venerdì 18 marzo 2011

150 anni di colonialismo anticattolico!

Un discorso del generale de Charette … io dichiaro che noi siamo pronti a combattere ed a morire se occorre, per il Papa-Re, per il Potere Temporale, doppio simbolo di ogni legittimità…

Beato Papa Pio IX


La Domenica del 3 luglio anno corrente (1892) celebravasi a Parigi, nella Cappella dei Circoli Operai di Montparnasse, una Messa commemorativa per il centenario della nascita di Pio IX. Il panegirico dell’immortale Pontefice fu pronunziato dal Rev. Padre de Pascal. Dopo la cerimonia religiosa, si tenne un banchetto sotto la presidenza del generale de Charette, già tenente colonnello, comandante in 2.° il glorioso reggimento dei Zuavi Pontificii, l’eroe di Castelfidardo, di Nerola e di Mentana. Alle frutta, il generale barone Atanasio De Charette fece il seguente bellissimo discorso, grandemente ammirato da quanti ebbero la sorte di udirlo:


“Mio Rev. Padre, signori e cari camerati:
è un pericoloso onore quello che mi fate, chiedendomi di parlarvi anch’io dell’amatissimo Pio IX, del Grande Pontefice che ha lasciato nei nostri cuori sì care memorie.
Una parola più eloquente della mia ha ritracciato stamane col più nobile ed elevato linguaggio le grandi linee di quel memorando Pontificato, ed io intendo qui limitarmi a reminiscenze personali, onde comprenderete agevolmente quanto sincero fosse l’affetto ch’egli aveva saputo ispirare a noi tutti e quanto sia viva tuttora la nostra gratitudine.
E voi, signori, che avete la compiacenza di accoglierci fra voi, in questo Circolo di Montparnasse , il quale conta già tanti e sì gloriosi anni di esistenza, permettetemi di trattarvi come Zuavi Pontificii e di entrare nell’argomento senza altri preamboli.
Io lasciai Roma nel settembre del 1870 e non vi ritornai che dopo la morte di Pio IX.
Come narrarvi le mie impressioni nel rientrare nell’antico Patrimonio di S. Pietro, per Passo Cerose, nel rivedere Monterotondo, Porta Pia, S. Giovanni in Laterano, S. Lorenzo.
Ciascuno di questi luoghi mi ricordava qualche fatte d’arme, qualche compagno gloriosamente caduto, e nei giorni felici taluna di quelle feste che lasciano in cuore indelebile rimembranza.
Ma di tutte queste impressioni la più forte fu quella che provai nel passare presso il cimitero di S. Lorenzo, ove riposano nelle Catacombe tanti esseri carissimi.
Pio IX, sdegnando la sontuosa tomba di Maria Maggiore, ch’eragli destinata, volle essere sepolto in quelle stesse Catacombe, in mezzo ai suoi Zuavi, come per dare loro una ultima arra di amore e di speranza.
La mia prima visita fu per S. Pietro. Era di sera: io m’incamminai verso un lumicino, tremolante come quelli che si pongono dinanzi alle Madonne. Quale scossa non sentii nell’animo, leggendo sul monumento in cui riposano tutti Papi prima di ricevere la lo loro sepoltura definitiva, queste parole Pius IX Pontifex Maximus! Caddi in ginocchio, pregai e piansi. Ma il Papa non muore ed era appunto venuto il momento di andare ad offrire a Leone XIII l’inalterabile devozione degli Zuavi Pontificii.
Voi sentite, non è vero? signori, ciò che avveniva allora nel mio cuore tutto pieno della memoria di Pio IX, e come non potessi senza indicibile commozione andare a prostrarmi ai piedi del suo Successore.
Quando si è consacrato tutto il proprio cuore ad un Sovrano come quello dì cui celebriamo oggi il centenario, si ha l’anima invasa da una specie di angoscia. Proverò io gli stessi sentimenti per Colui che occupa ora quel medesimo treno, dinanzi al quale m’inchinava con tanto amore?
Ma, dopo essere stato introdotto in quella stanza ov’ero stato sì spesso ricevuto da Pio IX, quando risollevai il capo, dopo le tre genuflessioni d’uso, e vidi il Vegliardo dalla bianca sottana assiso sul trono presso il quale io mi era tante volte inginocchiato, compresi come il Papato non muoia mai, ed offrii la mia persona, il mio cuore e la mia vita al Successore di Pio IX. 
Il Sovrano Pontefice mi colmò di onori, e donò a quanti avevano degnamente portato la tunica dello Zuavo sotto Pio IX la medaglia Benemerenti, massimo onore che ci fosse date di ambire. 
Non dimenticherò mai Leone XIII nell’atto di stringersi al cuore il mio unico figlio, o di fargli fare la prima Comunione.
