di Paolo Pasqualucci (Fonte: Riscossa cristiana)
terzo capitolo
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7. Infondatezza della critica a Pio IX e all’intera
dottrina della Chiesa sul rapporto con lo Stato.Riconosciuta la grandezza di
Pio IX per aver difeso la fede contro “l’individualismo e il relativismo
religiosi”, il Nostro inizia però a criticarlo perché quel Papa avrebbe
trasformato “la giusta battaglia contro l’indifferentismo e il relativismo” in
una “battaglia contro il diritto civile alla libertà religiosa e di culto”.
Questa trasformazione, secondo l’Autore, è dovuta al prevalere all’epoca di considerazioni
storicamente datate, secondo le quali “lo stato è il garante della verità
religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello stato come del suo
braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorali. Ora, una tale
concezione dello Stato non riposava minimamente sui principi della
dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle
tradizioni e le pratiche del diritto religioso di origine medievale così come
sulle loro giustificazioni teologiche”. Riposava, allora, unicamente “su dei
modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la
loro forma definitiva soltanto all’interno dello stato confessionale moderno”*1.
Queste affermazioni mi sembrano estremamente pesanti:
l’Autore sostiene in pratica che tutta la dottrina della Chiesa sulla necessità
per lo Stato di essere cristiano e di operare pertanto anche come braccio
secolare in difesa della vera religione e della Chiesa, “non riposa minimamente
sulla fede e la morale cattoliche” e pertanto nemmeno sul dogma! La Gerarchia
avrebbe sbagliato per così tanti secoli, dunque! E non solo, osservo, dalla
tarda antichità ma da sùbito. Il tetrarca Agrippa non interruppe forse
l’incalzante argomentare di S. Paolo, dicendogli: “ Poco manca che tu non mi fai
diventar cristiano!”, ricevendo questa risposta: “Manchi poco o molto, desidero
da Dio che non solo tu, ma quanti oggi mi ascoltano, diventiate tali quale son
io, salvo queste catene [della prigionia]” (Atti 26, 28-9; ma vedi anche 2 Tm
4, 1 ss.). S. Paolo stava forse perorando per la “libertà religiosa”, perché la
vera fede si vedesse elargita l’elemosina del riconoscimento di religio
licita? I Martiri e gli Apologisti (come si è visto) non sentivano e non
parlavano diversamente da S. Paolo. Proselitismo, dunque, anche trovandosi
in catene, e fino all’ultimo respiro, affinché il più gran numero possibile si
convertisse e si salvasse! E nel pieno delle persecuzioni di Marco Aurelio,
Melitone, vescovo di Sardi, non ebbe il coraggio di affermare che “la fede
cristiana doveva diventare la filosofia [la concezione della vita] dell’impero
romano”?*2 Rischiavano la morte per il solo fatto di esser tali eppure già
pensavano di poter conquistare l’impero romano, di fare della Fede la sua
“filosofia”. Che anche lo Stato debba essere cristiano, che debba perciò
proteggere la vera religione e la Chiesa e farne applicare la morale, è
dottrina (e prassi) costante, da S. Ambrogio a S. Agostino a S. Tommaso, allo
“Stato confessionale moderno”; dottrina inalterata, possiamo dire, sino a Pio
XII, fondata sulla Scrittura oltre che sulla Tradizione. Ma davvero dobbiamo
credere che tutti avrebbero sbagliato, che solo il Vaticano II, dopo
un’oscurità di circa venti secoli, avrebbe fatto chiarezza?
