigere. La regola monastica al tempo stesso imprime la direzione e sorregge la vita. Similmente il latino “stare” da cui abbiamo “stabilitas” che vale come “stare fermo” e “stare ritto”. La stabilità religiosa implicava che il monaco stesse fermo in monastero e che in quella locale stabilità il religioso trovasse un elemento di stazione verticale, una condizione facilitante il suo “star ritto” nel comportamento morale e religioso.
Oggi la stabilità locale  è scomparsa.

1.3   La variazione di fondo – 

Il nuovo fine assegnato alla vita religiosa  è il servizio dell’uomo anziché il servizio di Dio, oppure il servizio dell’uomo identificato col servizio di Dio. Tale nuovo fine poggia sopra la supposizione che l’uomo non abbia per fine la propria salvezza e non possa averlo, perché il mirare alla propria salvezza sarebbe viziato da utilitarismo teologico. Nell’amore per l’uomo, invece, non potrebbe aver luogo l’amore per se stessi e il perseguire la giustizia sarebbe cosa viziosa solo perché alla giustizia séguita la beatitudine.
Eppure il fine che si proponeva chi faceva i voti religiosi era apertamente la salvezza della propria anima confermata anche da Giovanni Paolo II che ricordava ai preti che “Il primo vostro dovere apostolico è la vostra propria santificazione” (OR, 1 ottobre 1979).

1.4   Le virtù religiose nella riforma postconciliare. Castità. Temperanza. Povertà.  – 

Le virtù sono connesse e anzi sono un’unica virtù. Se virtù è l’abito della volontà sempre preponderante verso l’eterna legge, l’atto di ogni singola virtù è una specificazione di quell’abito; o scemare di una virtù nella vita religiosa segnerà simultaneamente uno scemare della virtù religiosa in generale.
Nella castità una minore delicatezza e attenzione si fanno notare nella generale scioltezza del costume clericale, nella pratica promiscua, nell’abbandono praticato di quelle grandi cautele praticate dagli uomini santi.
Nel Motu proprio Ecclesiae Sanctae di Paolo VI si prescrive “I religiosi attendono più degli altri fedeli alle opere di penitenza e mortificazione”. Le feroci mortificazioni dell’istinto dell’ingluvie (gola) erano per l’ascetica orientale un modo per staccarsi dal vitto comune degli uomini, peraltro molto meno ricco da quello di oggi. Ma anche nelle mutevolezze del secolo rimane l’esigenza fondamentale che il vitto dei consacrati si tenga al di qua del regime comune e che possa essere riconosciuto come tale.
Faccio rientrare la temperanza nella povertà, perché essa è in realtà una parte della vita umile e piccola
a cui si riconduce la povertà. La povertà non esigerà di illuminare col lume a olio o con candele nel secolo dell’elettrico. E neppure di attenersi al Deuteronomio (23, 12-3). E’ necessario  che il generale incremento della comodità trasferisca alle classe del necessario quel che era nel superfluo. La generale scomparsa dell’autarchia è la nota della civiltà contemporanea in cui l’uomo è aiutato e diretto a fare tutto quanto fa. Ma proprio perché il moto della civiltà va in questa direzione sarebbe proprio degli uomini votati allo stato di perfezione sottrarsi a quel moto. L’uso dei mezzi radiofonici e televisivi era vietato nelle comunità religiose fino a pochi anni fa, fu concesso alle singole comunità, adesso è entrato anche nelle celle.
Gli audiovisivi che stampano ogni giorno in milioni di cervelli le stesse immagini e poi all’indomani sovrastamparne mille volte, sono l’organo più potente  della corruzione intellettuale nel mondo contemporaneo.

1.5   Nuovo concetto dell’obbedienza religiosa – 

L’OBBEDIENZA è il punto su cui si manifesta chiaramente l’indirizzo facilitante del rinnovamento degli Ordini. Abbassato il concetto di questa virtù si abbassa inevitabilmente la pratica di essa. Non si propone un altro concetto, in cui si avvertirebbe subito il passaggio di genere, ma si pretende di venire a un altro stile ea un altro modo del medesimo.
Così i Superiori Maggiori nel loro incontro, dopo aver abbassato il principio di autorità introducendone uno di tipo fraternale, abbassano per concomitanza quello d’obbedienza :”L’accentuazione dell’autorità come servizio implica un nuovo stile di obbedienza. Questa deve essere attiva e responsabile”. ER svagando nel circiterismo:”Autorità e obbedienza vanno esercitate come aspetti complementari della stessa partecipazione all’offerta di Cristo” e obbediente e superiore “…. Procedono di pari passo nell’adempimento della volontà di Dio RICERCATA FRATERNAMENTE PER MEZZO DI UN DIALOGO FECONDO”. Qui sotto vocaboli fissi si vedono correre concetti di tutt’altro genere. L’obbedienza non è una ricerca dialogale della volontà a cui sottomettersi, bensì una sottomissione alla volontà del Superiore. Si noti però che la teoria dell’obbedienza assoluta è propria dei dispotismi e non è cattolica perché questa fa obbligo di disobbedire a chi comanda opera manifestamente illecita.
Qui però l’obbedienza è stata interamente soggettivata. Il principio di autoindipendenza che abbiam visto produrre l’autogoverno, l’autodidattica, l’autoeducazione e persino l’autoredenzione, non poteva non investire la vita religiosa togliendo all’obbedienza quella che è l’essenza sua: FAR SCOMPARIRE TENDENZIALMENTE IL SOGGETTO PER ELEVARE L’OGGETTO.

1.6   Insegnamento del Rosmini circa l’obbedienza religiosa – 

Egli intende recidere ogni traccia di soggettivismo dalla virtù di obbedienza e al riduce alla sua nuda essenza, consistendo la volontà nell’abdicare liberamente una volta per tutte la volontà propria nella volontà del superiore e quindi rinunziare all’esame del comando. La sua dottrina, che è cattolica, è assai profonda perché indentifica l’obbedienza con l’atto essenziale  della moralità che è riconoscere la legge e sottomettervisi. E si trova agli antipodi della veduta neoterica per cui si fa per obbedienza al comando quel che  si farebbe per libera elezione anche senza comando.
Tale variazione intacca il principio della morale e anche quello della teologia. Il cristianesimo non assegna all’uomo-Dio e ad ogni volontà umana altro fine che l’obbedienza alla volontà di Dio, sia naturalmente, sia soprannaturalmente conosciuta. L’Obbedienza va perduta nelle riforme conciliari e Poalo VI lo nota nel discorso tenuto alla Congregazione generale della Compagnia di Gesù (OR, 17 novembre 1966), in cui attestava di non poter nascondere “il proprio stupore e il proprio dolore” conoscendo “le strane e sinistre suggestioni” che seguendo il criterio dell’assoluta storicità tentavano di togliere la Compagnia dalle sue basi e traslocarla su altre “quasi non vi fosse nel cattolicesimo un  carisma di verità permanente”.

1.7   Obbedienza  e vita comunitaria - 

L’obbedienza avendo come oggetto la regola e la Regola essendo al norma unificante che fa che le fedi abbiamo un’unica volontà, l’indebolimento dell’obbedienza partorisce l’indebolimento dello spirito di comunità-
Sciolto il nodo dell’obbedienza che vincola tutti i membri della comunità a perseguire in comune i fini dell’istituto e attendere congiuntamente con gli altri membri alla cura dell’anima, accade che gli atti specifici dello stato religioso si facciano dai singoli come se comunità non si fosse. Si celebra la Messa in ora ad libitum, si medita a proprio gusto ed eremiticamente, si rimette alla spiritualità personale la preghiera, così come l’abito rimesso alla libertà dei singoli.
Non facendosi più in comune ogni esercizio di pietà si può affermare che la comunione tra i membri della stessa famiglia tende a diventare solo comunione di mensa e di domicilio. E’ ovviamente una contraddizione in termini entrare in una comunità per fare isolatamente e pere poco conto proprio le cose che ci si associa per fare in comune.

domenica 22 aprile 2012

P. Serafino Lanzetta, un nuovo libro sul Vaticano II per un approccio più fedele





Come capire il Concilio Vaticano II? Cosa ha rappresentato l’ultima grande assise ecumenica per tutta la Chiesa? Una svolta per molti. Un cambiamento radicale per tanti. Un aggiornamento. La domanda ci coglie divisi, non tanto impreparati. Sembra strano ma è sempre più difficile trovare una via di dialogo e di confronto sereno all’interno del cattolicesimo.

Il motivo della divisione sta probabilmente in un approccio alquanto moderno o post-moderno al problema, che non funziona: tutto il Concilio Vaticano II si risolve in un problema di adattamento ermeneutico più o meno riuscito alla modernità? Era necessario un Concilio per rispondere alle sfide del nostro tempo? La domanda non vuole essere storica perché la storia non si cambia. Dovremmo perciò imparare a vedere con la Chiesa una ed ininterrotta che un concilio si osserva a partire dalla Chiesa e da essa lo si giudica: se il Concilio ha raggiunto il suo fine non dipende solo dallo stesso Concilio, ma anche dalla fede che ha insegnato. E dal lavoro che si renderebbe necessario se ci accorgessimo d’imprecisioni, d’arbitrarie prese di posizione o intoppi di sorta (dalla IV di copertina).

