mercoledì 11 aprile 2012

LA CRISTOLOGIA ANTROPOCENTRICA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II (IV Parte)






di Paolo Pasqualucci (Fonte)


quarto capitolo




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7. Il magistero degli antichi concili ecumenici non fornisce alcuno spunto alle tesi di GS 22. Che in Cristo la natura umana sia stata “assunta senza esser annientata” è notoriamente verità di fede riaffermata a Calcedonia (451) contro l’eresia monofisita, che negava o sminuiva la realtà della natura umana del Signore. Quel grande Concilio, che adottò la cristologia ortodossa mirabilmente esposta da Papa Leone I (S. Leone Magno) nella lettera al vescovo Flaviano di Costantinopoli (c.d. Tomus Leonis), definì come dogma di fede che in Nostro Signore, “perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [costituito, l’uomo] di anima razionale e del corpo, consustanziale al Padre per la divinità e consustanziale a noi per l’umanità, “simile in tutto a noi fuorché nel peccato [Eb 4, 15]”; devono “riconoscersi due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo [esse] a formare una sola persona e ipostasi [...]”(1).
La frase di questo Concilio riportata in nota a GS, 22 è: “ in duabus naturis inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter [Christum Dominum Nostrum] agnoscendum”. I passi degli altri due Concili ecumenici, posteriori a Calcedonia, insistono sugli stessi concetti. Queste tre concordanti citazioni vogliono ricordare l’assoluta realtà e perfezione della natura umana di Cristo, che non si confonde con quella divina e permane immutata nella sua subsistentia, ed il fatto che l’unione ipostatica ha luogo nella persona divina di Cristo ma non è unione che provochi commistione delle due nature, che crei qualcosa di nuovo rispetto ad esse, bensì è unione di due nature che conservano integralmente la loro reciproca sussistenza e distinzione, pur venendo a coordinarsi in una particolare circumincessio nella persona divina del Cristo, nella quale la divinità penetra l’umanità senza che sia vero il contrario(2).
Queste citazioni mostrano che il Vaticano II ha voluto ribadire con particolare enfasi l’Incarnazione nel suo aspetto concretamente e compiutamente umano, salvaguardando nello stesso tempo la necessaria, insuperabile distinzione tra natura divina ed umana in Cristo, come già esaustivamente definita nei dogmi definiti e confermati da ben tre Concili ecumenici. Tuttavia, da questa riproposizione assolutamente corretta della verità di fede, il testo conciliare sviluppa poi, come si è visto, la proposizione singolare, secondo la quale la natura umana del Signore, “assunta” e non “annientata” nell’unione ipostatica, “per ciò stesso è stata anche in noi innalzata ad una dignità sublime”. Approfondimento del dogma, questa proposizione, o deviazione rispetto ad esso? Se noi analizziamo il contesto nel quale si trovano le tre citazioni deuterovaticane degli “antichi Concili”, troviamo qualche riferimento a siffatto innalzamento della natura di ciascuno di noi ad una “dignità sublime” per opera dell’Incarnazione in quanto tale? A mio avviso, non lo troviamo.
Il testo essenziale, ai fini del nostro assunto, resta quello del Concilio di Calcedonia, ribadendo in sostanza gli altri due i concetti in quello già definiti sulla base del Tomus Leonis. La professione di fede calcedoniense dichiara che Nostro Signore è consustanziale non solo al Padre ma anche “a noi per l’umanità”. Che significa questa verità di fede, che possiamo ritenere essersi il Signore con l’Incarnazione unito “ad ogni uomo”, come afferma GS, 22.2? Che forse possiamo trovare qui uno spunto per estendere il concetto dell’Incarnazione sino a ricomprendervi quest’idea che l’Incarnazione significhi l’unione di Cristo “in qualche modo ad ogni uomo”, ossia in modo misterioso con ognuno di noi? Che la consustanzialità del Figlio alla natura umana può allora significare che Cristo ed ogni uomo sono identici, onde l’uomo verrebbe a partecipare della stessa divinità del Figlio?