E per qual motivo questa dottrina non riposerebbe “né sulla
fede né sulla morale cattoliche”? Come giustifica il prof. Rhonheimer
un’affermazione del genere? Con l’intendere il “rendete dunque a Cesare quel
che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Lc 20,25) come se Nostro Signore avesse
comandato unaseparazione radicale tra “religione” e “politica” e quindi
fra lo Stato e la Chiesa. Già l’epoca “post-costantiniana del cristianesimo”
avrebbe rappresentato una deviazione, mediante “decisioni concrete [quali?]”
poi “cristallizzatesi in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni
teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere
la sua libertà, la “libertas ecclesiae”, dagli attacchi incessanti delle
potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle
due spade che, all’epoca, cercava di giustificare teologicamente e
biblicamente la comprensione della “plenitudo potestatis” del papa”. Dalla
teoria delle due spade, che sembra non godere la simpatia dell’Autore, si è
giunti, nei secoli più vicini, a “una giustificazione dello stato cattolico
ideale”, quello della simbiosi tra “il trono” e “l’altare”, nel quale lo
statista cattolico zelante “sosteneva la causa dei “diritti della Chiesa” invece
che dei diritti civili alla libertà religiosa; si è giunti al trionfo del
“clericalismo” e ad una “società clericale”, cose che “hanno oscurato il volto
della Chiesa”*3.
Insomma, il Papa teorico delle “due spade” sarebbe stato tra
i responsabili del “clericalismo” che (sino al Vaticano II escluso) avrebbe
“oscurato il volto della Chiesa”. Ma il significato della celebre frase del
Signore sul rapporto tra Cesare e Dio, tra Stato e Chiesa, mi chiedo, chi lo
deve stabilire? Non è compito che spetta alla Chiesa stessa, come ribadiscono i
dogmatici Tridentino e Vaticano primo? E se la Chiesa stessa l’ha interpretato
in un medesimo senso per così tanti secoli, per qual motivo il prof. Rhonheimer
ne dà un’interpretazione diversa e persino opposta, proponendo l’idea della separazione là
ove si tratta invece didistinzione? Infatti, nel famoso passo dell’epistola
dell’AD 494 indirizzata ad Anastasio imperatore d’Oriente, Gelasio I affermò
che “le due spade”, i due poteri i quali, per volontà divina, reggevano il
mondo (la “auctoritas sacrata pontificum” e la “regalis potestas”) erano due
“dignitates distinctae”, poiché presiedevano la prima “all’eterna vita”, la
seconda “al corso delle cose temporali”, e tuttavia coordinate nella
subordinazione a Cristo, unico vero Capo*4.
Distinzione e non separazione poiché lo Stato, pur
essendo distinto ed autonomo nella sua sfera (così come la Chiesa nella sua),
deve tuttavia considerarsi sempre subordinato allo Spirituale, dal quale
dipendono le norme morali che lo Stato ha il dovere di attuare sia per
realizzare il suo fine specifico (il Bene comune, con la sua giustizia) sia per
concorrere anch’esso (per ciò che gli spetta e quindi sempre nella sua sfera)
alla realizzazione del Bene Sommo da parte di ciascun cittadino, costituito
dalla salvezza della sua anima. La separazione è inaccettabile perché
implica divergenza quanto ai rispettivi fini specifici. Invece, anche lo Stato
deve ritenersi ordinato nella sua sfera alla realizzazione del Bene
Sommo, che è sovrannaturale: rappresentato dalla Visione Beatifica, della quale
godranno un giorno gli Eletti da Dio, in eterno. Che questa plurimillenaria
dottrina della Chiesa, fondata da sempre su Rm 13, 1-6, e su di
un’interpretazione costante della celebre frase di Nostro Signore sopra
ricordata, non sia in accordo con la fede e la morale cristiane, e quindi con
il dogma, è affermazione che mi sembra alquanto temeraria. La Chiesa non poteva
accettare l’unione di politica e religione che si realizzava nella
persona pagana dell’imperatore romano. Ma essa ha ovviamente sempre respinto
l’idea di una separazione tra Stato e Chiesa poiché quest’ultima
comporta appunto la concezione laica dello Stato, indifferente ad
ogni credo religioso e alla vita eterna, inteso solo alle finalità di questo
mondo. E comporta quel pluralismo religiosoche sicuramente non è mai stato
insegnato da Nostro Signore, il quale ha detto e ripetuto che solo Lui è
la verità, la via, la vita, la Porta attraverso la quale il buon pastore può
far uscire le pecore, le anime dei fedeli da questo mondo per condurle al
pascolo della vita eterna (Gv 10, 7 ss.). Dal punto di vista veramente
cristiano, ossia cattolico, non può esistere uno Stato che sia neutrale ed imparziale rispetto
alla religione e quindi indifferente a Cristo. Il Signore stesso ci ha
ammonito: “Chi non è con me è contro di Me e chi non raccoglie con Me
disperde”. La profonda verità racchiusa in queste parole colpisce vieppiù oggi,
costretti come siamo a constatare il carattere sempre più anticristiano della
nostra società, governata da uno Stato che vuol essere laico, cioè senza
religione, senza Dio, senza morale, preoccupato soprattutto dei bisogni
materiali dei cittadini.