Perché è opportuno discutere sul Concilio Vaticano II

Il lavoro teologico più urgente, che oggi si necessita nella compagine ecclesiale, è quello di far luce sul Vaticano II come uno dei diversi concili della Chiesa. Non l'unico né l'ultimo. Uno dei 21, con un taglio sui generis rispetto a quelli dogmatici immediatamente precedenti, che non può però essere inteso come lo spartiacque della storia. Non può essere un nuovo cominciamento, perché la Chiesa non inizia da un concilio ma dalla volontà istitutrice di Cristo per portare il Regno di Dio ad ogni uomo e favorire l'ingresso di ogni uomo in questo Regno. Purtroppo, il Vaticano II è stato letto abbondantemente come "nuovo inizio". Le maglie ampie della pastoralità e della non-definizione, furono viste, scorrettamente, come possibilità di dire pastoralmente la fede, in modo da non dover più contraddire l'altro (ad intra ma soprattutto ad extra). La diversità declinata come pluralismo fu la condizione previa e necessaria del dialogo. Col risultato però di aver smarrito profondamente l'identità cattolica, perché frammischiatasi spesso con il mondo, la modernità, la politica, l'antropocentrismo.

Crollati ora i modelli culturali sui quali si era basata la modernità, perché inverati dalla liquidità del post-cristianesimo, sembra che siano venuti meno anche i presupposti sui quali scommettere per una "riscrittura" della fede cominciando dalla riscrittura dei trattati teologici. I zelanti persecutori di un Vaticano II come speranza del cominciamento, ora fanno i conti con una domanda, che poi è anche la nostra: che cosa non ha funzionato? Perché la Chiesa non è (ancora) veramente ripartita ma si trova a fare i conti con un vuoto di senso? Forse è prevalso lo "spirito" più che il «Concilio vero»? (per dirla con Ratzinger). Il «Concilio vero», poi, è da leggersi nella continuità dell'ininterrotta Tradizione e alla luce di questa. Per il fatto, ripetiamolo, che la Chiesa non inizia dal Concilio, ma un concilio si celebra nella Chiesa e per la Chiesa. Bisogna correggere, se si dovesse, non la Chiesa, non la sua ininterrotta Traditio, ma quegli elementi più teologici e discorsivi del Concilio che hanno dato parvenza di stridore, o che si son prestati a letture equivoche. Non è in discussione la provvidenza del Concilio per il nostro tempo e la sua inerranza (assenza di errori) in materia di fede e di morale (ma non in materia di sport, di comunicazione sociale, di scelte politiche, di profezie sul tempo che è da venire, ecc.). L'assistenza dello Spirito Santo impedisce la presenza nei testi conciliari di errori ma non consacra, sic et simpliciter, l'infallibilità magisteriale del tutto. Bisogna distinguere per capire meglio.

Sì, bisogna conservare veramente una mente aperta per leggere il Vaticano II. Non ci si può semplicemente scandalizzare, quando si tenta - con tutti i limiti certo, perfezionabili da una nuova lettura più arguta e più precisa, un meliore iudicio - una lettura sanamente critica, un giudizio teologico. La teologia, se non ha smarrito il suo compito, è scienza della fede, intelligenza del dato rivelato alla luce del Magistero della Chiesa. Nei suoi limiti ha il compito di indicare ciò che a parer dell'osservatore sembra perfettibile. Per il bene della fede nella sua unità, di ieri come di oggi. Se si interviene nel dibattito bisogna dire ciò che è sbagliato circa il giudizio di perfettibilità, ma non raccontare le proprie impressioni. Né si può semplicemente squalificare la ricerca e la critica, dicendo che il S. Padre, con il suo ormai famoso discorso del 22 dicembre 2005, non avrebbe affatto inaugurato una discussione sul Concilio. Questa visione tranciante permetterebbe di risolvere in nuce il problema del tradizionalismo: il Concilio non si discute! Basta l'ermeneutica della riforma nella continuità.

Certo, il S. Padre non ha aperto una discussione. Quando però veramente e di proposito nella storia il Pontefice ha aperto una disputa teologica? Piuttosto l'ha moderata o, quando era arrivata al limite del sopportabile, l'ha sospesa. Si ricordi il problema del rapporto natura e grazia. Altre volte ne è stato indirettamente fautore. Si pensi ad esempio all'istituzione della festa in occidente del "Concepimento immacolato di Maria" (sec. X) attraverso vari monasteri e chiese cattedrali. Anche se la Curia romana non la festeggiava, Bonifacio VIII però la indulgenziò.
Il Papa voleva dire che la Madonna è immacolata concezione, redenta in modo preventivo? Si era aperta, di fatto, una proficua discussione, che vide i francescani attori intrepidi di una difesa di Maria preservata dal peccato originale, sin dal primo istante del suo concepimento. Si arrivò poi alla definizione del dogma nel 1854. Speriamo pure che la rinuncia di Benedetto XVI al titolo "Patriarca d'occidente", sia presa in seria considerazione ecclesiologica, per spiegare che non c'è nella Chiesa, né è possibile, una sinodalità sempre in atto. La Chiesa è comunione non comunità di comunità.

Se il Magistero ora lascia aperta la discussione perché dobbiamo noi volerla chiudere? Solo per paura di scandalizzare i semplici? Ma non è forse vero che lo scandalo di una fede desolata sotto gli occhi delle nostre parrocchie - quasi tutte nate col Concilio - è molto più pernicioso di una cattolica messa a punto per una vera ripresa della fede? Se invece si insiste nel ritenere il Concilio intoccabile perché dono dello Spirito Santo, allora, probabilmente si è incorsi nell'errore che oggi è sulla bocca di molti: identificare il soffio dello Spirito Santo con il Concilio (senza le opportune distinzioni) e finalmente lo Spirito Santo con il Concilio stesso. Questo è in ultima analisi il parto di quello "spirito del Concilio", che funesta da mane a sera, e diventa giudice e fautore ora della Chiesa, ora della fede, ora della prassi. Proprio questo non funziona.

Per molti, infine, il vero problema oggi nella Chiesa sono le cose che non vanno, questo o quel gruppo. I tradizionalisti o, per altri, i progressisti. Questa è una visione piuttosto pragmatica della realtà: la bontà di un'azione la si giudica dal risultato degli effetti e non dall'in sé, dall'oggettività. Non è la prassi che non va ma le idee. Forse perché mancano. Manca uno sguardo metafisico su Dio e sull'uomo, e questo ci impedisce di rivolgerci al vero problema. Se solo riuscissimo a vederlo avremmo già fatto un grande passo in avanti. Saremmo cioè già usciti dalla mentalità della prassi, che ahimé domina. Molto spesso a discapito del Concilio. Ma soprattutto della Chiesa.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
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L'Autore del libro: P. Serafino M. Lanzetta (1977), frate francescano dell’Immacolata, è docente di teologia dogmatica presso l’Istituto teologico Immacolata Mediatrice (Cassino). È parroco della Chiesa di Ognissanti in Firenze e dal 2006 dirige la rivista teologica «Fides Catholica». Ha pubblicato diversi studi di ricerca in ambito mariologico, dove si segnala la sua tesi di dottorato sul Sacerdozio della Vergine Maria (Roma 2006), e in altri ambiti della dogmatica. Scrive per alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e collabora con diverse riviste. Sta per conseguire presso la Facoltà teologica di Lugano l’abilitazione alla libera docenza, con una tesi sull’ermeneutica del Concilio Vaticano II, sotto la direzione del Prof. Dr. Manfred Hauke.

[Fonte: Approfondimenti di Fides Catholica]

giovedì 19 aprile 2012

Istituto del Buon Pastore - La visita canonica, un monito




In questi ultimi giorni è apparso su internet il resoconto della visita canonica della commissione Ecclesia Dei all’Istituto del Buon Pastore. Questa comunità composta inizialmente da ex membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fu riconosciuta da Roma con il privilegio di celebrare esclusivamente la Messa tradizionale e di poter apportare “una critica seria e costruttiva” al Concilio Vaticano II.

Le note che fanno seguito alla visita canonica mostrano chiaramente come la volontà della commissione Ecclesia Dei sia di ricondurre il Buon Pastore all’accettazione, almeno in via di principio, della liturgia moderna, nello spirito del Motu proprio Summorum Pontificum. Allo stesso modo si spinge a riconoscere la validità dell’insegnamento del Catechismo della Chiesa cattolica che sintetizza, con dottrina tradizionale, le novità del Concilio Vaticano II, in opposizione al magistero perenne della Chiesa. Nessuna volontà quindi di un ritorno alla tradizione ma pressioni progressive per amalgamare i “dissidenti” e ricondurli nel girone della “chiesa conciliare” e delle sue dottrine che devono essere insegnate nel seminario dell’istituto.