Ma valga il vero. Poiché con l’Incarnazione l’umanità del Cristo era perfetta, era giusto ribadire, contro gli eretici che lo negavano, che il Figlio di Dio è stato anche “consustanziale a noi nell’umanità” così come ab aeterno è consustanziale al Padre nella divinità. Ma questa “consustanzialità nell’umanità” non significa, evidentemente, che Egli si è unito, con l’Incarnazione, a tutta l’umanità (“ad ogni uomo”). Significa che il Verbo incarnato è stato in se stesso “vero uomo, composto dell’anima razionale e del corpo”, allo stesso modo di ogni altro uomo. Non è stato un simulacro di uomo, come pretendevano coloro che ne sminuivano o negavano la natura umana: è stato, come individuo storicamente esistito, un vero uomo con tutti gli attributi della natura umana, e quindi della nostra sostanza umana (consustanziale a noi). Simile in tutto a noi, ovviamente tranne che per il peccato. E difatti la Sua umanità è perfetta, essendo libera dalla macchia del peccato.
L’umanità alla quale il Cristo è consustanziale secondo la Definitio dogmatica di Calcedonia, non è dunque il genere umano in senso fisico, costituito da tutti noi, numericamente considerati (da “ogni uomo”). È una qualità, il quid che fa esser uomo l’uomo (humanitas, anthropótes), che si ritrova in ogni uomo, e che nell’uomo Gesù di Nazareth era perfetta, poiché Egli era Dio incarnato. Egli non è perciò consustanziale all’umanità nel senso di costituire “in qualche modo” la sostanza di ogni uomo, come se, con l’Incarnazione, si fosse unito anche a ciascuno di noi.
La riprova che questo sia il significato esatto della definizione dogmatica di Calcedonia, si ha, a mio avviso, nel Tomus Leonis, che ne costituisce il fondamento teologico.
“Nella completa e perfetta natura di vero uomo, quindi, è nato il vero Dio, completo nelle sue [facoltà], completo nelle nostre. Quando diciamo “nostre” intendiamo quelle [facoltà] che il creatore mise in noi da principio, e che ha assunto per restaurarle (In integra ergo veri hominis perfectaque natura verus natus est Deus, Totus in suis, totus in nostris nostra autem dicimus quae in nobis ab initio creator condidit, Et quae reparanda suscepit)(3).
Nella concisa maniera di esprimersi tipica del latino, S. Leone Magno usa il neutro plurale del pronome relativo, senza il sostantivo: il Signore è nato “totus in suis”, letteralmente: “tutto nelle sue [cose]” ovvero completo delle sue prerogative (o caratteristiche, qualità, facoltà) di vero Dio, e “totus in nostris”, letteralmente: “tutto nelle nostre [cose]”, ossia completo nelle sue prerogative (o caratteristiche, qualità, facoltà) di vero uomo. Ma questa perfezione “in nostris”, come deve essere intesa, per non cadere nell’errore? Le nostre facoltà in senso proprio quali sono? Sono quelle che il Creatore “ab initio” ha messo in noi. Ora Egli è venuto per “restaurarle”; per meglio dire, le ha “assunte” ad reparanda, per “restaurarle” nel senso di “rinnovarle”.
Si vede immediatamente che il fine dell’Incarnazione non è affatto inteso dal Papa come se consistesse nello svelare all’uomo una sua “altissima vocazione”, intesa a realizzare una (supposta) “dignità sublime” dell’uomo. E perché le facoltà dell’uomo dovevano esser restaurate? Perché erano state corrotte dal peccato originale. Il “creatore” di cui al testo, è ovviamente lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo, come risulta dall’inizio del Vangelo di Giovanni e da Col 1, 15-20. Egli ha “assunto” quelle facoltà dell’uomo che Egli stesso aveva creato, al fine di emendarle dalla corruzione nella quale erano cadute.