8. L’Autore riesce a dimostrare l’effettiva continuità
della nuova dottrina? Alla dottrina preconciliare (risalente ai primi
tempi della Chiesa), l’Autore oppone dunque quella conciliare: “La dottrina del
Vaticano II rappresenta qui una chiara svolta rispetto al passato”; essa libera
la Chiesa da “un fardello storico”; bisogna dire che essa ha “tacitamente
archiviato” la dottrina preconciliare “con l’atto di magistero solenne di un
concilio ecumenico”*5. A proposito di quest’ultima affermazione mi chiedo, da
semplice credente: questa “archiviazione tacita” effettuata da un Concilio ecumenico
solo pastorale – perché non ha voluto dare definizioni dogmatiche – ha un
significato dal punto di vista teologico e canonistico? O dobbiamo equipararla
alla “archiviazione tacita” della S. Messa di rito romano antico effettuata da
Paolo VI? E quanto alla coerenza di questa nuova dottrina, che cosa dire?
8.1 La libertà religiosa come diritto naturale. Se la
nuova dottrina crede ancora che la religione cristiana ossia cattolica (perché
bisogna evidentemente escludere gli eretici e gli scismatici) sia l’unica vera
perché l’unica autenticamente rivelata da Dio, allora non può porre la sua
rivendicazione della connessa “libertà religiosa” sullo stesso piano di quella
delle altre religioni, nessuna delle quali può considerarsi rivelata. Se lo fa,
tale equiparazione deve prescindere totalmente dal contenuto della
religione ossia dalla sua verità. Adoratori delle cipolle sacre, della dea
Kalì, adepti del Vûdû, totemisti, cattolici, protestanti, ebrei, musulmani,
sono posti tutti sullo stesso piano in quanto titolari di un supposto “diritto
naturale” della persona alla “libertà religiosa”, diritto fondato sulla
“dignità della persona” stessa (Dignitatis Humanae, 2). Infatti, in quanto
“diritto naturale”, tale diritto spetta ontologicamente ad ogni individuo,
perché ogni individuo è persona, sia esso un uomo civilizzato o un cacciatore
di teste*6. In quanto diritto naturale, si tratta di un diritto assoluto,
che lo Stato deve riconoscere e che implica di per sé l’equiparazione assoluta
di tutte le religioni. Ma in tal modo, la nuova dottrina non viene a
contraddire implicitamente il dogma della fede, secondo il quale la religione
predicata da Cristo, essendo l’unica vera a causa della sua
indiscussa origine divina, non può esser mai considerata uguale alle altre, con
le relative conseguenze che ciò comporterebbe? Insomma, che ne è dell’unicità della
nostra religione, del Cattolicesimo in quanto Verità divinamente rivelata,unico strumento
della salvezza? Se la religione cattolica è l’unica vera, la rivendicazione di
cui sopra non può esser paritaria; se la si vuole paritaria, ciò equivale a
negare che la religione cattolica sia l’unica vera.
Come esce il Concilio da questo dilemma, provocato, lo
ripeto, dall’aver concepito la “libertà religiosa” non come una semplice facoltà,
riconosciuta dallo Stato, esercitabile con prudenza a seconda delle circostanze
storiche (vedi Enciclica di Leone XIII, supra, § 2), ma addirittura come
un diritto naturale di ogni individuo in quanto persona, diritto che non solo
lo Stato ma anche la Chiesa ed anzi tutte le religioni devono riconoscere, se
non vogliono violare la “dignità” della suddetta persona? Dopo aver concepito
questo “diritto” in modo così rigido, il Concilio riesce ad accordarlo con il
principio, assoluto dato il suo fondamento sovrannturale, dell’unicità della
religione cattolica, in quanto unico strumento di salvezza?