Il problema di coscienza che si pone per ogni cattolico, maggiormente per un sacerdote e per una comunità religiosa, è rinunciare ad opporsi al nuovo rito, e questo non per un attaccamento nostalgico alla liturgia tradizionale, ma perché, come lo ricordavano i Cardinali Bacci ed Ottaviani, “si allontana in maniera impressionante dalla teologia cattolica della Messa come è stata definita dal Concilio di Trento.”[1] Inaccettabili dal punta di vista della fede sono anche le nuove dottrine come quella sul valore salvifico di tutte le religioni; sull’ecumenismo e la non perfetta identità fra la Chiesa di Cristo e la Chiesa Cattolica; sulla libertà religiosa; sulla collegialità episcopale etc.

Una pubblica e coraggiosa opposizione a questi errori, senza ambiguità e malgrado qualunque persecuzione, oltre ad essere un dovere, è anche indispensabile per il bene della Chiesa poiché è così che si potrà contribuire a farla uscirà dalla terribile crisi che subisce oggi.

don Pierpaolo Maria Petrucci



[1] Lettera di accompagnamento al Breve esame critico del Novus Ordo Missae

Fonte: FSSPX

mercoledì 18 aprile 2012

FSSPX - ROMA? ANCORA NESSUN ACCORDO!




Da quanto possiamo leggere nel sito Dici c'è una chiara smentita riguardo l'accordo tra la Fraternità e Roma annunciato in questi giorni da alcuni editoriali europei:

Comunicato della Casa Generalizia della Società San Pio X (18 aprile 2012)

I media annunciano che il vescovo Bernard Fellay ha inviato una "risposta positiva" alla Congregazione per la Dottrina della Fede, e che pertanto la questione dottrinale tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X è ora risolto.
La realtà è diversa.
In una lettera del 17 aprile 2012, il Superiore Generale della Fraternità San Pio X ha risposto alla richiesta di chiarimenti che era stato fatto a lui il 16 marzo dal cardinale William Levada, relativa alla preambolo dottrinale consegnato il 14 settembre 2011. Come il comunicato stampa in data odierna presso la Pontificia Commissione Ecclesia Dei indica, il testo di questa risposta "sarà esaminata dal Dicastero (Congregazione per la Dottrina della Fede), poi presentato al Santo Padre per il suo giudizio".
Si tratta quindi di uno stadio e non una conclusione.

Menzingen, 18 aprile 2012

La Fraternità conferma la sua risposta a Roma, anche la Santa Sede conferma.


Le porte-parole de Mgr Fellay confirme l’envoi au Vatican du préambule clarifié
Jacques Berset, Apic

Paris/Menzingen, 18 avril 2012 (Apic) Entre Rome et la Fraternité Saint-Pie-X, "on est encore dans la phase d’étude", a déclaré mercredi 18 avril à l’Apic l’abbé Alain Lorans, responsable à Paris de la communication de la Fraternité sacerdotale Saint-Pie X (FSSPX).

Mgr Fellay Ordinations à Ecône en 2009 (Photo: Jacques Berset)
» agrandirCommentant la nouvelle publiée la veille par le vaticaniste Andrea Tornielli sur le site "Vatican Insider", le porte-parole qualifie de "positif" le fait que Mgr Bernard Fellay, supérieur général de la FSSPX, ait répondu en début de semaine aux demandes de clarification du cardinal William Levada, préfet de la Congrégation romaine pour la Doctrine de la Foi. Mais "tout n’est pas encore réglé", souligne-t-il.
Trop vite en besogne
L’abbé Alain Lorans estime qu’Andrea Tornielli va peut-être trop vite en besogne, car le pape Benoît XVI et la Congrégation pour la Doctrine de la Foi doivent encore examiner les éclaircissements apportés par Mgr Fellay concernant le préambule doctrinal soumis en septembre 2011. La Congrégation pour la doctrine de la foi (CDF) avait demandé à la Fraternité Saint-Pie-X, le 16 mars 2012, de clarifier sa position sur ce préambule doctrinal lors d’une rencontre au Vatican avec son supérieur général. La Fraternité avait jusqu’au 15 avril pour donner une nouvelle réponse, ce qui a été fait.
Le responsable à Paris de la communication de la Fraternité attend le communiqué du Vatican – qui devrait tomber, selon lui, mercredi 18 avril - pour faire une communication officielle. Si l’information était confirmée, elle marquerait la fin d’une séparation de près de 24 ans, après la rupture causée par le "schisme d’Ecône" de 1988 qui avait vu l’excommunication de Mgr Marcel Lefebvre pour avoir ordonné quatre évêques traditionalistes sans l’aval de Rome.

Fonte: apic/be via il Blog degli Amici di Papa Ratzinger 5

QUI UNA TRADUZIONE



COMUNICATO DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE ECCLESIA DEI - 18.04.2012

In data 17 aprile 2012 è pervenuto, come richiesto nell’incontro del 16 marzo 2012, svoltosi presso la sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il testo della risposta di S.E. Mons. Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Il suddetto testo sarà esaminato dal Dicastero e successivamente sottoposto al giudizio del Santo Padre.

fonte: vatican.va

Lefebvriani, la risposta positiva è arrivata (?)





ANDREA TORNIELLI

CITTÀ DEL VATICANO


La risposta della Fraternità San Pio X è arrivata in Vaticano ed è positiva: secondo le indiscrezioni raccolte da Vatican Insider il superiore dei lefebvriani, il vescovo Bernard Fellay, avrebbe firmato il preambolo dottrinale che la Santa Sede aveva proposto lo scorso settembre, come condizione per arrivare alla piena comunione e all’inquadramento canonico.


Una conferma ufficiale dell’avvenuta risposta dovrebbe avvenire nelle prossime ore. Da quanto si apprende, il testo del preambolo inviato da Fellay propone alcune modifiche non sostanziali rispetto alla versione consegnata dalle autorità vaticane: come si ricorderà, la stessa Commissione Ecclesia Dei non aveva voluto rendere pubblico il documento (due pagine piuttosto dense), proprio perché c’era la possibilità di introdurre eventuali piccole modifiche che però non ne stravolgessero il senso.


In sostanza, il preambolo contiene la «professio fidei», la professione di fede richiesta da chi assume un ufficio ecclesiastico. E dunque stabilisce che va dato un «religioso ossequio della volontà e dell’intelletto» agli insegnamenti che il Papa e il collegio dei vescovi «propongono quando esercitano il loro magistero autentico», anche se non sono proclamati e definiti in modo dogmatico, come nel caso della maggior parte dei documenti del magistero. La Santa Sede ha più volte ripetuto ai suoi interlocutori della Fraternità San Pio X che sottoscrivere il preambolo dottrinale non avrebbe significato porre fine «alla legittima discussione, lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II».


Ora il testo del preambolo con le modifiche proposte da Fellay, e da lui sottoscritto in quanto superiore della Fraternità San Pio X, sarà sottoposto a Benedetto XVI, che il giorno dopo l’ottantacinquesimo compleanno e alla vigilia del settimo anniversario dell’elezione, riceve una risposta positiva dai lefebvriani. Risposta da lui lungamente attesa e auspicata, che nelle prossime settimane metterà fine alla ferita apertasi nel 1988 con le ordinazioni episcopali illegittime celebrate dall’arcivescovo Marcel Lefebvre.

Non è escluso che la risposta di Fellay venga esaminata dai cardinali della Congregazione per la dottrina della fede, nella prossima riunione della «Feria quarta», che dovrebbe tenersi nella prima metà di maggio. Mentre qualche settimana in più sarà necessaria perché avvenga la sistemazione canonica: la proposta più probabile è quella di istituire una «prelatura personale», figura giuridica introdotta nel Codice di diritto canonico nel 1983 e finora utilizzata solo per l’Opus Dei. Il prelato dipende direttamente dalla Santa Sede. La Fraternità San Pio X continuerà a celebrare la messa secondo il messale antico, e a formare i suoi preti nei suoi seminari.

martedì 17 aprile 2012

AMERIO - IOTA UNUM - LA CATECHESI





Ringrazio l'amico Piero Mainardi per aver riportato, in forma sintetica, importanti passaggi del libro di Romano Amerio, Iota Unum, e di avermi concesso di riportarli nel mio blog.