L’Incarnazione è allora avvenuta per restituirci allo stato di perfezione edenica iniziale, rimasta in modo “deformato” in noi? No, perché questa è una “reparatio”, non una “restitutio”. Il termine “reparatio” (come ci informano i dizionari) contiene l’idea di emendare e rinnovare. I lessici ed i dizionari ci informano anche che, nel latino ecclesiastico, il Redentore era chiamato Reparator. La “reparatio” ad opera della Redenzione, ha luogo grazie a Cristo mediante l’Incarnazione. E in ciascuno di noi può aver luogo, non grazie alla supposta unione di Cristo con noi ex incarnatione ma solo come imitazione di Cristo da parte nostra: di Cristo uomo appunto perfetto e vero Dio, che possiamo solamente imitare nella nostra lotta per la nostra santificazione quotidiana, con l’aiuto della Grazia, cioè di Cristo stesso (“senza di Me non potete nulla” – Gv 15, 5). La “restaurazione” o “rinnovazione” delle facoltà dell’uomo, come portato dell’Incarnazione in quanto tale, non ha, perciò, luogo in ogni uomo ma solo in Gesù Cristo stesso, in Colui che si incarna. Egli assume in se stesso gli elementi della natura umana che erano stati da Lui creati, non quelli (corrotti) aggiuntivi dal Demonio e ci mostra come debba essere l’uomo nuovo, che è il vero cristiano, le cui virtù sono quelle praticate da Cristo Nostro Signore.
Continua infatti il Papa: “Quegli elementi, infatti, che l’ingannatore introdusse, e che l’uomo, ingannato, accettò, non lasciarono alcuna traccia nel Salvatore. Né perché volle partecipare a tutte le nostre umane miserie, fu anche partecipe dei nostri peccati. Egli prese la forma di servo [Fil 2, 7] senza la macchia del peccato, elevando ciò che era umano, senza abbassare ciò che era divino; perché quell’abbassamento per cui egli da invisibile si fece visibile, e, pur essendo creatore e signore di tutte le cose, volle essere uno dei mortali, fu condiscendenza della misericordia non mancanza di potenza” (4).
Gli “elementi” che l’ingannatore introdusse, ad esempio lo spirito di vanità (tramite la donna), la superbia e lo spirito di ribellione uniti alla superficialità di giudizio; elementi fatti propri da Adamo ed Eva per l’improvvisa debolezza della loro volontà e del loro libero arbitrio di fronte alla tentazione del Maligno, non potevano ovviamente essere “assunti” dal Salvatore fattosi uomo. Perciò, unicamente in se stesso, facendosi uomo, Egli “restaurava” la natura umana nella sua perfezione, essendo Egli senza peccato. E pertanto, pur partecipando alle nostre “umane miserie”, non fu ovviamente partecipe dei nostri peccati. Prendendo “la forma di servo”, umiliandosi sino ad accettare la “morte di croce”, non avvilì ciò che è umano, ma anzi lo esaltò (humana augens), senza diminuire ciò che era divino (divina non minuens). E come è potuta avvenire questa esaltazione nell’umiliazione? Perché il farsi obbediente a Dio sino alla morte di croce mostrò la sua natura umana nel suo aspetto migliore, che è quello dell’obbedienza assoluta a Dio, quell’obbedienza che era appunto mancata ai nostri Progenitori. In questa obbedienza, la natura umana appariva “restaurata” nella sua purezza originaria, ma “restaurata” in Cristo non in ognuno di noi.
In un’altra epistola, S. Leone Magno ribadisce il concetto: “l’unione non ha diminuito le caratteristiche divine con quelle umane ma ha innalzato le caratteristiche umane con quelle divine”(5). Innalzato in ogni uomo, in ciascuno di noi? No. Innalzato in se stessa, nella natura umana che era unita nella persona del Verbo. S. Tommaso espose il medesimo concetto, come concetto che ribadiva l’opinione tradizionale della Chiesa. “Poiché una determinata realtà diventa più degna se esiste in qualcosa che le è superiore, ne segue che la natura umana è più degna in Cristo che in noi” (ST, III, q. 2, a. 2). L’elevazione della natura umana ad una grande dignità, che possiamo anche definire “sublime”, avviene in Cristo e ciò non significa affatto che tale elevazione si trasmetta eo ipso “anche a noi”, come afferma GS, 22.2. Significa, come conclude egregiamente Bartmann, che “il Cristo è l’uomo ideale, non solo dal punto di vista morale ma anche da quello ontologico”(6).
