giovedì 31 marzo 2011

"1861 Le due Italie” di Massimo Viglione



Il mito risorgimentale poggia su molteplici travisamenti storici, ideali e religiosi (ideologia risorgimentale), il cui risultato è questo indiscutibile “dogma nazionale”: in Italia, per essere patrioti, per dimostrare di amare l’Italia, occorre amare il Risorgimento, in quanto è con esso che è nata la nostra patria. Si è sempre voluto a tutti i costi (e oggi con rinnovato spirito) far penetrare nelle menti degli italiani che l’unica via al patriottismo sia la celebrazione risorgimentale, la venerazione dei quattro “padri della patria”. È la più grande vittoria della vulgata risorgimentale, l’inganno per eccellenza: il far credere che chi narra ciò che è stato occultato (le insorgenze, il settarismo utopista, la guerra alla Chiesa Cattolica, i brogli elettorali dei plebisciti, le stragi di “briganti”, il piemontesismo, il fiscalismo, l’emigrazione, ecc.) e di contro non celebra Mazzini e Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi, Napoleone e Gioberti, sia “anti-italiano” o comunque contro l’unità nazionale. O magari studioso poco serio…
Chiunque sia ormai a conoscenza di quanto descritto e considerato in questo studio e vi abbia serenamente meditato, non può non vedere come la vittoria del Savoia e del partito piemontese, grazie al geniale Ministro che tutti e tutto mosse, non fu la vittoria dell’Italia, e tanto meno degli italiani; fu solo la vittoria di una élite potente e prepotente, che, con il pretesto dell’unificazione (poiché tale fu, non unità), gettò in realtà le basi storiche, politiche, ideologiche e sociali per la futura affermazione del totalitarismo e delle tragedie che il nostro popolo ha subito nel XX secolo.
 
Massimo Viglione, 1861. Le due Italie – Identità nazionale, unificazione, guerra civile. Ares 2011, EAN 9788881555222, Pagine 424

E se tutto ciò fosse vero???

 






Il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, nel conclave del 26 Ottobre 1958 venne eletto papa con il nome di Gregorio XVII ma due giorni dopo, su pressione dei cardinali francesi, fu costretto a dare le dimissioni in quanto, secondo i servizi di sicurezza del Vaticano, la sua elezione avrebbe determinato l’assassinio di diversi vescovi dietro la Cortina di Ferro comunista. La notizia, ampiamente documentata, fa parte del dossier segreto “Cardinal Siri” compilato dal Federal Bureau of Investigation (Fbi) in data 10 aprile 1961 per il Dipartimento di Stato americano.
Il dossier è rimasto secretato fino al 28 Febbraio 1994 quando, scaduti i termini della classificazione grazie alla legge Freedom of Information Act, è stato possibile accedere al documento. Il primo a leggere quel dossier segreto fu Paul L. Williams, consulente dell’Fbi e giornalista investigativo, che nel 2003 diede alle stampe il libro “The Vatican Exposed: Money, Murder, and the Mafia”, pubblicato negli Stati Uniti dalla Prometheus Books.
Secondo il resoconto di Wililams, tutto cominciò nel 1954 quando il conte Della Torre, editore dell’ “Osservatore Romano”, informò l’allora pontefice Pio XII delle simpatie che il cardinale Angelo Roncalli (che più tardi diventerà Papa Giovanni XXIII) nutriva per i comunisti. A quanto pare anche altri esponenti della cosiddetta «Nobiltà Nera’, cioè l’aristocrazia vaticana, espressero Io stesso tipo di timori al Papa.
La notizia giunse ben presto nell’ambasciata americana di via Veneto dove agenti della Cia e dell’Fbi vennero immediatamente attivati per scoprire le eventuali simpatie del cardinale Roncalli. Le indagini, inoltre, vennero estese anche a Monsignor Giovanni Battista Montini, che più tardi salirà al trono di Pietro col nome di Papa Paolo VI.
Williams a questo punto racconta che Papa Pio XII, proprio per evitare che la Chiesa potesse uscire dai suoi canoni tradizionali, indicò il cardinale Giuseppe Siri come suo successore. Siri, come ben sanno i genovesi, era fortemente anticomunista e un intransigente tradizionalista in materia di dottrina della Chiesa. Inoltre era conosciuto anche come un ottimo organizzatore.
Dopo la morte di Pio XII venne dunque il giorno del conclave. Era il 26 Ottobre del 1958 e i cardinali si riunirono in assise nella Cappella Sistina per eleggere il nuovo Papa. Ciò che avvenne in quelle ore è rimasto nella più assoluta riservatezza e lo stesso Siri preferirà tacere per tutta la vita sul suo segreto piuttosto di rivelare quanto accadde.Secondo gli agenti dell’Fbi, che quindi in qualche modo raccolsero le informazioni riservate di alcuni cardinali presenti nel conclave, al terzo ballottaggio Siri raggiunse i voti necessari e venne eletto Papa col nome di Gregorio XVII. La notizia venne subito ufficializzata con la tradizionale fumata bianca che annunciò al mondo l’ “Habemus Papam”. Non solo. Quello stesso giorno alle 18 la notizia venne annunciata con gioia dalla Radio Vaticana. L’annunciatore disse: “Il fumo è bianco...non c’è alcun dubbio. Un Papa è stato eletto”.
Ma il nuovo Papa non fece alcuna uscita in pubblico. La gente in piazza San Pietro aspettava trepidante, ma la finestra non si apriva. Ad un certo punto a qualcuno vennero dei dubbi. Vuoi vedere che quel fumo non era poi così bianco? Forse era un po’ grigio... A quel punto, per dissipare qualsiasi dubbio, Monsignor Santaro, segretario del conclave dei cardinali, annunciò che il fumo in effetti era bianco e che un nuovo Papa era stato eletto.
Ma l’attesa continuava senza alcun esito. Quella sera la Radio Vaticana annunciò che il risultato era incerto. L’indomani, il 27 Ottobre 1958, un quotidiano del Texas, “The Houston Post” pubblicò un articolo il cui titolo diceva “I cardinali hanno fallito a eleggere il Papa in 4 ballottaggi: confusione nei segnali di fumo ha causato un falso responso”.
Ma, a quanto pare, quel responso era stato invece valido. Anche al quarto ballottaggio, secondo le fonti dell’Fbi, Siri ottenne i voti necessari per essere eletto pontefice. Ma i cardinali francesi, mostrando i rapporti confidenziali dei servizi di sicurezza del Vaticano, chiesero a Siri di rinunciare al papato in quanto la sua elezione “avrebbe causato disordini e l’assassinio di diversi vescovi dietro la Cortina di Ferro”.
I cardinali proposero quindi di eleggere un “Papa di transizione” nella persona del cardinale Federico Tedeschini, ma l’interessato era in condizioni di salute troppo precarie per poter accettare. Infine il terzo giorno, l’assemblea si mise d’accordo per eleggere il cardinale Roncalli, Papa Giovanni XXIII.
Fin qui il racconto di Paul L. Wililams. Secondo un altro giornalista e scrittore francese, Louis Hubert Remy, nel conclave del 21 giugno 1963 un’altra volta Giuseppe Siri stava per essere “rieletto” Papa. Ma ancora una volta qualcuno fece osservare che la Chiesa sarebbe stata perseguitata se un personaggio come il cardinale genovese fosse mai stato eletto Pontefice. E ancora una volta Siri calò il capo lasciando il posto a Paolo VI.
Il 18 maggio 1985 Louis Hubert Remy, l’amico Francois Dallas e il Marchese de la Franquerie, personaggio molto conosciuto nella Curia romana, vennero ricevuti dal cardinale Siri nel suo studio di via San Lorenzo, a Genova. Ad un certo punto Remy domandò a Siri se era vero quanto si diceva circa la sua elezione a Papa. “Egli stette per lunghi attimi in silenzio, quindì alzò gli occhi al cielo con un senso di sofferenza e dolore, unì le mani e, pesando le parole con gravità, disse: ‘Sono legato dal segreto’ - racconta Remy - Quindi, dopo un lungo silenzio, pesante per tutti noi, disse ancora: ‘Sono legato dal segreto. Questo segreto è orribile. Potrei scrivere libri sui diversi conclavi. Cose molto serie sono accadute in quelle occasioni. Ma non posso dire nulla”.
E il suo segreto, sempre che siano vere le fonti che rivelarono quelle indiscrezioni, se lo portò nella tomba.
 

Nuovo libro di Mons. Gherardini: Concilio Vaticano II. Il discorso mancato

Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II.
Il discorso mancato, Lindau, 2011



"Il Vaticano II presenta infine il quarto livello, quello delle sue innovazioni. Se si guarda non ai singoli pronunciamenti, ma allo spirito che li concepì e li produsse, si potrebbe sostenere che il Concilio fu tutto un «quarto» livello, o che tutto si ritrova in esso. Il «contro», del quale a suo tempo ho parlato, colloca volenti o nolenti il Vaticano II nel quadro dell'innovazione; anzi d'un'innovazione singolare, la più radicale, quella che prima di interessarsi delle cose si dette un'aria garibaldina; e prima di pervenir in concreto a punte di sorprendente e scoperta rottura, fu un sonoro e deciso no all'ispirazione di fondo del precedente magistero" (p. 93)

UN LIBRO DA LEGGERE SUBITO!