CAP. XIII – LA CATECHESI

1.1   La dissoluzione della catechesi. Il Sinodo dei vescovi 1977 – 

Levata l’autorità del maestro e sciolta la verità in pura euristica (un procedimento che si affida più all’intuito e allo stato delle circostanze che a un metodo chiaro e preciso nella ricerca) la riforma della catechesi non ha potuto trattenersi dal volgere a deviazioni eterodosse che insieme alla variazione del metodo comportano variazione dei contenuti.
Già il convegno di Assisi del 1969 sull’insegnamento religioso preconizzava l’abbandono di ogni contenuto dogmatico e la surrogazione dell’insegnamento della religione cattolica (considerato un ingiusto privilegio in un paese democratico) con quello della storia delle religioni.
Nel Sinodo dei Vescovi del 1977 la catechesi trasgredì in sociologia, nella politica, nella teologia della liberazione. Pochi esempi. Peri vescovo di Saragozza la catechesi “deve promuovere la creatività degli allievi, il dialogo, la partecipazione attiva, senza dimenticare che è azione della Chiesa”. La creatività è un assurdo metafisico e morale e comunque non può realizzare il fine della catechesi, giacché l’uomo non può autorealizzarsi, il fine gli è dato e deve solo volerlo.
Per padre Hardy “la catechesi deve portare all’esperienza del Cristo”, che è proposizione confondente l’ideale col reale, trapassante nel misticismo. La catechesi è per sé cognizione e non esperienza, benché ordinata alla esperienza della vita.
Peri il card. Pironio “la catechesi si sprigiona dall’esperienza profonda di Dio nell’umanità cristiana ed è una più profonda assimilazione dell’amore e della fede”. Vi sono sentori modernisti in tali asserti. La catechesi è la dottrina e non si sprigiona dall’esperienza esistenziale dei credenti.
Essa discende dall’insegnamento divino e non è prodotta, ma produce l’esperienza religiosa.
Un vescovo del Kenia afferma che “la catechesi deve impegnarsi a denunciare le ingiustizie sociali e difendere le iniziative di liberazione sociale dei poveri”. Così si degrada la parola di vita eterna a un intendimento economico e sociale.

1.2   La dissoluzione della catechesi. Padre Arrupe. Card. Benelli – 

Oltre l’idea della socialità e della creatività dominò il Sinodo l’idea del pluralismo, padre Arrupe: “Lo Spirito appaga l’intima aspirazione dell’uomo di congiungere le esigenze apparentemente antitetiche di una radicale unità con altrettanto radicale diversità”. Se così fosse sembrerebbe essere la contraddizione il fondo del pensiero umano e non l’identità.
P. Arrupe poi non vuole nella catechesi “definizioni complete, strette, ortodosse, perché potrebbero portare  auna forma aristocratica e involutiva”. Come se la verità e l’ortodossia fosse un disvalore e l’autentica catechesi nascesse dalla oclocrazia (predominio della folla, plebe).
Qui si vuole la pluralità dei catechismi perché tutte le opposizioni che fanno lo specifico delle dottrine si risolvono in un’identità di fondo che oltrepassa lo specifico delle dottrine.
Il Card. Benelli parlando a insegnanti di religione, ha preconizzato che la scuola di religione “debba favorire il confronto obiettivo con altre visioni di vita che occorre conoscere, valutare ed eventualmente integrare”. Il cardinale non vede nel mondo mentale  e religioso alcun errore, ma solo cose da integrare. Inoltre “l’unica maniera di insegnare la religione cattolica è di fare una proposta di vita”.
I due caratteri della nuova catechesi, essere ricerca anziché dottrina e mirare a produrre risposte esistenziali anziché una persuasione intellettuali si rispecchiano nella soluzione data al problema della pluralità dei catechismi e della memorizzazione. Dove non si dà contenuto dogmatico a cui assentire non occorre avere un unico catechismo universale non essendovi formule di fede cui aderire.
La forma amebea con domanda  e risposta rispecchia l’indole didattica e  non euristica della catechesi cattolica la quale, essendo proposizione di verità, non interroga supponendo (metodicamente) dubbia la risposta, ma risponde assertoriamente il vero.
Ma memorizzazione venne squalificata e vilipesa dai pedagoghi e invece si accompagna naturalmente al concetto di catechesi come comunicazione di conoscenze.
Un vescovo dell’Equatore affermò che “la catechesi consiste non tanto in quel che si ascolta ma in quel che si vede in chi la fa”. Qui la verità viene fatta minore dell’esperienza vitale e il Vangelo è legato non alla virtù propria di esso ma alla virtù del predicante.
Lo spostamento antropocentrico per cui si fa dipendere l’effetto della catechesi più dalla virtù del parlante che dalla virtù della verità è un altro errore in cui si cela la CONFUSIONE DELLE ESSENZE.

1.3   La dissoluzione della catechesi. Le Du. Charlot. Mons. Orchampt.

Il catechismo olandese, espressione dell’alienazione dall’ortodossia rimbalzò nella Chiesa universale. Stupivano due cose: al temerità delle novazioni che dalla negazione degli angeli, del diavolo, del sacerdozio sacramentale avanzava al rigetto della presenza eucaristica e alla dubitazione dell’unione teandrica; ma anche la fiacca condanna della Santa Sede.
Questa, dopo aver sottoposto il Catechismo a una congregazione straordinaria di cardinali che vi troverò errori ambiguità omissioni ( e le editorie cattoliche se ne contesero in tutti i paesi il privilegio di stampa). Alla divulgazione la Santa Sede appose la sola condizione che si allegasse il decreto che lo aveva condannato.
Ma il Catechismo olandese fu accolto dappertutto come “la migliore presentazione che della fede cattolica si potesse afre all’uomo moderno”. Nonostante il giudizio della Santa Sede i vescovi lo introdussero nelle pubbliche scuole e lo difesero di fronte ai genitori che lo consideravano come un insegnamento corruttore impartito dai preti con l’approvazione del vescovo.  Il catechismo fu soppresso soltanto nel 1980 dopo il Sinodo Straordinario dei Vescovi olandesi tenuto a Roma sotto al Presidenza di Giovanni Poalo II.
Gli Uffici della diocesi di Parigi per la catechesi pubblicarono testi che inforsavano il dogma, stravolgevano la Scrittura, corrompevano la morale.
Qui fait la loi? Di Jean Le Du impugnava la storicità della legislazione sinaitica, che sarebbe una “operazione fraudolenta di Mosè per consolidare la sua autorità”, confermando al tesi irreligiosa di Voltaire e togliendo alla Legge la sua origine divina, naturale e rivelata per farne una produzione della diveniente coscienza dell’uomo che si libera del mito.
In Dieu est-il dans l’hostie? Leopold Charlot afferma che c’è un modo differente di tempo in tempo di intendere tale presenza e che il modo proprio del nostro tempo è di intendere  tale presenza reale come presenza non reale, ma immaginativa e metaforica. Insegna che l’eucaristia fu istituita non da Cristo nell’Ultima Cena ma dalla comunità cristiana primitiva. Pane e vino restano  pane  e vino, sono solo segni convenzionali della presenza di Cristo nel popolo dei fedeli.
Lo scandalo consiste nel fatto che un prete portante, per investitura del suo vescovo, la responsabilità della catechesi, neghi in un catechismo ufficiale il dogma eucaristico e lo faccia con animo tranquillo. Ma siccome è legge psicologica  e morale che le responsabilità non discendano, ma ascendono, assai maggior disordine è che tale blasfemia sia propagata in un catechismo del vescovo, che è maestro della fede e custode del gregge contro i lupi dell’eresia.
Ma mons. Orchampt, vescovo d’Angers non ritirò l’opera che impugnava il dogma pur ammettendo che tale opera mutilava il dogma affermava che un vescovo “deve invitare a coloro che la utilizzano alla critica e all’approfondimento per il necessario sforzo per il il rinnovamento pastorale”. Per il vescovo l’importate è che la tesi dell’autore (che non rimuove) non la si tenga esclusivamente e non chiede una CONFUTAZIONE ma un APPROFONDIMENTO, VOCABOLO CHE NELL’ERMENEUTICA NEOTERICA SIGNIFICA BATTERE E RIBATTERE IN INFINITO SU UN PUNTO DOGMATICO FINCHE’ ESSO SI SCIOLGA INTERAMENTE NEL SUO CONTRARIO.

1.4   Rinnovamento e inanizione della catechesi in Italia – 

La delegazione dell’autorità magisteriale delle Conferenze episcopali a preti della scuola neoterica si palesò anche nella commissione di redigere il catechismo data a intellettuali di opzione marxistica i quali defezionarono poi clamorosamente candidandosi nelle liste del PCI. Nel Catechismo dei giovani (1979) la preoccupazione ecumenica, arbitrariamente interpretata, fa affermare agli autori: ”un combaciamento della ricerca esegetica cattolica con quella protestante” che in realtà non può darsi perché i protestanti non riconoscono sopra il lume privato il lume esegetico del magistero di Pietro.
Anche uno degli articoli principali della dottrina cattolica gli autori lo indeboliscono accostandosi alla dottrina modernista: non il fatto dei prodigi precede la fede, ma la fede fa essere nella persuasione dei credenti il fatto dei prodigi.
Anche nel Catechismo dei fanciulli (1976) pubblicato dalla CEI l’ecumenismo viene guardato come riconoscimento, più o meno appariscente, di valori identicamente contenuti in ogni credenza religiosa. Perciò non si  mai vero passaggio dall’una all’altra ma soltanto approfondimento della propria verità nell’altrui verità in un mutuo arricchimento.
I catecumeni nell’età puerile sono distolti dallo specifico della religione cattolica. La catechesi è detto “deve aiutare i fanciulli a collaborare con tutti gli uomini perché vi sia libertà, giustizia  e pace, senza tuttavia cessare di riconoscere nella fede e nei sacramenti la sorgente di forze spirituali”. Questo “tuttavia” è significativo perché serve a mantenere la fede e i sacramenti davanti all’epocazione (cioè alla messa tra parentesi) dello specifico del cattolicesimo. Si tace del peccato, dell’errore, del Vae, della redenzione, del giudizio, del fine trascendente. Il cristianesimo è ridotto a qualcosa di appendicolare, di sussidiario  e di cooperante.


