CAP. XIV – GLI ORDINI RELIGIOSI
1.1 Gli ordini religiosi nella Chiesa postconciliare -
Il grave scadimento intervenuto negli ordini religiosi fu generalmente dissimulato, adottando la prospettiva ottimistica di Giovanni XXIII, scambiando variazione e mobilismo per sintomi di vitalità.
Ma lo scadimento è palese nel fenomeno delle defezioni dei consacrati, per stare alle statistiche tra il 1966 e il 1977 i religiosi nel mondo sono calati da duecentoottomila a centosessanticinquemila, cioè di una quarto ( i più colpiti furono i Domenicani (da dieci a seimila); i Cappuccini (da sedici a dodicimila);i Gesuiti (da trentasei a ventiseimila); i salesiani (da ventidue a diciassettemila).
Né si può sostenere che l’assottigliamento quantitativo si accompagni a un raffinamento qualitativo: la qualità si manifesta per sé nella quantità. Bisogni essere in molti perché alcuni eccellano.
Lo scadimento è anche provato dalla novità: tutti gli istituti religiosi hanno, in capitoli appositamente radunati, riformato costituzioni e regole in modo talora temerario e sempre con effetti più distruttivi che edificativi.
Il rinnovamento avrebbe dovuto riuscire ad un adattamento ad extra in vista di conseguire più efficacemente la santificazione che è il fine generale della Chiesa.
Ma la legge generale sulla quale avvennero le riforme post-conciliari è la seguente; tutte le riforme senza eccezioni dal difficile al facile o al men difficile e mai invece dal facile al difficile o al più difficile. E’ il rovescio di quella che appare nella storia delle compagnie religiose. Tutte le riforme allora nacquero dal fastidio della mollificazione della disciplina e dal desiderio di una vita più spirituale, più orante e austera.
La riforma si elabora oggi in gran parte attraverso una grande verbigerazione monotipica giusta il lessico moderno.
Nei Capitoli di rinnovamento una Congregazione “si interroga”, “si lascia interpellare”, “confronta le esperienze”, “ricerca identità nuove” (il che implica che diventi altro da se stessa), “mette a punto nuovi principii operativi”, prende coscienza della nuova problematica della Chiesa” (il che significa che i fini sono mutati), imposta “il problema della creatività” e tende a “costruire delle vere comunità” (come se quelle passate fossero pseudocomunità), escogita i modi “per inserirsi nel contesto” e via dicendo.
1.2 L'alterazione dei principi. La stabilità -
La crisi dei religiosi, come di tutte le altre parti del corpo ecclesiale, è una conseguenza dell’ immodica assimilazione al mondo di cui si prendono le posizioni, poiché si dispera di acquistarlo agendo dalle posizioni proprie.
Non ultima né insignificante è la mutazione dell’abito dei religiosi e delle religiose, sempre informata al desiderio di non più differenziarlo dai secolari. E’ un sintomo della PERDITA DELLE ESSENZE, e un sintomo di servilità. Dal disprezzo dell’abito ecclesiastico si scende al disprezzo di quello liturgico, e si vedono nelle celebrazioni officianti in abiti prettamente laicali.
La vita religiosa è un genere di vita conformato ai consigli evangelici e perciò più eccellente della vita conformata ai precetti. La tendenza secondo la quale si riforma oggi al vita religiosa è parallela alla tendenza con cui si riforma il sacerdozio. Qui sta l’obliterazione del divario tra sacerdozio sacramentale e sacerdozio comune.
L’esistenza dell’uomo essendo considerata in flusso e la volontà umana perpetuamente ambulatoria di contro a uno stato di persistenza e fissità della legge, uno stato di vita implica un ordine fisso entro il quale si modelli il flusso. La fissità è data dall’impegno della volontà che si lega per sempre a quell’ordine, cioè al triplice voto di castità, povertà e obbedienza. Ora, è nell’allentamento all’osservanza dei voti che si produce una tale declinazione della Regola. Dal latino regere abbiamo “regula” nella duplice accezione di sostenere e dirigere. La regola monastica al tempo stesso imprime la direzione e sorregge la vita. Similmente il latino “stare” da cui abbiamo “stabilitas” che vale come “stare fermo” e “stare ritto”. La stabilità religiosa implicava che il monaco stesse fermo in monastero e che in quella locale stabilità il religioso trovasse un elemento di stazione verticale, una condizione facilitante il suo “star ritto” nel comportamento morale e religioso.