Fonte: Una Fides

Il caso de Mattei: riflettere su Dio e il male ed essere accusato d’indegnità scientifica



("Il Foglio" del 30/03/2011) Lo storico Roberto de Mattei non immaginava che la riflessione da lui fatta dai microfoni di Radio Maria una settimana fa, nel corso di una rubrica mensile intitolata alle radici cristiane, sarebbe stata usata per chiedere le sue dimissioni dalla vicepresidenza del Consiglio nazionale delle ricerche, per incompatibilità tra le idee espresse in quella occasione e il ruolo scientifico che la sua carica presuppone.

Rilanciate dall’Unione atei e agnostici razionalisti, le parole di De Mattei sono diventate, in un titolo della Stampa, l’affermazione che “il terremoto è un castigo di Dio”: “Il suo, insomma, è un punto di vista non particolarmente basato sulla scienza – ha scritto la giornalista Flavia Amabile – ed è abbastanza comprensibile: se si legge il suo curriculum si nota che non è uno scienziato ma uno storico con evidenti radici cattoliche”.

E’ il professor De Mattei a spiegarci che “i temi da me trattati da un anno nella rubrica su Radio Maria, da privato cittadino e ovviamente senza che sia mai stato citato il mio ruolo al Cnr, sono di carattere religioso.

Mercoledì scorso ho parlato del mistero del male, accostando due episodi di sofferenza: il terremoto giapponese e l’assassinio del ministro pachistano cristiano Shahbaz Bhatti, un male indipendente dalla volontà dell’uomo e un male originato dalla persecuzione e dall’odio umano. Ho detto testualmente che non c’è male morale nel terremoto perché il terremoto viene dalla natura, che è in sé buona, è creata da Dio, e se Dio permette i terremoti e altre sciagure, esistono ragioni che egli conosce e che noi non conosciamo”. De Mattei ha ripreso alcuni passi di quanto monsignor Orazio Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro, pubblicava in un libriccino all’indomani del terremoto di Messina, nel 1908.

“Mazzella, a proposito del male inspiegabile, della catastrofe che colpisce indiscriminatamente, faceva una serie di ipotesi. La prima è che attraverso queste sciagure Dio ci stacca dai beni della terra e ci fa sollevare gli occhi al cielo. Una seconda ipotesi – ipotesi, non sentenza – è quella della punizione, una terza è che attraverso la sofferenza e il sacrificio le anime hanno la possibilità di unirsi a Dio. Ho aggiunto che l’unica cosa certa, per noi credenti, è che una ragione per Dio c’è, anche se non ci è dato comprenderla. Tutto ciò che accade ha un senso”.

Si rimprovera a De Mattei il passaggio in cui dice, sempre citando Mazzella, che “ci accorgeremo che per molte di quelle vittime, che compiangiamo oggi, il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato la loro anima da tutte le macchie, anche le più lievi, e grazie a questa morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del tempo perché Dio ha voluto risparmiarle un triste avvenire”. Le riflessioni di De Mattei – al quale, inoltre, non si perdona di aver organizzato tempo fa un convegno di studiosi antidarwinisti – sono senza dubbio faticose da sentir pronunciare, ed è comprensibile che per molti siano inaccettabili.

Ma che c’entra l’indegnità “scientifica” del vicepresidente del Cnr? De Mattei dice che “dovrebbe essere evidente che un credente, come io sono, all’interno di una meditazione dettata dalla fede (è una colpa?) abbia il diritto di ricordare quello che la dottrina cattolica, il magistero dei padri e dei dottori della chiesa, degli stessi Pontefici, ripete da sempre: Dio non ha creato il mondo per disinteressarsene”. Il problema, secondo lui, è che “chi chiede le mie dimissioni vuol fare passare il principio che un cattolico non possa svolgere funzioni pubbliche. Chi crede nel dogma dell’Immacolata Concezione non potrà quindi mai più insegnare all’Università? Chi fa la comunione, e quindi crede nella transustanziazione, dovrà nascondere la propria fede perché ‘antiscientifica’? Gli insegnanti credenti che svolgono un ruolo pubblico, non potranno più andare a parlare di ciò in cui credono alla radio, cattolica o meno?”.

A De Mattei è arrivata la solidarietà di un ricercatore laico, lo storico del Cnr Luca Codignola, che sull’Occidentale ha denunciato la “petizione di benpensanti progressisti” che vogliono le sue dimissioni. Einstein diceva che Dio non gioca a dadi con l’universo, il grande genetista cristiano Francis Collins ha scritto che la scienza è per lui una “opportunità di preghiera”. Da declassare anche loro? “E’ evidente – conclude De Mattei – che qualcuno sogna una specie di dhimmitudine laicista: sei credente? Bene, purché te ne rimanga in chiesa; senza occupare spazi pubblici né pretendere di parlare pubblicamente delle tue convinzioni”.

Fonte

mercoledì 30 marzo 2011

IL DELIRIO DI OLEGGIO: CHI FERMERA' GLI ABUSI LITURGICI?



Non ci sono parole! Guardate questo video: riguarda la parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Oleggio e il parroco don Giuseppe Galliano. Mentre la Chiesa dialoga con atei e non credenti, si consumano sempre più potenti lacerazioni e abusi liturgici. Chi e quando interverrà per correggere con paterno amore gli errori di una mentalità protestante penetrata nel seno della Chiesa?
 
 
Se non vi è bastato, andate a guardarvi il video dell' "Effusione dello Spirito Santo" di domenica scorsa...


Ma volete proprio sapere cosa pensa questo sacerdote carismatico e cosa va predicando ai suoi fedeli? Ebbene, leggete questo estratto della sua omelia, scaricabile dal sito del gruppo carismatico:

"Gesù non è l’Uomo del culto, è l’Uomo della vita. Gesù non battezza, non celebra la Messa, non confessa, non dà l’Unzione degli infermi, non celebra matrimoni o funerali. Gesù non fa tutto quello che costituisce l’apparato liturgico cultuale di ogni religione, anche della nostra. Gesù è l’Uomo della vita, porta il Divino nella vita. Noi, come Chiesa, abbiamo un apparato liturgico: la Messa, le Liturgie varie, alle quali si dà un’importanza esagerata, come se fosse il fine, non il mezzo.
Con questo versetto si vuole evidenziare che le varie liturgie sono un mezzo, per arrivare al fine, che è l’esperienza del Divino. La Messa è una cena con Gesù. Il Sacramento del matrimonio, a parte i due sposi, che celebrano le loro nozze, è un’esperienza di guarigione dell’Amore. Il funerale è un’esperienza di guarigione dalla perdita delle persone care. Significa, quindi, celebrare il Sacramento e le altre Liturgie, per farle passare nella vita."

Soddisfatti?
 

E' chiaro che questi fatti, così come molti altri, confutano la falsa tesi di taluni, anche vaticanisti di certo rilievo, che gli abusi liturgici non che vere e proprie eresie protestanti in seno alla Chiesa sarebbero in netta diminuizione, ciò dimostra che è falsa questa tesi che tende a minimizzare le preoccupazioni di una buona parte di cattolici che denuncia da decenni tali derive protestanti e moderniste dove si scimmiotta il Buon Dio e il Santissimo Sacramento dell'Altare!

Cardinale Siri: Al Concilio un Gruppo di “Contro-Impostazione”


“Un gruppo molto potente, che voleva avvicinare la Chiesa ai protestanti, si riunì, in un modo non del tutto legittimo, in una certa parte d’Europa.

La loro linea era contro l’impostazione voluta da Giovanni XXIII e contro il Magistero tradizionale della Chiesa Cattolica. L’elezione dei membri di due terzi delle Commissioni del Concilio fu “guidata” da tale gruppo. Tutto fu “orchestrato” da loro, scegliendo in tutto il mondo quelli che più si conformavano ad un indirizzo modernista e progressista, escludendone gli altri. La lista “cattolica” alternativa che il Card. Siri presentò, fu da loro fatta bocciare.

C’è stata, dunque, una chiara volontà, da parte di questo gruppo, di manipolare e stravolgere il Concilio”. Questa intervista esplosiva, rilasciata dal Card. Siri il 17 gennaio 1985, a causa delle polemiche strumentali dei media progressisti su un giudizio del Card. Ratzinger sugli anni del post-concilio, fu deciso di rimandarne la pubblicazione che avvenne dopo la morte del Cardinale, grande campione dell’ortodossia. Si tratta di una testimonianza preziosa perché viene da una persona che è sempre vissuta in piena comunione con la Chiesa. “Esiste un diritto dell’intero popolo di Dio perché gli venga esplicitato con chiarezza ed oggettività che cosa sia stato il Vaticano II. Ne va della fede e dell’autentica testimonianza cristiana. Che non tutto, a tale riguardo, sia limpido e trasparente come uno zampillo d’altissima quota, s’avverte anche, o tra le righe o addirittura con esplicite denunce, in qualche autorevole intervento” (Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II, Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, 2009, p. 17).