1.5   Il convegno dei catechisti romani attorno al Papa (1981) –


Il Papa Giovanni Paolo II  distingue la catechesi, opera diretta della Chiesa, dall’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, che incombe allo Stato come parte organica della formazione dell’alunno. Egli afferma il dovere da parte dello Stato di “rendere tale servizio agli alunni cattolici che costituiscono la quasi totalità degli studenti” e alle loro famiglie che “logicamente si presumono volere un’educazione inspirata ai propri principii religiosi”. Ma nonostante tali dichiarazioni al Convegno vi furono molte proposte e opinioni che si risolvono nella reiezione dell’insegnamento cattolico. Parecchi relatori risolsero la religione cattolica in religiosità cristiana sincretistica, altri in religiosità naturale, altri in espressione di libertà, tutti toccano la crisi di identità del sacerdote. All’insegnamento religioso non fu trovato altro motivo che quello dell’esigenza culturale, per cui la cognizione del mondo ebraico e cristiano non serve ai giovani che per intendere i valori costitutivi della civiltà moderna. Non fu trovato altro fine alla catechesi che quello di render noto ai giovani il ventaglio delle ideologie “per renderli capaci poi di effettuare scelte libere”.
Non essendo essa la sola portatrice di valori religiosi nella scuola italiana “non dovrebbe essa sola entrare nella scuola per fare lezione  di religione”. Conviene quindi abrogare in Concordato che privilegia la religione cattolica.
Non fu trovata ragione peculiare alla verità cattolica e si affermò che “i catechisti non sono pagati per fare catechesi e per insegnare una fede, ma sono al servizio della persona umana”. Si tratta dicono, di un lavoro di precatechesi, si preevangelizzazione.
Lo svuotamento della catechesi è manifesto dalle proposte del documento finale: che si celebri Messa per gli studenti in procinto di affrontare gli esami, che si celebri  a Roma una giornata per la Scuola, che il Papa riceva in udienza i catechisti romani, che il Papa compia una visita a “una quinta ginnasio di una scuola pubblica”.

Cose buone ma del tutto estranee alla questioni dibattute. Viene fatto di credere che tale esito sia stato un espediente per non rispecchiare nel documento conclusivo la singolarità delle opinioni espresse poche consentanee con la filosofia  e la prassi tradizionale della Chiesa.

1.6   Antitesi della nuova catechesi alle direttive di Giovanni Paolo II. – 

La mentalità del clero al Convegno è notabile perché appare in aperta contrapposizione al Pontefice. La nuova catechesi è di stampo esistenziale e promuove un’esperienza di fede, e il Papa invece afferma il carattere intellettuale della catechesi e vuole che i catecumeni siano penetrati di certezze semplici ma ferme. La nuova catechesi vuole invece l’adattamento della catechesi alle singole storiche culture, e il Papa invece ribadisce che è necessario possedere durevolmente, cioè nella MEMORIA, le parole di Cristo, i principali testi biblici, i testi liturgici. La nuova catechesi invece procede con un dialogo paritario, euristico, fondato sulla specificità de vero, e il Papa rifiuta come pericoloso quel dialogo.
La nuova catechesi si propone di guidare il catecumeno a un’esperienza del divino e del Cristo, e il Papa invece definisce la catechesi come “instutio doctrinae christianae”, istruzione che mira sempre meglio a far conoscere e sempre più fermamente assentire alla verità divina e non già a sviluppare e affermare la personalità del catecumeno.    
Nella crisi della catechesi è riflesso il presente smarrimento della Chiesa, del deprezzamento dell’ordine teoretico, l’incertezza  non solo dottrinale ma anche dogmatica, l’allargamento dello spirito soggettivo, il dissenso tra i vescovi, e tra i vescovi e la Santa Sede, la repulsa per gli atteggiamenti fondamentali della pedagogia cattolica, la prospettiva temporale e l’antropocentrismo.

1.7   La catechesi senza la catechesi – 

La catechesi neoterica è segnata da due momenti intrinsecamente legati: quello metodico che è l’abbandono della metodologia cattolica della trascendenza del vero all’intelletto che lo apprende, e un momento dogmatico che è l’abbandono della certezza di fede sostituita dall’esame e dall’opzione soggettivi.
L’episcopato francese promulgò un proprio catechismo nel 1982, Pierres vivantes, che non ottenne l’approvazione della Santa Sede ed era accompagnato dalla proibizione di utilizzare qualsiasi altro catechismo. Il Card. Ratzinger andò nel 1983 a Lione a tenere una conferenza sulle attuali condizioni della catechesi, parlando di “miseria della nuova catechesi”.
Il cardinale riprova la nuova catechesi perché invece di avanzare verità, a cui si presta l’assenso di fede, propone i testi biblici lumeggiati secondo il metodo storico-critico e rimette all’esame del catecumeno di dare o ritenere l’assenso. La verità di fede, che la Chiesa annuncia, vengono staccate dalla Chiesa, che ne è l’organismo vivente e poste immediatamente al credente chiamato a divenirne interprete e giudice. La Bibbia così staccata diviene un puro documento soggetto alla critica storica, con la chiesa abbassata alla critica soggettiva.
La deviazione consiste essenzialmente nel “dire la fede direttamente dalla Bibbia senza farla partire dal Dogma”, che è l’errore luterano che nega il Magistero e la Tradizione  alterando la Bibbia stessa, “staccata dall’organismo vivente della Chiesa”. L’adesione alla verità religiosa prende la forma di un atto individuale fuori della comunità voluta da Cristo.
Ratzinger toccò chiaramente gli errori dogmatici che viziano la catechesi neoterica: la creazione non è professata chiaramente né costituisce il discorso iniziala dell’istruzione, peraltro identificata  con la creazione che Dio fa del suo popolo liberandolo dalla Schiavitù. La nascita verginale di Cristo non ha in questo catechismo alcuna connotazione dogmatica: si tace dell’Immacolata, del parto verginale, della Madre di Dio. La Risurrezione di Pasqua è un evento pneumatico avente realtà nella fede della comunità primitiva e anche la resurrezione dai morti è cosa soltanto creduta.
 L’Ascensione è pura metafora dell’indiamento morale del Cristo, “salire al Cielo è una immagine per dire che è nella gioia del suo Padre”. Si insegna che “al quarantesimo giorno dopo Pasqua i CRISTIANI CREDONO è salito sopra tutto”. L’Eucaristia è ridotta alla memoria che la comunità cristiana celebra della cena del Signore.

1.8   Restaurazione della catechesi – 

Per Ratzinger la catechesi cattolica è una didattica, cioè una comunicazione di verità, e il suo contenuto è il dogma della Chiesa, cioè NON GIA’ LA PAROLA DELLA BIBBIA, storicamente e filologicamente astratta, bensì la parola della Bibbia conservata e comunicata agli uomini dalla Chiesa. Non si può, come pretende il catechismo francese, differire all’età dell’adolescenza l’insegnamento dei dogmi e intanto accostare il fanciullo alla Bibbia con un senso storicistico applicato alla Rivelazione che consuona con la dottrina modernistica  del divino come noumeno inconoscibile che lo spirito dell’uomo riveste in mille fogge.
A tale storicismo Ratzinger contrappone il carattere intellettuale che mira alla trasmissione di conoscenze e non all’esperienza esistenziale. Certo si insegnano le verità di fede affinché diventino pratica  evita, ma l’oggetto proprio della catechesi è al conoscenza e non già direttamente l’eresia. Il cardinale vuole che la materia sia ordinata secondo o schema del catechismo dello schema tridentino. Bisogna insegnare ai fanciulli che cosa il cristiano deve credere, con l’esposizione del Credo; che cosa deve desiderare e pregare  da Dio, ed è la spiegazione del Padre Nostro;  infine che cosa si deve fare, ed è la lezione del Decalogo.
A questi tre parti del catechismo viene a integrarsi la trattazione dei sacramenti, perché solo con l’ausilio della grazie, che si comunica nei sacramenti, l’uomo divien capace di adempiere la legge morale confermata e sopraelevata dalla legge evangelica. E Ratzinger richiama anche la necessità dell’uso della memoria e del metodo amebeo (domanda – risposta).

