di Paolo Pasqualucci (Fonte: Riscossa cristiana)
quarto capitolo
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8.3 Quale diritto naturale ci propone DH 2? Il
Concilio, a proposito della libertà religiosa, propugna, dunque, “un diritto
della persona e non della verità"(1). Esso separa (alla maniera dei
Moderni) la libertà della persona, con le sue esigenze di libera manifestazione
del pensiero, dalla verità religiosa, che ha le sue proprie esigenze.
Quest’ultima, afferma di averla salvata dall’indifferentismo perché avrebbe
mantenuto (nel modo che si è appena visto) l’idea dell’unicità del
Cattolicesimo per la salvezza, onde graverebbe sempre sulla persona l’obbligo
morale di ricercare la verità, sì da giungere alla conoscenza della vera
religione. Ma quest’unica e superiore verità, costituita dalla Verità Rivelata,
non resta come in una sorta di limbo, se non se ne proclama il diritto ad esser
predicata nei confronti delle altre religioni (tutte non rivelate tranne
l’Ebraismo, caduto però nell’apostasia a causa del suo rifiuto cosciente e
persistente di Cristo) affinché i loro seguaci le abbandonino per convertirsi
al Cattolicesimo, cioè a Cristo? Se la religione cattolica ha effettivamente
preservato, grazie al Magistero della Chiesa, la Parola del Dio che si è fatto
uomo, non c’è (supposto) “diritto naturale” alla libertà religiosa che possa
esserle opposto, per impedirle di convertire i popoli e gli individui,
sostituendosi alle altre religioni, facendole sparire (sostituendovisi di
fatto, grazie alla conversione dovuta alla predicazione e all’esempio di vite
veramente cristiane, illuminate dalla Grazia, non ad un intervento dello Stato,
la cui azione come “braccio secolare” ha del resto sempre avuto un significato
secondario, di intervento a difesa).
Invece il Concilio afferma che lo Stato non deve
“promuovere” la religione cristiana e deve invece garantire l’opportuna libertà
di culto a tutte le religioni (DH, 2, 4, 6). Il rispetto del diritto naturale
alla libertà religiosa da parte dello Stato deve essere assoluto: lo Stato ha
il dovere di garantirla a tutti come “diritto civile” (DH, 2, 4, 7, 13). Ma
questo rispetto assoluto ha una conseguenza anche per la Chiesa: quella di
renderne praticamente impossibile l’opera di conversione degli infedeli. Anche
la conversione, inattuabile senza proselitismo, sarebbe, infatti, una
coartazione del diritto naturale alla libertà religiosa dei non-cattolici,
perché essa (come si vede dai Vangeli) consiste nell’investirli frontalmente
con la proclamazione della Parola di Dio, che incita al pentimento, a mutar
vita, ad abbandonare le loro vane credenze anteriori. Tutto ciò, oltre a
provocare la reazione (spessos violenta) delle altre religioni, nell’ottica
adottata dalla DH non appare comunque un far violenza all’altro? Violenza in
senso psicologico, si intende, menzionata espressamente dal Concilio, quando
afferma che gli uomini sono sì tenuti a ricercare la verità nella religione e
ad ordinare ad essa tutta la loro vita, una volta conosciutala, ma alla
condizione di godere sempre della “libertà psicologica” oltre che dell’assenza
di “coercizione esterna” (DH, 2). Si comprende allora il perché degli impegni
formali con Grecoscismatici ed Ebrei a non far opera di proselitismo nei loro
confronti o perché una Madre Teresa di Calcutta non abbia mai cercato di
convertire nessuno alla vera fed(2). Cercare di convertire eretici, scismatici
ed infedeli, per la salvezza della loro anima, vorrebbe dire coartarli nella
loro “libertà psicologica”!
Di fronte ad una concezione così radicale della “libertà
religiosa”, dobbiamo chiederci: quale concetto di “diritto naturale” è posto a
suo fondamento? Non si tratta certo di quello elaborato dalla Scolastica e
sempre impiegato dal Magistero preconciliare. Il “diritto [naturale] della
persona” alla libertà religiosa, di cui a DH 2, riposa esclusivamente sulla
persona stessa, sulla sua “dignità” intrinseca. È un diritto naturale dell’uomo
in quanto uomo. Nella plurisecolare concezione cristiana tradizionale, invece,
il diritto naturale è visto sempre come l’espressione di un’idea di giustizia
il cui fondamento è nella volontà stessa di Dio: esso non riposa mai sull’essere
umano in quanto tale(3). Ma il Concilio non dice forse, sempre in DH 2,
che “il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità
della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e
la stessa ragione”? Dobbiamo allora pensare che nel Nuovo Testamento, ai fini
della conversione delle anime, venga posta l’enfasi sulla “dignità della
persona umana”, con il suo supposto diritto alla libertà di coscienza in
religione? In realtà, la “Parola di Dio rivelata” riportata con florilegio di
citazioni nel lungo articolo 11 della DH dedicato al “modo di agire di Cristo e
degli Apostoli”, non fa altro che rammentarci quello che già si sapeva ossia
che il Signore e gli Apostoli non hanno mai cercato di convertire con la
coercizione e l’astuzia (seguiti anche in questo dalla Chiesa, tant’è vero che
i pochi casi storici di conversioni forzate furono dovuti alla scriteriata
iniziativa personale di qualche imperatore).