L’idea di convocare un Concilio era già affiorata durante il pontificato di Pio XII. Perché venne accantonata?
SIRI: Sì, era già affiorata. Ma, nonostante io fossi molto vicino a Pio XII, non me ne ha mai parlato. /…/ Il Concilio venne convocato da Giovanni XXIII. Chi glielo suggerì, o per lo meno richiamò alla memoria, fu il cardinal Ruffini (Arcivescovo di Palermo), il 16 dicembre del 1958, a distanza di quasi due mesi dalla sua elezione. Il Papa se ne entusiasmò e ne colse l’idea. /…/ Non so però cosa successe il 25 gennaio del 1959. Ma l’idea del Concilio già girava. Pio XII, credo, aveva anche costituito una piccola commissione che silenziosamente studiasse la proposta. Era una cosa che stava lievitando.

Una volta disse che fu nelle prime riunioni della Commissione per gli Affari straordinari (o “per le grane” come lei la definì) e in quelle del Consiglio di presidenza che il Concilio prese un determinato iter piuttosto che un altro. Cosa intendeva precisamente?
SIRI: Quando è iniziato il Concilio ero membro della commissione cardinalizia per gli Affari straordinari, definita da Papa Giovanni “la testa del Concilio”. Durò solo per la prima sessione e fu soppressa da Paolo VI che diede via all’attività di venti cardinali: i dodici componenti il Consiglio di presidenza del Concilio (di cui feci parte anch’io), i quattro moderatori del Concilio stesso e i quattro coordinatori. Questi venti cardinali rappresentavano il nerbo del Concilio, perché le grandi questioni, i grandi dibattiti, le grandi risoluzioni furono prese in questa commissione che si riuniva quasi tutte le settimane. Chi non conosce i verbali di questo Consiglio credo che non possa scrivere la vera storia del Concilio.


In occasione di alcune conferenze che tenne a Cannes nel ‘69 lei lanciò una pesantissima accusa: denunciò l’esistenza di una “contro impostazione” del Concilio...
SIRI: Come ha avuto i testi delle due conferenze?

Sono stati pubblicati recentemente nel primo volume delle sue opere.
SIRI: Quelle conferenze non avrebbero dovuto essere divulgate. Erano però tra i miei dattiloscritti. /…/ Non posso far altro comunque che confermare quanto dissi.

Un gruppo molto potente - lei disse – si era organizzato in
SIRI: Sì. Si riunì, in un modo non del tutto legittimo, in una certa parte d’Europa. La prova evidente la ebbi quando si dovettero eleggere i due terzi dei membri delle commissioni.

Vuol forse dire che l’elezione dei membri nelle commissioni fu “guidata” da tale gruppo?
SIRI: Sì, ne sono certo. È stata orchestrata da loro, scegliendo in tutto il mondo quelli che più si conformavano ad un certo indirizzo e escludendone gli altri. Io presentai allora una lista alternativa definita “cattolica” perché i membri dovevano essere eletti in numero proporzionale al numero dei cattolici esistenti nei rispettivi paesi. Ma loro la fecero bocciare.

Sono accuse di non poco conto. Ne parlò con Giovanni XXIII?
SIRI: Sì, anche lui si rese conto del pericolo costituito da tale gruppo; in una lunga udienza mi disse chiaramente che non era «affatto contento del Concilio».

Quali erano secondo lei i fini specifici di questo gruppo?
SIRI: Forse avvicinare la Chiesa ai protestanti e rendere in tal modo più facile il loro ritorno. Ma può darsi che li stia giustificando troppo.



Lo definisce un gruppo di “controimpostazione conciliare”. L’aggettivo “contro” che valenza ha? Era “contro” l’impostazione voluta da Giovanni XXIII, “contro” il Magistero tradizionale della Chiesa cattolica o, più semplicemente, “contro” una visione tradizionalista della Chiesa che in Concilio ebbe i suoi leaders oltre che in lei nei cardinali Ruffini e Ottaviani?
SIRI: Contro l’impostazione voluta da Giovanni XXIII. Certo. Contro il Magistero tradizionale della Chiesa. Sicuro. Si formò tra noi un gruppo? Loro erano una corrente, la quale provocò necessariamente una controcorrente.



Il teologo Schillebeeckx ha affermato in un’intervista al settimanale spagnolo Vida Nueva che l’orientamento di cui lei fece parte era minoritario, ma riuscì ad influenzare il Concilio perché molto agguerrito, e soprattutto perché assecondato da Paolo VI.
SIRI: Una minoranza la nostra? Ma il Concilio erano i 2500 Padri che vi hanno partecipato e che votavano. E votavano bene. Di questi, solo 500 presero la parola almeno una volta. Tutti gli altri, ed erano i quattro quinti, erano lì, attenti, e giudicavano. Ed erano loro la maggioranza. La maggioranza silenziosa, ma che faceva il Concilio. E i documenti del Concilio furono tutti approvati quasi all’unanimità. Non si comprende il Concilio se non si comprende questo. Schillebeeckx faceva parte del Concilio come “esperto” dell’episcopato olandese. Io ero alla tribuna della presidenza e gli esperti erano nella tribuna alla mia destra. Li vedevo bene. Anzi, non li vedevo affatto: non c’erano quasi mai. Erano sempre in giro per Roma a tenere conferenze, dibattiti, assemblee. A parlare di tutto. A tentare di influenzare maldestramente i Padri conciliari.

Alla ripresa dei lavori dopo la morte di Giovanni XXIII, ci fu subito «una delle maggiori e sorde lotte che abbiano caratterizzato il Vaticano II», come lei la definì. Fu il dibattito sul “De Ecclesia” che culminerà nella “Lumen Gentium”, il cui nucleo era la collegialità episcopale.
SIRI: Risuscitando gli errori di Basilea e le opposizioni al Vaticano I, si tentò di sminuire, o forse anche negare, il Primato del Papa. Lo strumento di cui ci si servì per tale scopo fu l’idea della collegialità episcopale. La collegialità è sempre esistita, ma l’intento era di condurla ad un piano di completa parità col Primato di Pietro se non addirittura ad essere un limite per il Primato stesso. Me ne accorsi in una delle sedute della Commissione preparatoria centrale del Concilio, quando un Padre pronunciò l’espressione «cogubernatio Ecclesiae». Lui stesso deve essersi accorto di aver detto troppo, perché subito l’attenuò con un termine meno impegnativo. Era un concetto errato. Come già si sapeva, e come poi ha precisato il Vaticano II, il Collegio Episcopale e il Papa sono due soggetti del potere supremo, ma il Collegio, per essere ed agire come tale, deve essere col Papa e sotto il Papa, mentre il Papa stesso ha un potere personale che non ha alcun bisogno, per essere tale, del Collegio Episcopale. Fu proprio questo il particolare su cui si è serrata la lotta. E la lotta fu dura. È proprio il Primato del Romano Pontefice a garantire tutto: senza di quello sarebbe la distruzione. Se vogliamo stabilire una gradazione tra i problemi e le crisi suscitate nel post-concilio, ritengo che questo abbia il primo posto. Mi ricordo che una volta mi recai da Pio XII e notai sulla sua scrivania, perfettamente sgombra, due testi: uno era sulla collegialità. Mi chiese che cosa ne pensassi: «Santità - risposi - lo getti via. Io l’ho letto e non c’è niente di buono».

Si trattava forse del libro di Padre Congar, “Vera e falsa riforma della Chiesa”?
SIRI: Preferisco non rispondere. In Concilio, comunque, quando vidi la ferocia dell’attacco al Primato di Pietro, preparai un intervento. Allora ero ammalato, soffrivo di labirintite, non riuscivo contemporaneamente a leggere e a parlare. Appena cominciavo sopraggiungeva una crisi e mi accasciavo al suolo. Era un lunedì.
Il termine del dibattito era previsto per mercoledì mattina. Mi rivolsi ai “quattro cavalieri dell’Apocalisse”, i quattro moderatori che sedevano proprio sotto di noi, e mi feci iscrivere a parlare per ultimo: chi parla per ultimo ha “più ragione”. Preparai un testo di 10-15 righe. Mi rivolsi al Card. Ruffini, che sedeva alla mia sinistra, dicendogli: «Mercoledì prenderò la parola, non riuscirò a terminare perché cadrò prima. Non curarti di me, ho già il mio segretario che mi sorreggerà, ma prendi i fogli e finisci tu il discorso».
Il giorno seguente, il martedì mattina, entrò in aula il Segretario generale del Concilio, Pericle Felici: lesse un discorso a nome del Papa. Era l’intervento che avrei voluto fare io. Dissi al Card. Ruffini: «Oggi ho visto l’intervento dello Spirito Santo sul Concilio».

Nella discussione sul “De Episcopis” il suo amico Cardinal Ottaviani contestò non solo la funzione indicativa della votazione del 30 ottobre 1963 sulla collegialità, ma anche la sua legittimità, mettendo in pratica sotto accusa i moderatori stessi.
SIRI: È difficile dare una valutazione sui moderatori. Molto difficile.
Solo Agagianian raccoglieva l’approvazione e l’assenso di tutti. Ottaviani era un vero difensore della fede, ma aveva una caratteristica (non lo chiamo un difetto): si scaldava. E questo irritava gli altri. Un giorno Alfrink, presidente di turno, gli tolse addirittura la parola.