La grave censura mossa dal Cardinale Ratzinger al catechismo francese ha ancora tutto il suo valore teoretico dottrinale anche se il Cardinale, che l’aveva esposta in un discorso stampato in venti pagine, la ritrattò in una dichiarazione di venti righe in comune accordo con l’episcopato francese.

lunedì 16 aprile 2012

Roma e la Verità Rottura o conciliazione?




di Marco Bongi

Nei discorsi, negli articoli, nei dibattiti in rete di queste ultime settimane, man mano che i tempi del confronto fra autorità romane e FSSPX si fanno più serrati, emerge, spesso fra le righe, ma anche a volte apertamente, un dualismo di posizioni che sembra sostanzialmente irriducibile e insuperabile.

Eccone, in estrema sintesi, i punti cardine.
C'è chi, pur con tutti i distinguo e le precisazioni del caso, gradirebbe, in fin dei conti, un sacrificio, parziale e contingente finchè si vuole, della Verità in ossequio della Romanità e del principio di Autorità del Sommo Pontefice.
Altri, al contrario, sarebbero disposti a sacrificare, sempre comunque per fattori contingenti, questi ultimi valori teologici, pur di non transigere sulle Verità di Fede.
Intorno a questo nodo si stanno versando fiumi di inchiostro e chilometri di pagine WEB, senza contare i commenti ai post, sempre più schierati ed irriducibili.

Esiste però, mi chiedo, un'assoluta inconciliabilità fra tali due posizioni?
Essere, in altre parole, intransigenti sulle Verità di Fede, significa inevitabilmente non amare il Papa e ciò che Egli rappresenta?
E... al contrario: riconoscere e rispettare Benedetto XVI, deve voler dire, forzatamente, chiudere un occhio sulle evidenti contraddizioni del Magistero conciliare rispetto alla Tradizione Cattolica di sempre?

Francamente non lo credo. Penso anzi che la legge della Carità imponga ad ogni cattolico, guidato dalla retta ragione, di usare, verso il Pontefice come nei confronti dell'ultimo dei fratelli, sempre la Carità nella Verità e la Verità nella Carità.
Se, per ipotesi, si dovesse giungere ad una rottura fra Roma e la FSSPX, i responsabili della Fraternità dovrebbero comunque sempre rispettare la figura e la persona del Papa, rivolgersi a Roma, andare a Roma, invocare Roma, supplicare Roma affinchè siano riconosciuti e corretti gli errori e le ambiguità dottrinali di questo tempo tribolato.
Se, al contrario, si dovesse giungere ad una riconciliazione, ciò non significherebbe automaticamente la fine delle critiche e delle richieste di chiarificazione che, in ogni caso, concernono punti estremamente importanti della Fede e della teologia.

In ogni caso, come sta del resto facendo comunque sempre mons. Fellay, andrebbero bandite assolutamente espressioni irrispettose, maliziose ed offensive nei confronti del Pontefice.
Anche le obiezioni più motivate e gravi, come ad esempio in relazione al raduno di Assisi, dovrebbero, a mio parere, essere espresse in forma di supplica od appello.
Prese di posizione acide e saccenti finiscono, in fin dei conti, per apparire, e spesso essere, null'altro che espressioni di quello "zelo amaro" che non porta mai frutti positivi nè soluzione ai problemi.

Restiamo dunque in orante attesa ed uniamoci all'auspicio espresso dall'ultimo comunicato della Casa Generalizia FSSPX affinchè sempre "fiat voluntas Tua".

AD MULTOS ANNOS, BEATISSIME PATER!



IN HONOREM SUMMI PONTIFICIS BENEDICTI PP. XVI PRO LXXXV DIES NATALIS

Te pastorem Deus elegit!

In ista sede Deus conservet!

Annos vitae Deus multiplicet!

Hunc diem Multos annos!

Exaudi, Christe,

Domino nostro benedicto a Deo decreto summo Pontifici et Universali Papae: vita!

Ad multos gloriosque annos, Sancte Pater!

Feliciter! Feliciter! Feliciter!

Amen!

sabato 14 aprile 2012

Le risposte di Brunero Gherardini a Karl Barth


gher ba

Piero Vassallo, su Riscossa Cristiana, recensisce sapientemente il libro di Mons Brunero Gherardini: A domanda risponde. Il dialogo con Karl Barth «domande a Roma».

Le insinuanti domande rivolte dal celebre teologo protestante alla Chiesa cattolica esigevano il puntuale chiarimento della gerarchia cattolica sul Concilio Vaticano II. Negli anni del post-Concilio la risposta non fu formulata dagli ecclesiastici, distratti dalle ingenti fatiche dell’auto-celebrazione. A distanza di molti anni e dopo l’apparizione del fumo di satana nella Chiesa, la rilettura delle coinvolgenti domande rivolte da Barth alla Chiesa romana hanno suggerito a monsignor Gherardini di proporre un profondo e sereno criterio di giudizio sul Concilio Vaticano II.

La casa Mariana editrice in Frigento (Avellino) ha pubblicato A domanda risponde In dialogo con Karl Barth sulle sue domande a Roma, un magistrale e persuasivo saggio, che Brunero Gherardini ha scritto con il suo stile elegante e scintillante.

L’opera dell’illustre teologo propone una meditata ed esauriente lettura del Concilio Ecumenico Vaticano II, un viaggio compiuto alla luce delle domande intriganti e delle insoddisfatte aspettative del celebre teologo protestante. Impedito da una malattia, Karl Barth (1886-1968) non fu presente al Vaticano II ma, nel 1966, lesse attentamente gli incensati e poi discussi documenti prodotti dal Concilio. La lettura dei documenti conciliari ispirò le Domande a Roma, un opuscolo pubblicato dalla torinese Claudiana nel 1967. Rimasto senza risposta cattolica, il testo barthiano è ora riletto e commentato da Gherardini, che lo usa come la perfetta cartina di tornasole necessaria alla corretta interpretazione del Vaticano II. Un compito al quale i cattolici non possono più sottrarsi, visti gli esiti catastrofici prodotti dal vento conciliare.

Gherardini riconosce senza difficoltà che Barth «aveva certamente notato che il coefficiente mondano, per la volontà di sintonizzarsi con i moduli del cosiddetto mondo moderno, aveva finito col prevalere su ogni altro criterio». Obietta tuttavia che «nel Vaticano II non era affatto assente... la componente biblico-fondativa, ben supportata da frequenti riferimenti sia alla patristica, sia al Magistero ecclesiastico».

In altre parole: nello svolgimento del Vaticano II si riflettono i diversi e irriducibili stati d’animo di Giovanni XXIII, ossia l’intenzione «di mettere l’accento sulla Fede e (il riconoscimento) della necessità di tutelarla nella sua purezza ed integrità» e l’ingenua persuasione che «la purezza e integrità della Fede potessero esser difese non soltanto da posizioni d’arroccamento dogmatico, ma anche e più efficacemente da un atteggiamento irenicamente dialogico nei confronti della cultura, della sensibilità sociale e della modernità».

L’irenismo ha causato l’esorbitanza dell’ottimismo leggibile (e puntualmente letta da Paolo Pasqualucci) in Gaudet Mater Ecclesia, l’allocuzione inaugurale del Vaticano II. Sulla doppia intenzione di Papa Roncalli premeva anche la nuova teologia, incautamente liberata dall'ostacolo costituito dall'enciclica Humani generis di Pio XII. Gherardini la definisce «teologia scientifica in quanto storicistica, immanentistica, idealistica, trascendentale, esistenzialistica». E al proposito cita i portabandiera degli errori circolanti nelle anticamere del Vaticano II: Karl Rahner, Henri de Lubac, Eduard Schillebeeckx e Hans Kung, «nomi altisonanti dai quali dipende l’autodemolizione postconciliare». Le due contrastanti tonalità del discorso di Papa Roncalli e del Concilio sono sottolineate dall’arbitraria miscela dei concetti di rinnovamento e d’innovazione.

Gherardini osserva che nelle sessioni del Vaticano II il lemma rinnovamento è stato invocato a squarciagola «tutte le volte che si gridava alla fine della Chiesa costantiniana e della Chiesa murata nella sua torre d’avorio: il centralismo della Curia romana, il giuridicismo delle sue decisioni, la chiusura al mondo, al progresso alla modernità. ... Pareva un peana alla novità; era una grande confusione sul concetto di rinnovamento e quello d’innovazione. Si rinnova, infatti, ciò che già è; s’innova, si fa qualcosa di nuovo, quando e dov’esso manca. Novatori o innovatori sono detti coloro che innovano; restauratori gli altri».
Stabilita l’irriducibilità del rinnovamento all’innovazione, si può sostenere legittimamente che il Vaticano II ha talora recepito la lettera delle suggestioni diffuse dalla nuova teologia respingendone lo spirito. Nei testi conciliari la vera fede può e deve leggere il conflitto tra la luce cattolica e l’ombra progressista. Due tendenze, infatti, si confrontano nei documenti del Vaticano, il rinnovamento e l’innovazione, ma alla fine prevale la fedeltà alla tradizione.