8.2 Il Concilio ha mantenuto “l’unicità” del
Cattolicesimo? Scrive il prof. Rhonheimer: “Come insegna il Vaticano II,
il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che
tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle
persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le
persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i
fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di
culto, non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le
religioni debbano essere “ugualmente vere””*7. Dove insegna il Concilio che non
c’è equivalenza tra tutte le religioni? Verosimilmente in DH, 1, là ove si
dice: “E poiché la libertà religiosa […] riguarda l’immunità dalla coercizione
nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica
sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica
Chiesa di Cristo”*8. Nel capoverso precedente dello stesso articolo, la DH
ribadiva questa dottrina tradizionale, affermando che “il sacro Concilio
professa che Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la
quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire
alla beatitudine. Quest’unica vera religione crediamo che sussista [solamente]
nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la
missione di comunicarla a tutti gli uomini [segue citazione di Mt 28, 19-20] E
tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che
concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che
la conoscono e a rimanerle fedeli”*9.
Riportando questo passo, mi sono permesso di inserire tra
parentesi quadre un avverbio (solamente,solum) che, io credo, se inserito dai
Padri conciliari, avrebbe permesso di affermare senz’ombra di dubbio che il
testo ripete in modo del tutto fedele il dogma della fede, sulla assoluta
unicità ed esclusività della Chiesa cattolica in quanto strumento di salvezza
istituito da Nostro Signore. Così com’è, infatti, il testo non sfugge, com’è
noto, all‘impressione di una sostanziale ambiguità, dovuta anche all’uso del
“subsistit in” del famoso art. 8 di Lumen Gentium, ove si definisce la
natura della Chiesa cattolica come se fosse partedell’unica “Chiesa di
Cristo”: parte poiché quest’ultima, oltre alla Chiesa cattolica,
ricomprenderebbe anche “parecchi elementi di santificazione e verità” posti “al
di fuori” della Chiesa cattolica. Perciò “l’unica vera religione che sussiste
nella Chiesa cattolica” sarebbe allora quella di una “Chiesa di Cristo” che
possiede “elementi” al di fuori della Chiesa cattolica. E chi vuole non può
forse intendere che “l’unica vera religione” sussiste allora anche negli
“elementi” non-cattolici della “Chiesa di Cristo”?
Ma torniamo al punto: perché, secondo il Concilio, non v’è
contraddizione tra la dottrina nuova e la vecchia? Perché la dottrina nuova, ci
viene spiegato da DH 1, “lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul
dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica
Chiesa di Cristo” (“Chiesa di Cristo”, si noti). Ma qual’è la dottrina
tradizionale “sul dovere verso la vera religione etc.”? Si dovrà ammettere che
tale dottrina non è qui facilmente identificabile, essendo il suo oggetto
indicato con l’oscura espressione “dovere verso la vera religione etc.”.
Che significa “dovere verso la vera religione e l’unica Chiesa di
Cristo”? Dovere di fare che cosa? Il significato di queste affermazioni,
ci ricorda il prof. Rhonheimer, è chiarito dal CCC, al n. 2105, che afferma,
“citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell’individuo che
della società “rendere a Dio un culto autentico”. Culto che la Chiesa realizza
“evangelizzando senza posa gli uomini”, affinché essi possano penetrare di
spirito cristiano “la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della
comunità in cui vivono”. A ogni cristiano si chiede di far conoscere “l’unica
vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica”. Questo è il
modo – conclude l’articolo del CCC – nel quale la Chiesa manifesta “la regalità
di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane””*10.
La dottrina nuova esprimerebbe dunque gli stessi concetti
della “dottrina tradizionale”, quando stabilisce i doveri dell’uomo verso Dio.