Oggi la stabilità locale è scomparsa.
1.3 La variazione di fondo –
Il nuovo fine assegnato alla vita religiosa è il servizio dell’uomo anziché il servizio di Dio, oppure il servizio dell’uomo identificato col servizio di Dio. Tale nuovo fine poggia sopra la supposizione che l’uomo non abbia per fine la propria salvezza e non possa averlo, perché il mirare alla propria salvezza sarebbe viziato da utilitarismo teologico. Nell’amore per l’uomo, invece, non potrebbe aver luogo l’amore per se stessi e il perseguire la giustizia sarebbe cosa viziosa solo perché alla giustizia séguita la beatitudine.
Eppure il fine che si proponeva chi faceva i voti religiosi era apertamente la salvezza della propria anima confermata anche da Giovanni Paolo II che ricordava ai preti che “Il primo vostro dovere apostolico è la vostra propria santificazione” (OR, 1 ottobre 1979).
1.4 Le virtù religiose nella riforma postconciliare. Castità. Temperanza. Povertà. –
Le virtù sono connesse e anzi sono un’unica virtù. Se virtù è l’abito della volontà sempre preponderante verso l’eterna legge, l’atto di ogni singola virtù è una specificazione di quell’abito; o scemare di una virtù nella vita religiosa segnerà simultaneamente uno scemare della virtù religiosa in generale.
Nella castità una minore delicatezza e attenzione si fanno notare nella generale scioltezza del costume clericale, nella pratica promiscua, nell’abbandono praticato di quelle grandi cautele praticate dagli uomini santi.
Nel Motu proprio Ecclesiae Sanctae di Paolo VI si prescrive “I religiosi attendono più degli altri fedeli alle opere di penitenza e mortificazione”. Le feroci mortificazioni dell’istinto dell’ingluvie (gola) erano per l’ascetica orientale un modo per staccarsi dal vitto comune degli uomini, peraltro molto meno ricco da quello di oggi. Ma anche nelle mutevolezze del secolo rimane l’esigenza fondamentale che il vitto dei consacrati si tenga al di qua del regime comune e che possa essere riconosciuto come tale.
Faccio rientrare la temperanza nella povertà, perché essa è in realtà una parte della vita umile e piccola
a cui si riconduce la povertà. La povertà non esigerà di illuminare col lume a olio o con candele nel secolo dell’elettrico. E neppure di attenersi al Deuteronomio (23, 12-3). E’ necessario che il generale incremento della comodità trasferisca alle classe del necessario quel che era nel superfluo. La generale scomparsa dell’autarchia è la nota della civiltà contemporanea in cui l’uomo è aiutato e diretto a fare tutto quanto fa. Ma proprio perché il moto della civiltà va in questa direzione sarebbe proprio degli uomini votati allo stato di perfezione sottrarsi a quel moto. L’uso dei mezzi radiofonici e televisivi era vietato nelle comunità religiose fino a pochi anni fa, fu concesso alle singole comunità, adesso è entrato anche nelle celle.
Gli audiovisivi che stampano ogni giorno in milioni di cervelli le stesse immagini e poi all’indomani sovrastamparne mille volte, sono l’organo più potente della corruzione intellettuale nel mondo contemporaneo.
1.5 Nuovo concetto dell’obbedienza religiosa –
L’OBBEDIENZA è il punto su cui si manifesta chiaramente l’indirizzo facilitante del rinnovamento degli Ordini. Abbassato il concetto di questa virtù si abbassa inevitabilmente la pratica di essa. Non si propone un altro concetto, in cui si avvertirebbe subito il passaggio di genere, ma si pretende di venire a un altro stile ea un altro modo del medesimo.