Ma valga il vero. Che il “diritto naturale” posto dal
Concilio a fondamento della libertà religiosa sia in realtà parente dei diritti
dell’uomo dell’89, dichiarati in 17 articoli dall’Assemblea Nazionale rivoluzionaria
“en présence et sous les auspices de l’Être suprême”, come se quell’Assemblea
fosse stata una Loggia, lo conferma indirettamente anche lo stesso prof.
Rhonheimer quando ricorda che Benedetto XVI, sempre nel famoso discorso alla
Curia del 2005, di contro alla doverosa condanna di Pio VI di quella famosa
dichiarazione, “prende le difese della prima fase, quella “liberale” della
Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase
giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore e alla
ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la “Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino” del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo
rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano(4).
Stupisce quindi che il prof. Rhonheimer affermi poi che Pio
IX non avrebbe condannato il “diritto naturale” che fonda la “libertà
religiosa”, ma unicamente il suo esercizio come “diritto civile” riconosciuto
dallo Stato. Il suo ragionamento è il seguente. La “prospettiva” del Vaticano
II nei confronti della libertà religiosa “non è semplicemente e unicamente
quella del diritto naturale, ma è sempre anche quella della libertà religiosa
“come diritto civile”, cioè, in fin dei conti, come diritto alla libertà di
culto. Di fatto, tale era anche la prospettiva di Pio IX, poiché la libertà di
religione che egli condannava non era altro che il diritto civile alla libertà
di culto rivendicata, tra gli altri, dall’ala cattolico-liberale"(5).
Inizialmente (vedi supra, § 2, 6), l’Autore afferma
giustamente che Pio IX condannava la libertà religiosa perché, implicando essa
l’indifferentismo, era inconciliabile con il concetto stesso della Verità
Rivelata. Ora apprendiamo, invece, che la libertà religiosa oggetto di quella
condanna altro non era che “il diritto civile alla libertà di culto”. Pertanto,
se il Sillabo ha condannato solo la “libertà di culto”, in quanto
“diritto civile” riconosciuto dallo Stato, allora “il diritto naturale in
quanto tale non è dunque toccato affatto dalla discontinuità che è qui in
questione. La contraddizione non scatta che al livello della rivendicazione del
diritto civile, e non è quindi che di ordine politico”; essa concerne
l’applicazione “giuridico-politica” del diritto naturale “nelle situazioni e di
fronte a dei problemi concreti"(6). Che significa ciò? Che le condanne
preconciliari cessano di avere significato dogmatico per scadere a
contrapposizioni “nell’applicazione giuridico-politica” del “diritto naturale”
alla libertà di coscienza, in quanto libertà di culto? La dottrina
preconciliare avrebbe allora riconosciuto o in qualche modo accettato il
fondamento giusnaturalistico della libertà di culto? Da dove risulta ciò?
Ho già ricordato che Leone XIII escludeva a chiare lettere
la possibilità di concepire come “diritti naturali” i vari “diritti”
riconducibili alla libertà di coscienza. L’esclusione si imponeva innanzitutto
sul piano logico, poiché essi apparivano in perfetta antitesi con il concetto
stesso della Verità Rivelata, sulla quale, oltre alla religione, si fonda anche
la morale cristiana (vedi supra, § 2). Forse Pio IX professava una
dottrina diversa? Ma valga anche qui il vero: “E poiché iniquamente [i
nemici di Cristo e della Chiesa] osano derivare dalla virtù naturale della
umana ragione tutte le verità religiose, così a ciascun uomo attribuiscono
un tale quasi primario diritto, per il quale egli sia libero di pensare e di
parlare a suo senno di religione, e rendere a Dio quell’onore e quel culto, che
secondo suo piacimento giudica migliore"(7). Non potendo ovviamente
riconoscere un diritto naturale alla libertà religiosa, i Papi non potevano del
pari riconoscerne la logica conseguenza, ossia il “diritto civile” ad
esercitarla come libertà di culto.
8.4 Quale concetto di verità ci propone il Concilio? Al
posto dell’invito al proselitismo e alla conversione in senso tradizionale, il
Concilio propugna perciò il dialogo con il mondo, rispettoso al
massimo dell’altrui diritto alla “libertà di religione”, da condursi quindi
mediante la semplice esposizione fraterna della verità. In questo modo gli
uomini giungerebbero ad abbracciare “la vera religione”, rispondendo
positivamente all’obbligo che pur incombe su di loro di ricercarla. Il dialogo,
lasciando parlare la verità, concilierebbe l’esigenza di rispettare il diritto
alla libertà religiosa con l’obbligo morale di ricercare la vera religione. Il
successo di quest’opera dipenderebbe allora soprattutto dalla forza di
convinzione intrinseca alla verità, in quanto tale. Infatti, “la verità non si
impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti
soavemente e insieme con vigore” (DH 1). Niente coazione psichica, dunque,
ma dialogo fraterno, su basi assolutamente paritarie, cercando persino di imparare
dall’altro (Gaudium et Spes, 43, 44).