E il Concilio applaudì.
SIRI: No, non si può dire che applaudì. Ci fu qua e là... ma non fu un applauso dell’Assemblea. Il gesto di Alfrink non fu approvato della grande maggioranza, e recò una certa pena. Ottaviani era allora a capo del Sant’Uffizio: non se la presero con la persona ma con l’ufficio. Ottaviani quando si metteva in moto sembrava un ippopotamo. Una persona cara, eravamo tanto amici, un uomo di Dio. È stato parecchi anni cieco, eppure sempre sereno.

L’opposizione alla Curia non era dunque così diffusa.
SIRI: Sono di quelle cose di cui si parla per passare il tempo mentre si prende il caffé. /…/ Io dissi al cardinal Ottaviani: «Se capita un’altra volta che le facciano l’affronto di toglierle la parola, dica: “Sentite, state zitti voi, altrimenti io vado dal Papa a chiedere che mi dia la facoltà di sciogliere i segreti, perché so tutti i vostri affari”. Vedrà che finisce tutto».



A due anni dall’ inizio dei lavori conciliari, ci fu la discussione della “Dichiarazione sulla libertà religiosa”; la Chiesa non rivendicava solo il diritto di praticare la propria religione, ma anche che chiunque potesse osservare il suo culto verso Dio in modo pubblico e privato.
SIRI: Il “De Libertate Religiosasi limitava a questo aspetto: lo stato non può intervenire per piegare a suo piacimento la coscienza religiosa. Fu una cosa generale. /…/


Fu in seguito a quel documento che nacque la contestazione del vescovo Lefebvre...
SIRI: La genesi del documento fu la volontà di fare un’indiretta condanna del comunismo, attraverso la solenne proibizione dei mezzi coercitivi «da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia volontà umana» nei rapporti tra gli uomini e l’attività religiosa. Lo spiegai a Lefebvre, tanto che lo convinsi ad accettare tutto il Concilio, poi dissi al Papa: «Lo riceva e prepariamo un comunicato di tre righe in cui si dia notizia dell’udienza e si dica che
Lefebvre ha regolato le sue pendenze con la Chiesa». Ma poi le cose andarono per le lunghe e sorsero altri problemi. /…/

In questo post-concilio uno degli aspetti più interessanti è il fiorire di nuovi movimenti ecclesiali. Cosa ne pensa?
SIRI: Tutta la piazza è piena di erba, erbacce, fiori ed alberi belli. Più volte ho sollecitato la Cei a mettere un po’ d’ordine ma finora non ha approvato nessun decreto a riguardo. Con la Fuci sono in lite da 54 anni. Ero loro assistente e mi hanno mandato via. E vedo che ancora non hanno abbandonato il loro concetto intellettualistico della fede. Ma i due movimenti più importanti in Italia sono i Focolari e Comunione e Liberazione.
Sono ottimi. A dire il vero quand’ero presidente della Cei venne intentato un processo al movimento dei Focolari. Su 20 votanti, diciotto non erano convinti dell’impostazione dei Focolari, e votarono Deleatur. Solo due erano a favore. Ma dei due che votarono non deleatur uno era il cardinal Pastore. L’altro, Montini" .
(a cura di Stefano Maria Pace e Paolo Biondi - Rivista "30 Giorni", n° 6, Giugno 1989, pp. 70-75).
 

martedì 29 marzo 2011

VERA E FALSA CARITÀ In memoria di Shahbaz Bhatti


di Don Curzio Nitoglia

Prologo

Oggi si parla molto, forse anche troppo, di “carità” (“più se ne parla e meno se ne ha”, dice il proverbio). Ma cos’è la vera Carità? Nel presente articolo cerco di esporre la dottrina cattolica, che si fonda sulla Tradizione e la S. Scrittura, lette alla luce del pensiero di S. Tommaso d’Aquino, il Dottore Ufficiale o Comune della Chiesa. Si vedrà, allora, come la vera Carità è totalmente diversa dal vago sentimentalismo dell’esperienza religiosa, qual’è presentato dal neomodernismo ascetico, il quale è lo snaturamento della vera Carità, così come essa è pure distinta ed anzi eminentemente superiore all’amore naturale, il quale è buono in sé, ma imperfetto, poiché non può oltrepassare da se stesso i limiti della sola natura, ferita per di più dal peccato originale.