Così i Superiori Maggiori nel loro incontro, dopo aver abbassato il principio di autorità introducendone uno di tipo fraternale, abbassano per concomitanza quello d’obbedienza :”L’accentuazione dell’autorità come servizio implica un nuovo stile di obbedienza. Questa deve essere attiva e responsabile”. ER svagando nel circiterismo:”Autorità e obbedienza vanno esercitate come aspetti complementari della stessa partecipazione all’offerta di Cristo” e obbediente e superiore “…. Procedono di pari passo nell’adempimento della volontà di Dio RICERCATA FRATERNAMENTE PER MEZZO DI UN DIALOGO FECONDO”. Qui sotto vocaboli fissi si vedono correre concetti di tutt’altro genere. L’obbedienza non è una ricerca dialogale della volontà a cui sottomettersi, bensì una sottomissione alla volontà del Superiore. Si noti però che la teoria dell’obbedienza assoluta è propria dei dispotismi e non è cattolica perché questa fa obbligo di disobbedire a chi comanda opera manifestamente illecita.
Qui però l’obbedienza è stata interamente soggettivata. Il principio di autoindipendenza che abbiam visto produrre l’autogoverno, l’autodidattica, l’autoeducazione e persino l’autoredenzione, non poteva non investire la vita religiosa togliendo all’obbedienza quella che è l’essenza sua: FAR SCOMPARIRE TENDENZIALMENTE IL SOGGETTO PER ELEVARE L’OGGETTO.
1.6 Insegnamento del Rosmini circa l’obbedienza religiosa –
Egli intende recidere ogni traccia di soggettivismo dalla virtù di obbedienza e al riduce alla sua nuda essenza, consistendo la volontà nell’abdicare liberamente una volta per tutte la volontà propria nella volontà del superiore e quindi rinunziare all’esame del comando. La sua dottrina, che è cattolica, è assai profonda perché indentifica l’obbedienza con l’atto essenziale della moralità che è riconoscere la legge e sottomettervisi. E si trova agli antipodi della veduta neoterica per cui si fa per obbedienza al comando quel che si farebbe per libera elezione anche senza comando.
Tale variazione intacca il principio della morale e anche quello della teologia. Il cristianesimo non assegna all’uomo-Dio e ad ogni volontà umana altro fine che l’obbedienza alla volontà di Dio, sia naturalmente, sia soprannaturalmente conosciuta. L’Obbedienza va perduta nelle riforme conciliari e Poalo VI lo nota nel discorso tenuto alla Congregazione generale della Compagnia di Gesù (OR, 17 novembre 1966), in cui attestava di non poter nascondere “il proprio stupore e il proprio dolore” conoscendo “le strane e sinistre suggestioni” che seguendo il criterio dell’assoluta storicità tentavano di togliere la Compagnia dalle sue basi e traslocarla su altre “quasi non vi fosse nel cattolicesimo un carisma di verità permanente”.
1.7 Obbedienza e vita comunitaria -
L’obbedienza avendo come oggetto la regola e la Regola essendo al norma unificante che fa che le fedi abbiamo un’unica volontà, l’indebolimento dell’obbedienza partorisce l’indebolimento dello spirito di comunità-
Sciolto il nodo dell’obbedienza che vincola tutti i membri della comunità a perseguire in comune i fini dell’istituto e attendere congiuntamente con gli altri membri alla cura dell’anima, accade che gli atti specifici dello stato religioso si facciano dai singoli come se comunità non si fosse. Si celebra la Messa in ora ad libitum, si medita a proprio gusto ed eremiticamente, si rimette alla spiritualità personale la preghiera, così come l’abito rimesso alla libertà dei singoli.
Non facendosi più in comune ogni esercizio di pietà si può affermare che la comunione tra i membri della stessa famiglia tende a diventare solo comunione di mensa e di domicilio. E’ ovviamente una contraddizione in termini entrare in una comunità per fare isolatamente e pere poco conto proprio le cose che ci si associa per fare in comune.
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