Se la dignità sublime della natura umana di Cristo si trasmettesse anche a noi per il fatto stesso dell’Incarnazione, allora ognuno di noi diventerebbe come tale l’uomo o la donna ideale! Invece, l’elevazione apportata alla natura umana dall’Incarnazione può riverberarsi su di noi in senso solo morale non ontologico; vale a dire, quanto più ci avviciniamo a Cristo come modello di vita nell’opera della nostra santificazione quotidiana. E questo perché la natura umana di Cristo è perfetta, essendo senza peccato, mentre la nostra è ontologicamente imperfetta, risultando corrotta dal peccato originale e da quello attuale(7).
Questo dunque l’insegnamento costante della Chiesa: con l’Incarnazione, le facoltà dell’uomo furono sì “elevate” ma da Cristo in Cristo, nostro modello, il nuovo Adamo, dal quale proviene la vita eterna, non in noi. Da Cristo, che “volle essere uno dei mortali (voluit esse mortalium)”: con l’Incarnazione, la seconda persona della Santissima Trinità volle essere uno di noi, non in tutti noi. E furono elevate per costituire un modello per noi, capace di guidarci nella difficile opera della nostra redenzione dal peccato. È la perfezione dell’Incarnazione a restaurare la natura umana nella sua perfezione, ma solo in Cristo. Se Egli si fosse nell’Incarnazione unito “ad ogni uomo”, la perfezione si sarebbe mescolata all’imperfezione, la corruzione del peccato alla divinità e all’incorrotta umanità del Cristo, cosa inconcepibile.
E che la nostra natura umana debba ritenersi sottoposta alla morte e al peccato, e quindi all’ira divina, ciò è il risultato dell’opera del Demonio, che se ne vanta, scrive S. Leone Magno, perché è riuscito a far perdere all’uomo i doni divini inizialmente elargitigli dal Creatore. “Il diavolo, infatti, si gloriava che l’uomo, ingannato dalla sua frode, aveva perduto i doni divini (divinis caruisse muneribus); che era stato spogliato della dote dell’immortalità ed era andato incontro ad una dura sentenza di morte (Et immortalitatis dote nudatum duram mortis subisse sententiam)”(8). Da questo passo si vede chiaramente come, per il Papa, i “doni divini” fossero andati irrimediabilmente perduti. L’uomo ne era stato “spogliato”. E questa fede non era opinione personale di S. Leone Magno ma rifletteva l’opinione costante della Chiesa. Nell’elaborazione teologica impeccabile fattane dal Tomus Leonis questa fede acquistò a Calcedonia il valore di una definizione dogmatica e quindi di dottrina perenne della Chiesa.




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NOTE


1) DS,             148/301-302      ; G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 164.

2) B. Bartmann, I, § 92.

3) Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p. 154; S. Leoni Magni Tomus ad Flavianum Episc. Constantinopolitanum (Epistula XXVIII), etc., rec. C. Silva-Tarouca S.I., Romae (PUG), 1932, pp. 20-33; p. 24.

4) Decisioni, p. 154; Tomus Leonis, pp. 24-25.

5) Ep. LIX, 3. Cit. in Bartmann, I, § 90 (p. 378): “per quam non minueret divina humanis sed augeret humana divinis”.

6) Bartmann, I, cit., ivi, che riporta la citazione di S. Tommaso.

7) Ciò, ovviamente, senza dimenticare gli effetti ontologici della Grazia, ovvero la cristoconformazione soprannaturale dei battezzati (Nota della Redazione).

8) Decisioni, p. 155; Tomus Leonis, p. 25.

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