Il principio qui espresso coglie indubbiamente un aspetto
del concetto della verità: ciò che è vero possiede un’intrinseca capacità di
imporsi. La verità esercita il suo fascino. Ma da questo, a riuscire ad imporsi
effettivamente, ce ne corre. Sia Nostro Signore che gli Apostoli hanno
convertito solo una piccola parte di coloro ai quali si sono rivolti. La
maggioranza o si è convertita per lo spazio d’un giorno o è rimasta
indifferente (come all’Areopago) o si è accodata alla minoranza che rifiutava
violentemente la verità predicata e, oltre ad offendere il predicatore, tentava
addirittura di ammazzarlo. Non per nulla il Signore, oltre alla testimonianza
di come fosse stato male accolto in patria, ci ha lasciato la parabola del seminatore
(Mt 13, 1-23; 53-58). Se è vero che la verità possiede intrinsecamente la forza
di imporsi, tuttavia essa provoca frequentemente ripulse, anche violente,proprio
perché è la verità: la verità, come si suol dire, “fa male”. E soprattutto
quella predicata dal Signore, che richiede di lottare contro noi stessi, di
mortificare il nostro orgoglio, di “portare la Croce” in questo mondo in cambio
di una ricompensa eterna sì, ma che avrà luogo solo dopo la nostra morte,
seguita dal Giudizio, individuale ed universale. In realtà l’uomo tende a
respingere la verità e a lasciarsi sedurre dalla menzogna perché è afflitto
dalle conseguenze del peccato originale e soggiace spesso all’azione del
Maligno, che mira sempre a deviarne i buoni propositi, favorendo le passioni ed
i peggiori istinti. Perciò la Chiesa ha sempre insegnato, sulla base del Nuovo
Testamento, che nessuno può accedere alle verità di fede né perseverare nella
fede e nelle opere, senza l’aiuto della Grazia. L’opera della conversione è
difficile, procede sempre lentamente e solo se la nostra buona volontà è
sorretta dallo Spirito Santo, che agisce in noi soprattutto mediante i
Sacramenti e quindi con la mediazione della Chiesa.
Ora, è stato notato che “l’essere umano” delineato nei testi
del Concilio, assomiglia più all’uomo “buono per natura”, degli Illuministi e
di Rousseau, all’individuo astratto (e senza Dio) canonizzato (appunto) dagli
Immortali Princìpi dell’89, che all’uomo quale l’ha sempre realisticamente
concepito la Chiesa, ispirata dai dogmi del peccato originale e della presenza
effettiva di Satana nella realtà di questo mondo. Bisognerebbe infine
chiedersi: se la verità di fatto proposta nell’odierno dialogo ecumenico con i
non-cattolici è la verità di una nuova dottrina costretta sempre più a
giustificare la propria discontinuità, perché meravigliarsi, allora, se le
nostre società sembrano sempre meno animate dallo “spirito cristiano”
e sempre più impregnate di quello dell’Avversario?
(fine)
NOTE
1) ER, ed. it., p. 5.
2) A proposito dei moribondi di Calcutta, era solita
dire: “Noi diamo loro ciò che desiderano, secondo la loro fede” (H. GRESLAUD, Madre
Teresa, una beatificazione equivoca, in ‘La Tradizione Cattolica’, XVI (2005) 2
(59), pp. 25-39; 36-37).
3) Summa Theol., I-II, q. 57, a. 2.
4) ER, ed. it., p. 6. Il primo di questi famosi
articoli proclama che: “Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en
droits” (F. BATTAGLIA (a cura di), Le carte dei diritti, Sansoni, Firenze,
1934, p. 122). Poiché non si menziona qui un Dio creatore, si deve ritenere che
siffatta uguaglianza sia intrinseca all’uomo in quanto uomo, sia
antropocentricamente concepita. L’idea laica di un’uguaglianza di tutti gli
uomini per il solo fatto di esser tali (non perché creati da Dio, Padre comune)
è nell’epoca moderna uno dei fondamenti della “dignità dell’uomo” e dei diritti
naturali (od “umani”) che su di essa si vogliano costruire.
5) ER, ed. it., p. 9.
6) Ivi.
7) PIO IX, Alloc. Maxima quidem, del 9. 6. 1862,
in Appendice a PIO IX, Il Sillabo, nuova ed. it. con testo a
fronte e appendice doc. a cura di G. Vannoni, Cantagalli, Siena, 1985², pp.
189-98; p. 192. Corsivi miei.
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