E questi “doveri” si sintetizzano nel “dovere” di rendere a Dio “un culto
autentico”. Questo dovere – osservo – vale come sappiamo per ogni uomo, non
solo per i cristiani. Ma poiché i culti sono non solo diversi ma persino
opposti tra loro, quale sarà allora “il culto autentico”? È possibile ricavare
un concetto universale di “culto autentico”?*11 Sarà forse quello di una
religione naturale, che viene dal cuore, come per i Pietisti, o dalla
sensibilità, come per il rousseauiano “Vicario Savoiardo”? Che vuol dire poi
“autentico”? L’animista che adora il suo feticcio o il quacchero che recita
parole incomprensibili torcendosi sotto l’émpito dello “Spirito” offrono un
culto meno “autentico” o più “autentico” di chi prega devotamente in una chiesa
cattolica o invoca Allâh inginocchiato nel deserto? Comunque sia, questo “culto
autentico” da cosa è costituito, per la Chiesa, anzi per “i cristiani”?
Dall’”evangelizzazione”. Per “convertire” gli uomini, praticando il
proselitismo della dottrina tradizionale? No. Per far sì che “la mentalità, i
costumi, la società etc.” siano “penetrati” dello “spirito cristiano”. Questo
il dovere dei singoli cristiani, per “affermare la regalità di Cristo su tutta
la creazione e in particolare sulle società umane”. Bisogna che il mondo sia
“penetrato” ed anzi “impregnato dello spirito di Cristo” (LG, 36), che i
cristiani “animino e perfezionino con lo spirito cristiano l’ordine delle
realtà temporali” (decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato
dei laici, 4).
La dottrina tradizionale sosteneva che la missione della
Chiesa era quella stessa degli Apostoli: convertire (“render discepoli di
Cristo”) i popoli e gli individui, perché solo diventando cristiani potevano
esser graditi a Dio ed ottenere la vita eterna. La nuova dottrina, invece,
afferma che l’evangelizzazione deve limitarsi a “impregnare” gli uomini di
spirito cristiano, facendo loro conoscere “l’unica vera religione”, che è
quella “che sussiste [anche o solamente?] nella Chiesa cattolica ed
apostolica”. “Penetrare”, “impregnare”, “animare”: tanti termini oscuri al
posto di uno semplice e chiaro quale “convertire”.
Ma ammettiano pure che il Concilio mantenga senza ambiguità
la dottrina tradizionale sulla necessità imprescindibile della conversione
delle Genti per la loro salvezza. Si concilierebbe tale professione con il
riconoscimento della libertà di religione quale diritto naturale e quindi
assoluto della persona? Si concilierebbe con l’accettazione di fatto del
conseguente pluralismo religioso?
(segue)
NOTE
1) ER, p. 11, ed. it. Corsivi miei.
2) E. GILSON, La filosofia nel Medioevo. Dalle
origini patristiche alla fine del XIV secolo (1952), tr. it. di M. Assunta
del Torre, present. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze, 1995, p. 31.
3) ER, p. 12 ed. it. Corsivi miei.
4) F. CALASSO, Medio Evo del diritto. I - Le fonti,
Giuffré, Milano, 1954, p. 140.
5) ER, passim, ed. it. L’ultima citazione è alla p. 12.
6) ER, ed. it., p. 9: “È dunque certamente giusto dire
che il Concilio Vaticano II considera la libertà religiosa come facente parte
del diritto naturale”.
7) ER, ed. it., p. 8. Corsivi miei.
8) I documenti del Concilio etc., cit., p. 580.
9) Ivi.
10) ER, ed. it., p. 7. Si evita sempre di dire: “che
sussiste solamente nella Chiesa Cattolica”.
11) La Mediator Dei (1947), in modo netto e
preciso, parlava invece del dovere per tutti gli uomini di offrire: “debitum
cultum atque obsequium per religionis virtutem Deo uni et vero”(PIO XII, Enciclica
‘Mediator Dei’ sulla liturgia, tr. it. con testo a fronte, Vita e Pensiero,
Milano, 1956, p. 14).
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