A sostegno di questa interpretazione Gherardini cita alcuni esempi illuminanti, quale la soluzione ortodossa alle incertezze visibili in Sacrosanctum Concilium, sulla sacra liturgia intorno al sacerdozio dei laici. Nelle definizioni del testo in questione, Barth aveva intravisto una contraddizione palese e una mezza apertura alla liturgia protestante.

Se non che Gherardini, dopo aver ammesso che il testo conciliare «prima parla d’una presenza di Cristo ben delimitata (al ministro e alle specie eucaristiche) poi congiungendo (una cum) al ministro ai fedeli, estende la presenza stessa anche ad essi», dimostra che non esiste contraddizione: in un capitolo del documento si afferma la dottrina tradizionale secondo cui «durante la santa Messa, si ha una duplice presenza del Signore Gesù: nella persona del ministro e soprattutto – questo avverbio non va sottaciuto – nelle specie eucaristiche». In un successivo capitolo si afferma (in sintonia con la Lettera agli Ebrei, 5, 1-5 e degli Atti degli Apostoli, 1,6 e 5,9-10) la titolarità sacerdotale di tutti i battezzati, «anche se il loro sacerdozio differisce essenzialmente e non soltanto di grado da quello ministeriale. Essi sono perciò invitati ad unirsi al ministro celebrante non per una specie di concelebrazione alla pari e ancor meno per transustanziar insieme con lui il pane ed il vino della liturgia eucaristica, ma per partecipare dal proprio versante laicale all’offerta ministeriale del sacrificio eucaristico».

Più complesso il discorso sulla costituzione Dei Verbum, testo in cui influì «sia la smania delle novità, sia il rifiuto di San Tommaso e del suo linguaggio». Di qui la formulazione di una tesi che nega alla Tradizione, alla Scrittura e al Magistero un modo proprio di concorrere alla salvezza. Dimostra tuttavia Gherardini che «senza rendersene conto, i padri conciliari reintrodussero per la finestra ciò che avevano estromesso dalla porta: la sussistenza dei tre soggetti in parola non è, infatti, il loro vicendevole assorbirsi, ma la loro specifica e individua singolarità». Gli esempi citati da Gherardini dimostrano che nel Vaticano II il sole della Verità indeclinabile fu velato ma non spento dalle nubi alzate dai nuovi teologi e dai vescovi da loro influenzati.

Senza dubbio di può affermare che le rettifiche e i chiarimenti sollecitati dai cattolici fedeli alla Tradizione sono indispensabili. In attesa che il Papa stabilisca quale delle due diverse righe presenti nei testi del Vaticano II sia da correggere, in ossequio al principio di non contraddizione che vieta la convivenza di verità e ambiguità, si può intanto affermare che è lecita la lettura critica del Concilio, cioè la pacifica esclusione delle tesi mal sonanti. Alla critica nella luce della fede di sempre alludeva il cardinale Siri quando dichiarava che i testi del Vaticano II si devono leggere in ginocchio, vale a dire nella perfetta sottomissione all'indeclinabile Verità rivelata.

Il saggio di Gherardini è un prezioso aiuto prestato a quanti intendono leggere in ginocchio il Vaticano II.

Piero Vassallo

venerdì 13 aprile 2012

Le domande di un teologo sui problemi dottrinali che non riguardano solo la FSSPX. Anzi...




Nell'articolo di oggi Sandro Magister interviene sulla questione lefebvriana. Lo fa con molta completezza e pubblica una nota scritta dall'insigne teologo John R.T. Lamont espressamente per www.chiesa. La trovo estremamente significativa e porta elementi nuovi, anche se probabilmente la questione troverà soluzione o inciampo - Dio non voglia - in frangenti che forse al momento non ci sono noti.

Le domande di un teologo

di John R.T. Lamont

In un comunicato del 16 marzo 2012, la Santa Sede ha annunciato che il vescovo Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X, FSSPX, è stato informato che la risposta della Fraternità al preambolo dottrinale presentatole dalla congregazione per la dottrina della fede è stata giudicata "non sufficiente a superare i problemi dottrinali che sono alla base della frattura tra la Santa Sede e detta Fraternità". Il comunicato non chiarisce se questo giudizio è emesso dalla CDF e approvato dal papa, o se è il giudizio dello stesso papa. Questo giudizio è l'ultimo, finora, di un processo di discussione sulle questioni di dottrina tra la CDF e la FSSPX. La natura e la serietà di questo giudizio solleva importanti interrogativi per un teologo cattolico. Il compito di questo articolo è di rispondere a tali interrogativi.

La segretezza dei colloqui dottrinali in corso rende difficile esprimere un commento sul giudizio. La ragione di questa segretezza è difficile da afferrare, poiché gli argomenti della discussione non riguardano dettagli pratici di una sistemazione canonica – che avrebbe chiaramente beneficiato della riservatezza – ma materie di fede di di dottrina, che riguardano non solo le parti implicate ma tutti i fedeli cattolici. Tuttavia, è stato detto abbastanza in pubblico sulla posizione della FSSPX per consentire una valutazione della situazione. Ci sono due cose che necessitano di essere considerate qui: la frattura tra la Santa Sede e la FSSPX che è stata prodotta dai problemi dottrinali in discussione, e la natura di questi stessi problemi dottrinali.

In una replica a uno studio di Fernando Ocáriz sull'autorità dottrinale del Concilio Vaticano II, padre Jean-Michel Gleize della FSSPX ha elencato gli elementi di questo Concilio che la FSSPX trova inaccettabili: "Su almeno quattro punti gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sono talmente in contraddizione logica con i pronunciamenti del precedente magistero tradizionale, che è impossibile interpretarli nella linea degli altri insegnamenti già contenuti nei precedenti documenti del magistero della Chiesa. Il Vaticano II quindi ha rotto l'unità del magistero, nella misura in cui ha rotto con l'unità del suo oggetto.
I quattro punti sono i seguenti.
"La dottrina della libertà religiosa, così come è espressa nel n. 2 della dichiarazione 'Dignitatis humanae', contraddice gli insegnamenti di Gregorio XVI nella 'Mirari vos' e di Pio IX nella 'Quanta cura', così come quelli di Leone XIII nella 'Immortale Dei' e quelli di Pio XI nella 'Quas primas'.

"La dottrina della Chiesa, così come è espressa nel n. 8 della costituzione 'Lumen gentium', contraddice gli insegnamenti di Pio XII nella 'Mystici corporis' e nella 'Humani generis'.

"La dottrina sull'ecumenismo, così come espressa nel n. 8 della 'Lumen gentium' e nel n. 3 del decreto 'Unitatis redintegratio', contraddice gli insegnamenti di Pio IX nelle proposizioni 16 e 17 del 'Syllabus', quelli di Leone XIII nella 'Satis cognitum' e quelli di Pio XI nella 'Mortalium animos'.

"La dottrina della collegialità, così come espressa nel n. 22 della costituzione 'Lumen gentium', incluso il n. 3 della 'Nota praevia', contraddice gli insergnamenti del Concilio Vaticano I sull'unicità del soggetto del supremo potere nella Chiesa, e la costituzione 'Pater aeternus'".

Padre Gleize ha preso parte alla discussione dottrinale tra la FSSPX e le autorità romane, così come ha fatto anche Ocáriz. Possiamo ragionevolmente assumere le affermazioni citate come una descrizione dei punti dottrinali sui quali la FSSPX non intende transigere e che sono stati presi dalla Santa Sede come inevitabile origine della frattura.

Il Vaticano II come la ragione della frattura?

Il primo interrogativo in cui si imbatte un teologo riguardo alla posizione della FSSPX concerne la questione dell'autorità del Concilio Vaticano II. L'articolo di Ocáriz al quale ha replicato padre Gleize, pubblicato sul numero del 2 dicembre 2011 de "L'Osservatore Romano", sembra sostenere che un rigetto dell'autorità del Vaticano II sia la base della frattura riscontrata dalla Santa Sede. Ma per chiunque sia al corrente sia della posizione teologica della FSSPX sia del clima dell'opinione teologica nella Chiesa cattolica, questa tesi è difficile da capire. I punti menzionati da padre Gleize sono solo quattro del voluminoso insegnamento del Vaticano II. La FSSPX non rigetta il Vaticano II nella sua interezza: al contrario, il vescovo Fellay ha affermato che la Fraternità accetta il 95 per cento dei suoi insegnamenti. Ciò significa che la FSSPX è più fedele agli insegnamenti del Vaticano II di buona parte del clero e della gerarchia della Chiesa cattolica.

Si considerino le seguenti asserzioni di questo Concilio:
"Dei Verbum" 11:
"La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte".