● Un esempio di vera Carità soprannaturale ci è stato lasciato in questi giorni dal Ministro per le minoranze Shahbaz Bhatti del Pakistan, ucciso in odio alla Fede cattolica i primi giorni del marzo 2011. Voglio citare una parte del suo “Testamento spirituale”:
«Sin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli Insegnamenti, nel Sacrificio e nella Crocifissione di Gesù. Fu l’Amore di Gesù che mi condusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i Cristiani in Pakistan mi sconvolsero. Quando avevo solo 13 anni ascoltai un sermone sul Sacrificio di Gesù per la nostra Redenzione e la Salvezza del mondo intero e pensai di corrispondere a quel suo Amore donando amore ai nostri fratelli, ponendomi al servizio dei Cristiani. Non voglio popolarità, non voglio potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei un privilegiato qualora Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra Redenzione, mi chiedo come non possa io seguire il cammino del Calvario».
Il Signore ha esaudito Shahbaz Bhatti ed ora egli gode la Visione beatifica della faccia di Dio.
Natura
Nel Cristianesimo la Carità è la più alta delle tre Virtù teologali come è rivelato mirabilmente in San Paolo: «Ora restano la Fede, la Speranza e la Carità: ma di queste tre la maggiore è la Carità» (1 Cor., XIII, 13).
Queste tre Virtù hanno come oggetto diretto e come motivo Dio stesso:
“Amo” Dio poiché Egli è infinitamente Buono e amabile;
“Spero” in Dio poiché Egli è Provvidenza onnipotente e misericordiosa;
“Credo” in Dio poiché Egli è la Verità stessa e non può ingannarsi né ingannarci.
Dall’Amore verso Dio nasce l’Amore soprannaturale verso il prossimo. Bisogna fare molta attenzione, soprattutto oggi, nel distinguere bene la Carità, Virtù infusa e soprannaturale, dall’amore naturale sia di Dio che del prossimo e a maggior ragione dal “sentimentalismo”, il quale è una deformazione del vero amore sia naturale che soprannaturale.
La Carità è la capacità di amare Dio soprannaturalmente più di noi stessi e il prossimo come noi stessi per Amor di Dio e non per filantropia. Essa viene infusa da Dio nella nostra anima nel momento della nostra giustificazione o santificazione, non è mai separata dalla Grazia abituale santificante, la quale ci fa diventare realmente “figli adottivi di Dio” (S. Paolo, Rom., VIII, 15) e “partecipi della Natura di Dio” o “consortes Divinae Naturae” (II Epistola di S. Pietro, I, 14) in maniera finita e limitata.
Perciò La Carità e la Grazia santificante a lei sempre unita ci comunicano realmente, in maniera partecipata e finita, la Natura divina. Occorre fare molta attenzione ad escludere l’eccesso della ‘comunicazione sostanziale ed illimitata’ della Natura Divina all’anima umana (panteismo), come pure il difetto della ‘semplice somiglianza morale o tendenziale’, la quale consisterebbe nel pensare a Dio come nostra Causa finale e, quindi, averlo presente soltanto nel nostro intelletto o pensiero.
Invece Dio Trino è formalmente, realmente e fisicamente presente nella sostanza dell’anima del giusto, che ha ricevuto la Grazia abituale giustificante e la Carità infusa, le quali informano la nostra anima. Infatti l’uomo per poter agire soprannaturalmente e cogliere lo stesso oggetto dell’attività di Dio, che è l’Essenza Divina stessa contemplata e amata (Visione Beatifica), deve prima essere stato realmente elevato ad un livello sostanzialmente soprannaturale o divino ‘per partecipazione’.
Agere sequitur esse”: non si può realmente agire soprannaturalmente, se prima non si è stati “soprannaturalizzati” (o “elevati all’ordine soprannaturale”) fisicamente, in sé e realmente nella propria anima (e non solo moralmente, in quanto si desidera Dio come proprio Fine ed Egli è, così, presente nei nostri pensieri), ma sempre per partecipazione e finitamente, non per essenza, altrimenti si cade nel panteismo (vedi San Tommaso d’Aquino, Commento al II Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, distinzione 26).
Senza la Carità, che è inseparabile dalla Grazia santificante, si è in stato di peccato mortale. Onde l’uomo, invece di amare Dio sopra ogni cosa, ama se stesso o le creature, che soddisfano i suoi capricci, come fossero il suo fine ultimo.
La Carità dura in eterno, anche in Paradiso, mentre la Fede lascia il passo alla ‘Visione beatifica’ di Dio visto faccia a faccia dal Beato grazie al ‘Lumen gloriae’ e la Speranza cede il posto al possesso eterno e inamissibile di Dio[1].
Distinzione tra Carità e amore naturale
San Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica (1a sezione della 2a parte, questione 26, articoli 1-4)[2], spiega che l’amore è la tendenza dell’appetito umano verso il bene che lo attira. L’amore di benevolenza, disinteressato o “de bono alieno” (che riguarda il bene dell’altro) ci fa tendere verso il bene del prossimo, ossia desiderare il bene dell’altro (“amare est velle alicui bonum”, amare significa volere bene all’altro e il bene dell’altro), non è egoistico o amore di concupiscenza, interessato (“de bono proprio”, che guarda il bene proprio e basta e, quando è ricambiato dall’altra parte, è amore di amicizia, che comporta comunione di pensiero, volontà e azione (“idem velle idem nolle haec est vera amicitia”, volere la stessa cosa e non volere la stessa cosa, questa è vera amicizia).
Ora la Carità infusa è l’Amore di amicizia soprannaturale tra Dio e l’uomo giusto e poi dei giusti (o “figli di Dio”, S. Paolo, Rom., VIII, 15) tra loro per Amor di Dio.
Non è egoismo, e neppure è altruismo o amicizia puramente naturale, che ci rende compagni di altri uomini, soprattutto non è sentimentalismo, che abbassa l’uomo razionale e libero al livello dell’animale bruto, provvisto di sola sensibilità senza intelletto e volontà, ma è Amore soprannaturale, che supera le forze della natura creata e ci rende amici di Dio, infinitamente Buono e degno di essere amato più della nostra stessa vita, e poi anche del nostro prossimo non per se stesso, ma perché è una creatura di Dio, amata in relazione a Dio, non più di noi stessi, ma in maniera simile all’amore che portiamo a noi stessi.
Nella Somma Teologica (2a sezione della 2a parte, questione 23, articolo 1) San Tommaso dimostra che la Carità racchiude le tre condizione della vera amicizia:
1°) amore di benevolenza: si vuole bene all’altro e si vuole il suo bene come se fosse il nostro;
2°) amore reciproco: Dio ama l’uomo giusto e il giusto ama Dio;
3°) comunanza di vita: è una vita a due tra Dio e l’uomo giusto, che presuppone - spiritualmente - la conoscenza reciproca, tramite la Fede da parte dell’uomo, e lo scambio dei pensieri e dei sentimenti interiori tra l’uomo conosciuto e amato da Dio e di Dio creduto e riamato dall’uomo.
Questi sono i tre connotati della Carità soprannaturale, che ci unisce a Dio e con le altre anime in Dio[3].
Necessità della Grazia per giungere alla Carità
L’inclinazione naturale, che sussiste in fondo alla nostra anima spirituale e specificatamente nella volontà, ci porterebbe ad amare Dio autore della natura, conosciuto dalla ragione come Causa prima delle creature (e non dalla Fede, che ci fa conoscere i Misteri soprannaturali della Natura divina in quanto divina) più di noi stessi (Somma Teologica 1a Parte, questione 60, articolo 5).
Infatti – spiega San Tommaso – l’inclinazione naturale è maggiore per ciò che è principale e minore per ciò che è subordinato. Così istintivamente la mano si tende e si espone a parare un colpo per proteggere il capo o il corpo.
Ma Dio è il Bene universale. Quindi l’amore naturale tende ad amare Dio più di noi stessi. Però questa tendenza è inefficace. Infatti, dopo il peccato originale, tale inclinazione è attenuata o indebolita e non ci dà la capacità reale di amare Dio, per cui abbiamo bisogno della Grazia soprannaturale giustificante e “risanante” per giungere ad un amore efficace, effettivo e reale di Dio al disopra di ogni cosa (Somma Teologica, 1a sezione della 2a parte, questione 109, articolo 3).
La Grazia abituale santificante, infusaci nel Battesimo, è infinitamente al di sopra dell’inclinazione naturale che alberga nella nostra volontà, per di più ferita dal peccato di Adamo. Assieme alla Grazia giustificante abbiamo ricevuto anche le tre Virtù teologali. Ora la Carità è esattamente questo Amore di benevolenza vicendevole, per il quale uno vuole bene all’altro e il bene dell’altro, non mirando egoisticamente solo e soprattutto a se stesso.
Nel caso specifico il giusto vuole a Dio, Autore della Grazia o conosciuto per la Fede nella sua Natura divina e nei suoi Misteri soprannaturali, il bene che gli spetta: il suo Regno nelle anime di tutto il mondo e, in quanto Dio, Egli vuole il nostro bene soprattutto soprannaturale in questa vita e nell’al di là. Questa è la vera amicizia soprannaturale, fondata sulla comunanza di vita, dato che la Grazia, unita sempre alla Carità della quale è radice, ci rende “partecipi della Natura divina” (II Petr., I, 14) e somiglianti a Dio come il figlio al padre, onde non solo siamo chiamati Figli di Dio, ma lo siamo realmente (1a epist. Gv., III, 1).
Questa vita a due comporta un’unione permanente, che si perde solo col peccato mortale e si riacquista con la contrizione perfetta e/o l’assoluzione sacramentale. Questa unione permanente, come quella dello sposo con la sposa, è sia attuale quando facciamo un atto di Amore di Dio, sia abituale, quando siamo occupati in altre faccende o dormiamo. Quindi la Carità è realmente una vita a due (“cum-vivere”, vivere con un altro: Dio) ossia una vera amicizia con Dio, che inizia già su questa terra, nella quale vi è l’incontro dell’Amore del Padre per il figlio adottivo, mediante la Grazia abituale, che è germe di Gloria eterna, al quale deve corrispondere l’Amore del figlio adottato verso il Padre eterno, che è la Carità la quale vivifica la Fede e la Speranza, le quali senza di Essa sono morte.
Questa amicizia o convivenza spirituale “in via” è preludio di quella dell’Eternità o “in Patria”[4].
Carità e sentimento
L’Amore verso Dio risiede nella volontà umana aiutata dalla Grazia . Esso non è da confondersi col sentimento, ossia l’Amore verso Dio non deve essere “sentito”, ma voluto razionalmente anche in mezzo alle più grandi “aridità” della sensibilità (“notte dei sensi”) e “desolazioni” dello spirito (“notte dello spirito”).
Dio non si vede, non si tocca non si sente, Egli è purissimo Spirito, non è “sensibile” e quindi non può cadere sotto i sensi dell’uomo. Perciò, tranne negli stati della vita mistica in cui predomina in maniera abituale il 7° Dono dello Spirito Santo, la Sapienza, che ci dà l’esperienza mistica, amorosa e gustosa di Dio Purissimo Spirito presente soprannaturalmente nella nostra anima per la Grazia santificante, non vi è il “sentire Dio”, perché Egli non cade sotto i sensi, ma la sua esistenza può essere dimostrata dalla ragione a partire dagli effetti risalendo alla Causa prima incausata.
Inoltre Dio può essere creduto, mediante la Fede infusa, nei suoi Misteri o Vita intima sub ratione Deitatis, che sorpassa infinitamente la capacità della nostra ragione. Infine può essere “soprannaturalmente sperimentato” nella terza via, quella dei “perfetti” (la vita mistica o unitiva), tramite l’attuazione più o meno abituale del Dono di Sapienza, che è essenzialmente soprannaturale e non ha nulla a che vedere col sentimento o peggio col sentimentalismo, anzi è l’esatto opposto del sentimentalismo o dell’esperienza religiosa, propria del modernismo, la quale è “affettazione” di un Amore soprannaturale, di una moralità, di una santità o pietà, che in realtà non si possiede, vale a dire un mostrar esteriormente e farisaicamente, da vero “sepolcro imbiancato”, una Carità soprannaturale quando interiormente essa è (quasi) assente, oppure è la sua deformazione, poiché non si può “sentire” Dio naturalmente, ma solo soprannaturalmente e nello stadio più alto della vita mistica, mediante il Dono di Sapienza.
Perciò il Cristianesimo è inizialmente la vita della grazia, nello sforzo ascetico di eliminare il peccato mortale aiutandosi con la meditazione discorsiva (‘prima via ascetica purgativa’ di coloro che cominciano o “principianti”) e poi è l’imitazione delle Virtù di Gesù Cristo, aiutandosi con l’orazione mentale affettiva e cercando di eliminare anche il peccato veniale di proposito deliberato (‘seconda via ascetica illuminativa’ di coloro che progrediscono o “proficienti”) e solo infine, se si è fedeli allo sforzo ascetico costante e abituale, Dio ci immette nella ‘terza via mistica unitiva’ dei “perfetti”, i quali grazie all’attuazione abituale dei Doni dello Spirito Santo sono uniti - soprannaturalmente e non sensibilmente - in maniera assai elevata a Dio, preludio della vita eternamente beata, e ricevono la grazia dell’orazione infusa o passiva.
Solo allora avviene “l’incontro con Dio o Gesù sentito dentro di sé”, il quale non è l’inizio della vita cristiana (come vorrebbero don Luigi Giussani e “Comunione e Liberazione”), ma ne è il termine e il coronamento.
Inoltre la terza via mistica si suddivide in due parti:
a) quella caratterizzata dai primi quattro Doni pratici dello Spirito Santo (Timor di Dio, Pietà, Consiglio e Fortezza);
b) quella caratterizzata dal predominio abituale degli ultimi tre Doni speculativi (Intelletto, Scienza e Sapienza).
La ‘seconda parte’ della “terza via” (e specialmente il suo vertice che si raggiunge nel più nobile dei sette Doni dello Spirito Paraclito, quello di Sapienza, che ci dà l’esperienza soprannaturale della Presenza di Dio nel fondo dell’essenza dell’anima) non è essenziale per giungere alla Santità o Perfezione della Carità.
Dio la può concedere o meno, a seconda dei suoi piani su una determinata anima (per esempio l’ha concessa a S. Ignazio da Loyola, S. Teresa d’Avila, S. Giovanni della Croce).
Invece la ‘prima parte’ della “terza via” è necessaria per giungere alla Perfezione. Infatti senza di essa non si entra nella mistica o ‘terza via’ dei “perfetti”, che è lo sviluppo normale o ordinario della vita della Grazia. Inoltre durante essa si affrontano le “notti dello spirito” o “desolazioni spirituali” e l’anima non solo non gode dell’esperienza mistica della Presenza di Dio nella sua essenza o non “incontra e sente Cristo dentro di sé” come direbbe don Giussani, ma addirittura le sembra di essere stata abbandonata da Dio e si sente riprovata da Lui (per esempio S. Teresina del Bambin Gesù nel “tunnel”, di cui ha scritto nella sua autobiografia intitolata Vita di un’Anima), la quale non solo non sentiva Dio, ma se ne sentiva separata, come se si trovasse “in un lungo ed oscuro tunnel”, senza poter nemmeno scorgerne l’uscita e un raggio di luce. Però era Santa in maniera eroica ed ha realmente incontrato Dio purissimo Spirito, anche se non lo sentiva e non ne ha fatto l’esperienza[5].
Eppure, secondo la “spiritualità” melensa e sentimentalistica dell’esperienza religiosa neomodernistica, essa non sarebbe stata una vera cristiana, poiché non “sentiva” Dio o Cristo dentro di sé. (Vedi Somma Teologica, 2a sezione della 2a parte, questione 24, articolo 9).
Porre l’incontro “sentito” con Gesù all’inizio della vita spirituale è una vera follia, sarebbe come costruire una casa mettendo il tetto a suo fondamento!
Quindi la vera Carità è l’amicizia soprannaturale con Dio, come pure con tutti i “figli di Dio”, giusti e anche peccatori, non in quanto peccatori, ma come uomini suscettibili di conversione. Infatti, se amassimo il peccatore in quanto tale ameremmo il peccato, il che è il contrario della Carità, che ama il bene o la Legge divina e detesta il male o la sua violazione, che è il peccato.
Inoltre la distinzione tra peccato da aborrire e peccatore da amare è illogica, poiché senza peccatore non vi è peccato, che è l’atto del peccatore in quanto tale. Perciò si deve amare l’uomo in quanto suscettibile di conversione anche se vive in stato di peccato, ma lo si deve combattere in quanto peccatore, che offende Dio.
È celebre l’esempio lasciatoci da Santa Rita da Cascia, la quale pregò Iddio di far morire i suoi due figli ancora fanciulli, che avrebbero voluto - divenuti adulti - vendicare il padre ucciso proditoriamente, affinché non si macchiassero di tale gravissimo peccato. Il Signore la esaudì ed essi morirono senza aver peccato, ancora in giovane età.
Quindi si può chiedere il castigo fisico del malvagio affinché non offenda più Dio e si converta, ma non si può mai desiderare la sua rovina spirituale o la separazione da Dio.
Tuttavia ciò non ci impedisce di difenderci dai nemici, pur desiderando che si convertano e vivano in Grazia di Dio e poi nella sua Gloria eterna.
Infatti la filosofia e la teologia morale insegnano la liceità e in certi casi la doverosità, naturale e soprannaturale, della legittima difesa contro l’ingiusto aggressore: “vim vi repellere licet”, è lecito respingere la forza con la forza.
Se un delinquente assalisse una vecchina o un bambino indifeso e noi non reagissimo, anche con l’uso della forza qualora necessario, peccheremmo contro la Carità verso l’innocente aggredito ingiustamente. Anche per quanto riguarda noi stessi possiamo legittimamente difenderci dall’aggressione.
Soltanto in alcuni casi eccezionali si può tollerare (senza essere obbligati) un’aggressione per Amor di Dio, spinti dalla Sua Grazia, affinché l’aggressore si converta, come fece S. Stefano Protomartire. Ma questo è un Consiglio o addirittura un’ispirazione dello Spirito Santo e non un Precetto.
È noto pure il caso del marito di S. Rita da Cascia, di cui abbiamo parlato, che da giovane era stato molto violento e rissoso. Quando si convertì depose la spada, la quale aveva versato tanto sangue innocente. Fu allora che i suoi nemici ne approfittarono per assalirlo, ma lui, spinto dal Paraclito, preferì (pur non essendo obbligato da un Comandamento) farsi uccidere piuttosto che spargere altro sangue e perdonò eroicamente i suoi assassini. Queste sono le eccezioni che confermano la regola della legittima difesa.
Per capire ancor meglio lo spirito che deve animare la nostra attitudine verso i nemici è bene leggere l’Orazione del ‘Messale Romano’ pro inimicis: «Signore, concedi a tutti i nostri nemici pace, Carità vera e il perdono dei loro peccati. E con al tua potenza liberaci dalle loro insidie».
Come si vede si augura la conversione dei nemici (“tribue eis remissionem cunctorum peccatorum”), ma nello stesso tempo si chiede di essere preservati dalle loro malvagità (“et nos ab eorum insidiis potenter eripe”).
Il Cristianesimo non è “cretinesimo”! Non vi è nulla in esso di contrario alla retta ragione e alla retta natura, ma vi è qualcosa di Rivelato o Comandato, che oltrepassa la ragione e le forze naturali, e che può essere creduto e praticato solo mediante l’aiuto della Grazia santificante soprannaturalmente infusa da Dio nelle nostre anime.
In breve, siccome i peccatori non hanno in sé la Carità e la Grazia santificante o giustificante, bisogna volerla per loro, amarli di Amore soprannaturale e desiderare il loro bene soprannaturale (“amare è volere il bene dell’altro”), ossia che si convertano, lascino il peccato e ritrovino l’amicizia con Dio, la Grazia abituale o santificante e la Carità. Senza, tuttavia, ledere la Carità che dobbiamo a noi stessi, creati a immagine e somiglianza di Dio, e chiedere di essere scampati da ogni pericolo che viene dai nemici. “Prima Caritas sibi”, l’ordine con cui si deve applicare la Carità verso sé e il prossimo è il seguente: prima bisogna amare la propria anima, poi l’anima del prossimo, dopo il nostro corpo o i nostri beni materiali ed infine il corpo o i beni temporali del prossimo.
Gesù ci ha rivelato: «Chi osserva i miei Comandamenti, questi mi ama. E chi ama Me, sarà amato da Mio Padre ed anche Io lo amerò» (Giov., XIV, 21).
Non occorre grande scienza per quest’Amore soprannaturale verso Dio, basta la Fede e la conoscenza delle principali verità della dottrina cristiana, proporzionata al grado d’istruzione di ciascuno[6].
L’oggetto della Carità
L’Amore di Dio è l’oggetto primo e principale della Carità, quello del prossimo è l’oggetto secondario. Ma occorre tenere bene a mente che l’Amore di Dio e del prossimo derivano entrambi dalla medesima Virtù di Carità infusa, la quale è una sola, ma ha due oggetti, di cui il secondario è il prossimo amato perché creatura di Dio, conosciuta e amata da Dio almeno in potenza se non vive ancora in stato di Grazia santificante.
Dunque è per Carità che dobbiamo desiderare che il prossimo, anche chi ci ha offeso, appartenga a Dio in atto per la Grazia abituale giustificante presente nella sua anima. Infatti, se desiderassimo che il prossimo viva in peccato e separato da Dio, non ameremmo neppure Dio, che vuole amare tutti ed essere riamato soprannaturalmente da tutti e quindi non vorremmo ciò che Lui vuole e non saremmo suoi amici, poiché la nostra volontà si separerebbe dalla Sua.
Attenzione! San Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica (2a sezione della 2a Parte, questione 25, articoli 1, 4, 5, 8) insegna che non è Carità soprannaturale amare il prossimo per le sue qualità naturali (simpatia, intelligenza, allegria…). Infatti per mezzo della Carità fraterna amiamo il prossimo con Amore soprannaturale e teologale, il quale ha Dio come oggetto, poiché lo amiamo come figlio di Dio e non solo come uomo simpatico, intelligente, brillante... Ecco che, se amiamo veramente Dio, la nostra Carità si estende anche verso il prossimo non naturalmente simpatico, perché creato e amato da Dio[7].
Perfezione: Comandamenti o Consigli?
San Tommaso (Somma Teologica, 2a sezione della 2a Parte, questione 184, articolo 3) e Pio XI (encicliche Studiorum ducem, 1923 e Rerum omnium, 1923) insegnano che tutti sono obbligati a tendere alla perfezione della Carità, il che non vuol dire essere “perfetti in atto”, ossia completi, mancanti di nulla (“perfectum est per omnia factum, et id cui nihil deest”). Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che l’Amore di Dio e del prossimo propter Deum, sia fino ad un certo punto l’oggetto di un Precetto e che, sorpassato quel determinato punto, diventi oggetto di un semplice Consiglio.
No! Il Massimo Comandamento parla chiaro: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso”. Non vi è limite all’Amor di Dio. Infatti la Carità è lo scopo e il fine di tutti i Comandamenti che sono racchiusi nel massimo Precetto (Amore di Dio: dal 1° al 3° e del prossimo: dal 4° al 10°). “Unumquodque fit perfectum inquantum attingit Finem suum”, si diventa perfetti quando si arriva a cogliere e raggiungere il proprio Fine, che è Dio, ed è solo la Carità che ci unisce a Lui: “la Fede senza la Carità è morta” (S. Giacomo).
Quindi la perfezione della vita umana, la quale è spirituale oltre che razionale, consiste nella Carità più che nella scienza (Somma Teologica, 2a sezione della 2a Parte, questione 184, articolo 1). Ora lo scopo non può essere voluto parzialmente, limitatamente o a metà e sino ad un certo punto. Questa è la differenza tra fine (“id cujus gratia aliquid fit”) e mezzi (“ea quae sunt ad finem”), che sono voluti e utilizzati ‘tanto quanto’ mi aiutano a cogliere il fine ‘né più né meno’.
Per esempio il medico non vuole la guarigione del malato solo a metà, ma misura e dosa soltanto la medicina per ottenere la piena guarigione; non misura e non dosa mai la salute, che è voluta tutta e senza mezze misure dal medico. La perfezione o fine dell’uomo consiste essenzialmente nei Precetti, che, se osservati, ci uniscono a Dio, nostro Fine ultimo. Tutti debbono tendere e volere il fine, Dio o la loro perfezione. L’uomo è come un viandante “viator” che cammina verso Dio “gressibus amoris”, con “i passi dell’amore e crescendo nell’amore” (San Gregorio Magno).