"Dei Verbum" 19:
"I quattro Vangeli, di cui la Chiesa afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)".

"Lumen gentium" 3:
"Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato viene celebrato sull'altare, si rinnova l'opera della nostra redenzione".

"Lumen gentium" 8:
"La Fraternità costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino".

"Lumen gentium" 10:
"Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa".

"Lumen gentium" 14:
"Il Concilio, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta".

"Gaudium et spes" 48:
"Per la sua stessa natura l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento".

"Gaudium et spes" 51:
"La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l'aborto e l'infanticidio sono delitti abominevoli".

La grande maggioranza dei teologi nelle istituzioni cattoliche in Europa, Nordamerica, Asia e Australia tende a rigettare tutti o la maggior parte di questi insegnamenti. Questi teologi sono seguiti dalla maggioranza degli ordini religiosi e da una parte consistente dei vescovi in queste aree. Sarebbe difficile, ad esempio, trovare un gesuita che insegna teologia in qualsiasi istituzione gesuita che accetti anche uno solo di essi. I testi citati sono solo una selezione degli insegnamenti del Vaticano II che sono rigettati da questi gruppi; e potrebbero essere molto aumentati di numero.

Ebbene, tali insegnamenti fanno parte proprio di quel 95 per cento del Vaticano II che la FSSPX accetta. E a differenza del 5 per cento di quel Concilio rigettato dalla FSSPX, gli insegnamenti riportati sopra sono centrali per la fede e la morale cattoliche, e includono alcuni degli insegnamenti fondamentali di Cristo stesso.

Il primo interrogativo che il comunicato della Santa Sede solleva per un teologo è quindi: perché il rigetto da parte della FSSPX di una piccola parte degli insegnamenti del Vaticano II dà origine a una frattura tra la Fraternità e la Santa Sede, mentre il rigetto di molto più numerosi e importanti insegnamenti del Vaticano II da parte di altri gruppi nella Chiesa lascia questi gruppi tranquilli al loro posto e nel possesso di una piena condizione canonica?

Il rigetto dell'autorità del Vaticano II da parte della FSSPX non può essere la risposta a questo interrogativo. In realtà la FSSPX mostra maggiore rispetto per l'autorità del Vaticano II della maggior parte degli ordini religiosi nella Chiesa. È interessante notare che i testi del Vaticano II rigettati dalla FSSPX sono accettati da quei gruppi dentro la Chiesa che rigettano altri insegnamenti di questo Concilio. Uno potrebbe quindi supporre che sono proprio questi specifici testi – sulla libertà religiosa, la Chiesa, l'ecumenismo, la collegialità – che fanno problema.

La frattura tra la Santa Sede e la FSSPX nasce poiché la Fraternità rigetta questi particolari elementi del Vaticano II, non per una intenzione della Santa Sede di difendere il Vaticano II in blocco. Mentre la frattura non sorge con i gruppi al di fuori della Fraternità che rigettano molto di più del Vaticano II poiché questi gruppi accettano questi particolari elementi. Ma se questo è il caso, il primo interrogativo semplicemente si ripropone con maggior forza.

Problemi con la dottrina cattolica?

Se la frattura tra la Santa Sede e la FSSPX non nasce dal rigetto dell'autorità del Concilio Vaticano II da parte della Fraternità, potrebbe essere il caso che la frattura sorga dalla posizione dottrinale della FSSPX stessa. Dopo tutto ci sono due facce della posizione della FSSPX sul Vaticano II. La prima faccia è la tesi secondo cui alcune affermazioni del Vaticano II sono false e non debbono essere accettate; questa è la faccia che rifiuta l'autorità del Concilio. L'altra faccia è la positiva descrizione della dottrina che dovrebbe essere accettata al posto delle presunte false affermazioni. Questa seconda faccia è l'aspetto più importante della discussione tra la FSSPX e le autorità romane. Dopo tutto, la finalità dell'esistenza di insegnamenti magisteriali è di comunicare la vera dottrina ai cattolici, e la loro autorità sui cattolici deriva da questa finalità. Questa faccia della posizione della FSSPX consiste in affermazioni sulle dottrine che i cattolici dovrebbero credere, affermazioni che in se stesse non dicono nulla sui contenuti o l'autorità del Vaticano II. Dobbiamo quindi considerare se queste affermazioni possono dare origine a una frattura tra la Santa Sede e la FSSPX.

Nel giudicare la posizione dottrinale della FSSPX deve essere tenuto presente che c'è una differenza essenziale tra la posizione della FSSPX sul Vaticano II e la posizione di quei settori dentro la Chiesa che rigettano gli insegnamenti sopra citati della "Dei Verbum", della "Lumen gentium" e della "Gaudium et spes". Questi settori semplicemente sostengono che certe dottrine della Chiesa cattolica non sono vere. Essi rigettano l'insegnamento cattolico, punto. Invece la FSSPX non sostiene che l'insegnamento della Chiesa cattolica è falso. Essa sostiene che alcune delle affermazioni del Vaticano II contraddicono altri insegnamenti magisteriali che hanno più grande autorità, e quindi accettare le dottrine della Chiesa cattolica richiede di accettare questi insegnamenti più autorevoli e di respingere la piccola porzione di errori presenti nel Vaticano II. Essa sostiene che il reale insegnamento della Chiesa cattolica deve essere trovato in precedenti e più autorevoli affermazioni. In positivo, quindi, la posizione dottrinale della FSSPX consiste nel sostenere gli insegnamenti di una parte dei pronunciamenti magisteriali. I più importanti dei pronunciamenti in questione sono elencati da padre Glaize: l'enciclica di Gregorio XVI "Mirari vos", l'enciclica di Pio IX "Quanta cura" con il relativo "Syllabus", le encicliche di Leone XIII "Immortale Dei" e "Satis cognitum", le encicliche di Pio XI "Quas primas" e "Mortalium animos", le encicliche di Pio XII "Mystici corporis" e "Humani generis", e la costituzione del Concilio Vaticano I "Pastor aeternus". Questi sono tutti pronunciamenti magisteriali di grande autorità, e in qualche caso includono definizioni dogmatiche infallibili, cosa che non accade con il Concilio Vaticano II.

Ciò fa nascere il secondo interrogativo riguardo alla posizione della Santa Sede sulla FSSPX, che induce un teologo a chiedersi: come ci possono essere obiezioni alla FSSPX quando essa sostiene la verità di pronunciamenti magisteriali di grande autorità? È un interrogativo che ha già in sé una risposta: non ci possono essere simili obiezioni. Se la posizione della FSSPX sulla dottrina può essere giudicata obiettabile, deve essere sostenuto che questa sua posizione non coincide con ciò che quei pronunciamenti magisteriali realmente insegnano, e quindi che la FSSPX falsifica il significato di tali pronunciamenti. Questa tesi non è facile da sostenere, poiché quando quei precedenti pronunciamenti furono promulgati, essi diedero origine a un considerevole corpo di studi teologici finalizzati alla loro interpretazione. Il significato che la FSSPX assegna ad essi è derivato da questo insieme di studi, e corrisponde a come quei pronunciamenti erano compresi nel tempo in cui furono prodotti.

Ciò rende ancor più puntuale e urgente il terzo interrogativo che sorge in un teologo: che cosa quei pronunciamenti insegnano davvero, se non è ciò che la FSSPX dice che essi insegnano? La risposta che molti daranno è che i significati effettivi di quei pronunciamenti sono dati da, o almeno sono in armonia con, i testi del Concilio Vaticano II che la FSSPX rigetta. Possiamo ammettere questa risposta come vera, ma ciò non ci aiuterà nel rispondere alla domanda. I testi del Vaticano II non offrono molte spiegazioni del significato di quei precedenti pronunciamenti. Ad esempio, la "Dignitatis humanae" dice semplicemente che il suo insegnamento "lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo". Con ciò non offre alcuna spiegazione del contenuto di questa dottrina.

L'inadeguatezza di questa risposta conduce al quarto interrogativo, che è il seguente: qual è l'insegnamento autorevole della Chiesa cattolica sui punti che sono disputati tra la FSSPX e la Santa Sede? Nessun dubbio che le discussioni dottrinali tra le due parti abbiano implicato un esame della questione, ma la segretezza di tali discussioni lascia il resto della Chiesa al buio su questa materia. Senza una risposta al quarto interrogativo, non c'è possibilità di risposta a questa quinta domanda: perché le posizioni dottrinali della FSSPX danno origine a una frattura tra la Fraternità e la Santa Sede? Ma questa quinta domanda, pur significativa, non ha l'importanza della quarta. La natura dell'insegnamento della Chiesa cattolica sulla libertà religiosa, l'ecumenismo, la Chiesa e la collegialità è di grande importanza per tutti i cattolici. Le domande sollevate dalle discussioni tra la Santa Sede e la FSSPX riguardano la Chiesa tutta, non soltanto le parti impegnate a discutere.