I tre Consigli evangelici (castità, povertà e obbedienza) sono soltanto mezzi per giungere più facilmente e più speditamente al fine, che è la perfezione o unione con Dio tramite la Carità, la quale racchiude i 10 Comandamenti. Quindi i Consigli sono ordinati e subordinati ai Comandamenti (e al Precetto supremo: l’Amore di Dio e del prossimo) e non sono superiori ad essi. Perciò la perfezione della Carità consiste nell’amare Dio senza misura e al massimo[8] ed è comandata dal supremo Precetto non come qualcosa da realizzarsi immediatamente, ma come scopo al quale tutti debbono tendere gradualmente (“natura non facit saltus”), ognuno secondo il proprio stato.
Da ciò derivano due conseguenze:
1°) chi non vuole avanzare nella vita spirituale indietreggia, poiché tutti abbiamo il dovere di avanzare poco alla volta verso il fine;
2°) Dio dà a tutti le Grazie attuali sufficienti per giungere al fine, poiché non comanda l’impossibile. Egli ci ama “sino alla follia [della Croce]” e noi dobbiamo riamarlo al massimo delle nostre capacità.
La Carità è superiore all’ideale di forza degli eroi pagani e alla saggezza dei filosofi greci, i quali non pensarono a rettificare a fondo la loro volontà mediante l’Amore di Dio e del prossimo: “La Carità edifica, la scienza gonfia” (S. Paolo). Onde una vecchietta debole e ignorante è più nobile e perfetta di Maciste e di Aristotele, poiché ha la buona volontà arricchita dalla Carità che le fa amare Dio e i figli di Dio e così la unisce a Dio suo Fine ultimo e la perfeziona. Infatti senza la Carità la volontà dell’uomo è cattiva in quanto si allontana da Dio, che è il Bene sommo, per cui si trova in stato di peccato mortale; se muore in questo stato, si danna per l’eternità, anche se avesse la scienza degli Angeli o di S. Tommaso d’Aquino. Invece la Carità, che presuppone la Fede e la Speranza e le vivifica, ci unisce a Dio ed è accompagnata dal “corteo della Grazia”, ossia da tutte le Virtù morali infuse e i sette Doni dello Spirito Santo. Le Virtù morali ci perfezionano riguardo ai mezzi che dobbiamo prendere per cogliere il Fine e la Carità ci perfeziona quanto al Fine, unendoci con Dio. Per cui San Tommaso conclude che «principalmente e sostanzialmente la perfezione risiede nella Carità e nei Comandamenti; accidentalmente e secondariamente nei tre Consigli, in quanto sono i mezzi che ci aiutano a meglio osservare i Comandamenti» che ci uniscono al Fine (Somma Teologica, 2a sezione della 2a Parte, questione 184, articolo 3)[9].
Conoscenza e Amore di Dio in questa terra
Sulla terra l’Amore di Dio è più perfetto della sua conoscenza, poiché per l’amore la nostra volontà esce da sé e tende verso l’oggetto amato come è in sé, mentre quaggiù la conoscenza di Dio avviene tramite i nostri concetti limitati e finiti.
Per cui l’Amor di Dio ci fa uscire fuori di noi stessi e ci attrae ed unisce a Lui, mentre la conoscenza attrae Dio verso noi e gli impone il limite dei nostri concetti finiti (Somma Teologica, 1a Parte, questione 82, articolo 3)[10]. San Giovanni della Croce diceva: “sono nulla, conosco ben poco, ma voglio Tutto, ossia Dio”.
L’aumento della Carità
La Carità aumenta in noi intensivamente, come una qualità (per es. la luce o il calore). Essa mette in noi le sue radici sempre più intensamente e profondamente e allo stesso tempo riducendo nella nostra volontà l’egoismo o amor proprio, che esclude l’Amor di Dio, inclinando sempre più fortemente la nostra volontà a tendere verso Dio e a fuggire il peccato, con atti di amore più intensi e generosi, con la preghiera e i Sacramenti. Non è quindi vero che la Carità aumenta nella nostra volontà per addizione, o quantitativamente come voleva Suarez (per es. come un mucchio di sassi). Vedi Somma Teologica 2a sezione della 2a Parte, questione 24.
Attenzione! Non sono i nostri atti meritori ad aumentare la Carità, poiché essi procedono da questa, che è una Virtù infusa da Dio e non acquisita dall’uomo. Tuttavia gli atti meritori predispongono e danno diritto all’aumento della Carità, che è concesso da Dio. La preghiera può ottenere questo aumento di Carità e i Sacramenti lo producono ex opere operato (ossia per se stessi), applicandoci - se debitamente ricevuti - i frutti della Passione di Gesù, il quale aumento, però, è ricevuto secondo l’intensità delle nostre disposizioni. Infine, nella terza via unitiva dei “perfetti” o vita mistica, le Purificazioni passive (notte dei sensi e dello spirito) purificano le Virtù infuse da ogni incrostazione umana e mettono in primo piano, fortemente e soprattutto, l’oggetto proprio e il motivo formale delle Virtù teologali al di sopra di ogni motivo secondario.
Così esse tolgono alla Carità ogni residuo di amor proprio, di rancore o di risentimento dal nostro cuore che impedisce la pienezza dell’Amor di Dio e del prossimo, anche di chi ci ha offeso, e, per le altre due Virtù teologali, le Purificazioni passive mettono in risalto soprattutto il loro oggetto e motivo primario: Dio stesso, creduto e sperato, poiché Verità che non può ingannarsi né ingannarci (Fede) e misericordiosamente Onnipotente (Speranza), al di sopra di ogni motivo secondario: le consolazioni spirituali o la tranquillità dell’anima.
Solo allora l’anima, alla quale sembra di essere stata abbandonata da Dio come Gesù sulla Croce (il quale non sarebbe stato, perciò, un buon “ciellino”), Lo ama unicamente perché infinitamente Buono e amabile, Lo crede perché Verità stessa sussistente e spera in Lui, poiché Onnipotente e Misericordioso.
Al termine di queste “notti” l’anima e le Virtù infuse, specialmente la più alta che è la Carità, vengono purificate da ogni attaccamento umano.
L’Amore di Dio allora è puro, disinteressato, forte, pieno e aumentato sino alla perfezione. Solo esso spiega la fortezza dei Martiri e le opere più grandi dei Santi[11].
Conclusione
● La vera Carità, quindi, consiste nell’Amare soprannaturalmente, con la volontà razionale aiutata dalla Grazia santificante e attuale, Dio più di noi stessi, in quanto solo Lui è Bene Infinito e nostro Fine ultimo, mentre noi siamo limitati e creature che tendono al Fine e perciò non possiamo amarci come se fossimo “infinitamente Buoni” o come Fine. Il prossimo va amato in Dio, ossia affinché anche il lui inabiti la SS. Trinità per mezzo della Grazia e della Carità. Onde non si può mai augurare al prossimo la rovina eterna.
● La vera Carità più che affettiva deve essere effettiva (“fatti e non parole”) e deve comportare “uno scambio di doni, nel quale l’amante dà all’amato ciò che ha e viceversa” (S. Ignazio da Loyola, Esercizi spirituali). “Non chi dice Signore Signore, entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la Volontà del Padre Mio”, ci ha rivelato il Vangelo. I fatti ce li ha mostrati un mese fa Shahbaz Bhatti, dando la propria vita per Dio e il prossimo, che è l’atto più grande di amore. Perciò chi osserva e mette in pratica i 10 Comandamenti fa la Volontà di Dio ed è unito a Lui con la Grazia santificante. La Carità, quindi, consiste nell’osservare i Comandamenti, che sono riassunti nel “massimo Precetto”: amare Dio con tutti noi stessi e più di noi (1° Comandamento: “Io sono il Signore Dio tuo”; 2°: “Non nominare il Nome di Dio invano”; 3°: “Ricordati di santificare le Feste di Dio”. Chi osserva questi tre Comandamenti ama Dio in sé) e il nostro prossimo in Dio (4° Comandamento: “Onora il padre e la madre”; 5°: “Non uccidere”; 6°: “Non fornicare”; 7°: “Non rubare”; 8°: “Non dire falsa testimonianza”; 9°: “Non desiderare la donna d’altri”; 10°: “Non desiderare la roba d’altri”. Chi osserva questi sette comandamenti ama il prossimo come se stesso, chi li vìola non ama realmente il prossimo ma solo a parole, perché in pratica lo disonora, maltratta, deruba e denigra).
● Infine la vera Carità comporta la pienezza della vita razionale, volitivo-affettiva, morale e spirituale poiché essa comporta tre elementi essenziali:
1°) amare Qualcuno per sé e non egoisticamente per noi;
2°) amore reciproco: anche l’Altro, che è Dio, ci conosce e ci ama;
3°) convivenza: vivere assieme a quest’Altro in uno scambio vicendevole di doni e di amore.
Come si vede solo la vera Carità può riempirci la vita, la quale con Essa raggiunge il suo vertice intellettuale, volitivo-affettivo e spirituale.
L’uomo è un animale socievole per natura, non è un’isola e deve uscire fuori di sé per conoscere la realtà oggettiva ed amarla.
Ora la Somma realtà è l’Essere stesso Sussistente che è Dio. Quindi solo amando Dio più di noi e il prossimo in Dio, veniamo riamati certamente da Dio e possibilmente anche dal prossimo ed infine viviamo in comunanza di conoscenza e di amore con Dio ed il prossimo, analogicamente alla conoscenza amorosa che intercorre ad intra tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Senza la Carità la vita umana è tronca, nana, deforme, mostruosa come un nano.
Essa è triste poiché l’uomo naturalmente tende a conoscere ed amare e naturalmente cerca di essere conosciuto e riamato. Essa è solitudine spettrale poiché non si vive in comunanza con nessuno.
L’egoismo (come l’erotismo freudiano, che dal 1968 è diventato un fenomeno di massa ed ha rimpiazzato il vero amore naturale e, in certi casi limite, persino soprannaturale) è una parodia della Carità, è “amare” se stessi e servirsi del prossimo sfruttandolo e non amandolo.
Il vero amore umano è buono ma incompleto e deve essere perfezionato da quello soprannaturale: lo sposo che ama la sposa e i figli, deve perfezionare quest’amore naturale con quello soprannaturale della Carità, altrimenti si ferma alle creature e lascia da parte il Creatore.
Il religioso che fa voto di castità deve riempire la sua vita di Amore verso Dio e il prossimo, Amore altruistico, reciproco e in comunanza, altrimenti cadrà inevitabilmente nella mancanza del rispetto della Volontà divina, espressa nei Comandamenti e nei suoi Voti o impegni religiosi.
L’anima di ogni apostolato, come insegna dom Giovanni Battista Chautard, è l’orazione mentale, ossia la conoscenza amorosa di Dio e la contemplazione o sguardo ripieno d’Amore soprannaturale dei Misteri divinamente rivelati.
Senza questa vita interiore fatta di conoscenza e amore reciproci tra l’anima e Dio, la vita religiosa diviene insostenibile. La sua mancanza è la causa principale di tante defezioni.
L’uomo è fatto per conoscere ed amare, se non conosce e ama Dio, finirà per rimpiazzarlo con le creature, ma questa è la definizione tomistica del peccato: “aversio a Deo et conversio ad creaturas”.
Già Aristotele (Politica), perfezionato poi da S. Tommaso, aveva insegnato che solo il pazzo, in quanto alienato e autisticamente ripiegato su di se stesso, o, l’eremita-mistico[12],. in quanto convivente con Dio e soprannaturalmente aperto al prossimo, anche se fisicamente distante da esso, vivono da “soli”, l’uno patologicamente-psichicamente male e l’altro eroicamente-spiritualmente bene, poiché vive spiritualmente unito a Dio e al prossimo in Dio.
Al di fuori di questi due casi l’uomo normale (né ammalato e neppure santo) deve vivere in società, reale e fisica e non solo morale e spirituale, anche con gli altri uomini. Questa è la vera morale, senza la quale non ci si salva eternamente, essa non ha nulla a che vedere con il falso “moralismo” ipocrita e ostentato.
“Senza le opere buone, la Fede è morta” (San Giacomo). “Ora su questa terra vi sono Fede, Speranza e Carità, la maggiore di esse è la Carità” (San Paolo).
Che Iddio ci conceda di poter vivere la nostra vita conformemente alla sua natura razionale e libera, fatta di conoscenza e di amore, e di poterla elevare, con la sua Grazia che non viene negata a nessuno, all’ordine soprannaturale, che è inizio di vita eterna: “Gratia est semen Gloriae et incohatio vitae eternae”.
● “Deus, da cordibus nostris inviolabilem tuae caritatis affectum, ut desideria, de tua inspiratione concepta, nulla possint tentatione mutari” (Messale Romano, Oratio ad obtinendam Caritatem). Sforziamoci di diventare in atto ciò che siamo in potenza!
d. Curzio Nitoglia
23 marzo 2011

 

NOTE

[1] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, L’amour de Dieu et la croix de Jésu, Parigi, 1929, I vol., pp. 163-206, Id., La prédestinations des Saints et la grâce, Parigi, 1935; Id., L’éternelle vie et la profondeur de l’âme, Parigi, 1950; D. Noble, La charité fraternelle d’après S. Thomas, 1932; M. I. Scheeben, Le meraviglie della grazia divina, Torino, 1933; P. Parente, voce “Consorzio divino”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, III vol., 1949; Id., Il primato dell’amore e S. Tommaso d’Aquino, in “Acta Pont. Acad. Rom. S. Thomae”, 1945, X, pp. 197 ss.; M. Cordovani, Il Santificatore, Roma, Studium, 1939.
[2] La Somma Teologica si compone di tre Parti, la Seconda si suddivide in due sezioni: la “prima sezione della seconda Parte” e la “seconda sezione della seconda Parte”. Essa si cita brevemente riassunta così: ‘S.’ [umma]. ‘Th. [eologiae], ‘I(Parte), ‘q’. [uestione] 1, ‘a. [rticolo] 1. La seconda si cita ‘I-II’ (prima sezione della seconda Parte) o ‘II-II’ (seconda sezione della seconda Parte). Nel corso del presente articolo la cito per esteso, per rendere più facilmente comprensibile l’esposizione della dottrina di San Tommaso.
[3] Cfr. S. Agostino, De doctrina christiana, I, cap. 22; III, cap. 10; S. Bernardo, Liber de diligendo Deo, cap. I ss.; L. Billot, De virtutibus infusis, Roma, Gregoriana, 1906, pp. 375 ss.
[4] Cfr. S. Giovanni Della Croce, Notte oscura e Fiamma viva; S. Teresa D’Avila, Castello dell’anima; S. Francesco Di Sales, Teotimo o Trattato dell’Amor di Dio; N. Del Prado, De gratia et libero arbitrio, Friburgo, 1906; P. Parente, Anthropologia supernaturalis, Roma, 1949; L. Billot, De gratia Christi, Roma, 1923; R. Garrigou-Lagrange, De Deo uno, Torino, Marietti, 1940.
[5] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore preludio di quella del cielo. Trattato di Teologia ascetica e mistica, 4° vol., Roma-Monopoli, Edizioni “Vivere in”, 1998.
[6] Cfr. A. Royo Marìn, Teologia della Perfezione cristiana, Roma, Paoline, 1960; Id., Teologia della Carità, Roma, Paoline, 1965, A. Gardeil, La structure de l’âme et l’expérience mystique, Parigi, 1927.
[7] Cfr. S. Tommaso D’Aquino, Quaest. disput. de caritate; Id., Opusc. De duobus praeceptis caritatis.
[8] “L’unica misura per amare Dio è di amarlo senza misura” (S. Francesco di Sales, Teotimo)
[9] Cfr. i grandi commentatori di S. Tommaso: Gaetano, Ferrarense, Bañez, Giovanni di San Tommaso, Salamanticenses, Billuart.
[10] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, De virtutibus theologicis, Torino, Marietti, 1949, pp. 270-340.
[11] S. Alfonso De Liguori, Theologia Moralis, II, De caritate.
[12] Per esempio S. Benedetto da Norcia nel Sacro Speco di Subiaco per tre anni “secum vivebat” (viveva solo con se stesso e in comunione con Dio) scrive S. Gregorio Magno.