Alla prima udienza ch’io ebbi il bene di ottenere da Pio IX, egli ci diresse queste memorande parole: «Andate a testa alta, non temete; perché servite al diritto, alla giustizia, alla verità.» E noi andammo giubilanti a Castelfidardo.
Formavamo appena una compagnia, quando Mons. De Merode ci mandò a scortare il Papa in una visita a S. Agnese. Ciascuno di noi ne ebbe una medaglia ed una Benedizione.
Vi sovviene, cari camerati, del campo di Porto d’Anzio, nell’aprile 1862? Noi avemmo la felicità di restare per un mese colle truppe pontificie a formare una guardia d’onore al Santo Padre, sotto gli ordini del generale Kanzler. Rammentate la bella festa della distribuzione delle bandiere?
La bandiera consegnataci in quel giorno ha vedute molte battaglie, e quando, il 22 settembre 1870, il reggimento fu disciolto e rimpatriato secondo le diverse nazionalità, ciascuno ne portò seco un brandellino, come memoria del passato e più ancora come pegno dell’avvenire.
Non vi fu mai uomo più seducente di Pio IX: il suo cuore, prescindendo anche dal carattere sacerdotale, raggiava di bontà e carità. Il suo aspetto fisico stesso aumentava il fascino che da vicino o da lontano subivano tutti coloro che lo hanno conosciuto: maestà impareggiabile, nata da ineffabile semplicità; grande intelligenza, che non escludeva una grande finezza; eloquenza notevole, soavissima all’anima; facili scatti di carattere vivace ed impetuoso, corrotti subito da sentimenti di bontà sgorganti dal cuore.
Ho detto che Pio lX aveva notevole eloquenza; ma non basta: era un grande oratore. Possedeva tutto: la prestanza, il gesto, la voce - a Roma non eravene altra più bella - il tatto, l’argutezza, l’amplitudine, la fiamma. Ammaliava, soggiogava, trasportava l’uditorio. Il Cardinale Place, che aveva avuto l’onore di essere consacrato da Pio IX, dal quale era particolarmente e da gran tempo conosciuto, mi raccontava, or non ha molto, come un protestante, ministro a Ginevra, uomo ragguardevole ed intelligentissimo, il quale aveva passato molti anni in Italia ed a Roma, gli dicesse un giorno dopo un discorso di Pio IX a S. Andrea della Valle: Ho udito i principali predicatori ed oratori dell’Italia e di Roma (il P. Ventura era allora all’apice della sua fama): quanto Ventura mi è sembrato superiore agli altri oratori, altrettanto Pio IX è superiore a Ventura.»
Si poteva riassumere in una parola l’impressione ch’egli produceva a prima vista e che andava crescendo dì mano in mano che lo si conosceva meglio: era un grande affascinatore; affascinava tutti coloro che lo avvicinavano.
Amava il suo reggimento di un amore sconfinato. Noi gli avevamo mandato nel 1877, per il giorno della sua festa - l’ultima, ahimè! - una statuetta d’argento, rappresentante un Zuavo che porta la bandiera del Sacro Cuore. Egli disse ad un Zuavo presente quanto fosse felice di possedere quella statuetta, che teneva sempre sulla sua scrivania. «E’ bella!» osservò, e, rigirando l’occhio al Zuavo, aggiunse con quel sorriso sì buono, sì penetrante, si espressivo, che tutti conosciamo: «Tutti gli Zuavi sono belli, o almeno quasi tutti.» Lo Zuavo, che mi raccontava questo aneddoto, diceva poi: «Non cambierei questa divisa con tutti i titoli di nobiltà del mondo».
Bisognerebbe scrivere volumi per narrare la vita dì questo grande e santo Pontefice; ma lasciatemi terminare col racconto dello spettacolo più grandioso ch’io abbia veduto in vita mia.
Era il 19 settembre 1870. Le truppe italiane avevano completato l’investimento della città eterna, e l’ultimo atto del dramma cominciato nel 1859 stava per recitarsi; il sacrifizio stava per consumarsi. Sempre fedeli alla nostra divisa, noi speravamo contro ogni speranza, domandavamo a Dio un miracolo! Io aveva ricevuto il comando alla porta di S. Giovanni in Laterano, quando fui avvertito che il Santo Padre entrava alla Scala Santa.
Non esagero: sembravami che intorno alla fronte del nostro augusto Pontefice risplendesse l’aureola dei Santi e dei Martiri. Ognuno aveva coscienza che stesse per compiersi alcun che di straordinario. Giunto all’ultimo gradino dopo essersi curvato a baciare la Croce che segna la traccia del Sangue del Salvatore, il Santo Padre, levando le braccia come Mosè alla vista della terra di Canaan, rivolse questa preghiera al Dio degli eserciti:

«O tu, gran Dio, mio Salvatore, tu di cui io sono il servo dei servi, tu di cui io sono l’umile rappresentante, tu supplico, per questo prezioso Sangue, caduto al tuo divin Figlio in questi luoghi stessi, e del quale io sono il supremo dispensatore; ti supplico, pei tormenti, pel supplizio del tuo divin Figlio che salì volontariamente questa scala di obbrobrio, per offrirsi in olocausto dinanzi a Cesare, dinanzi a quel popolo che lo insultava e pel quale andava a morire sopra una croce infame , oh! ti prego, abbi pietà del tuo popolo e della tua Chiesa, tua diletta figlia. Sospendi il tuo corruccio, la tua giusta ira. Non permettere a mani infami di venire a contaminare la tua dimora. Perdona al mio popolo, che è tuo, che ha fatta rossa del suo sangue questa terra benedetta. E se una vittima si richiede, o mio Dio! prendi il tuo indegno servo, il tuo indegno rappresentante!
Pietà, mio Dio! pietà, te ne prego; mi checché avvenga, sia fatta la tua santa volontà!».

Noi tutti piangevamo. Mai più non assisterò ad una scena tanto sublime e straziante ad un tempo. Aspettai il Santo Padre sulla porta, e, avendo fatto schierare i miei in ordine di battaglia, pregai il Pontefice di benedirci... Le donne del popolo gli afferravano le mani, sì avvinghiavano alla sua sottana, gridando: «Coraggio, Santo Padre coraggio!»
Il 20 settembre, mentre noi sfilavamo per un’ultima volta sulla piazza di S. Pietro col cuore infiammato d’ira e coll’anima in lutto, ma serbando sempre una suprema speranza, quando il nostro ultimo grido di Viva Pio IX, Papa e Re! andò a spirare ai suoi piedi, Pio IX svenne fra le braccia dei suoi camerieri.
Ah! credetemi, ad una parola di tal uomo giubilando incontro alla morte!
In nome di tutti i miei camerati, io dichiaro che noi siamo pronti a combattere ed a morire se occorre, per il Papa-Re, per il Potere Temporale, doppio simbolo di ogni legittimità; locché non ci ha impedito e non impedirà di fare, all’uopo, il nostro dovere di patrioti e di Francesi”.

(Da: Pio IX ad Imola e Roma. Memorie inedite di Francesco Minocchieri, pubblicate ed illustrate a cura di Antomaria Bonetti, Napoli 1892, Stab. Tip. Librario di A. & Salv. Festa, pagg.178-185)
Savoia e il Massacro del Sud, di Antonio Ciano

Al Piemonte non interessava per niente l'Unità d'Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Per avvalorare questa afferm...azione Ciano apre il suo libro con delle tabelle statistiche. Nel 1860, anno dell'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, le monete di tutti gli Stati italiani ammontavano complessivamente a 668,4 milioni, dei quali ben 443,2 (66,31% del totale) appartenevano al Regno delle Due Sicilie; il Regno di Sardegna/Piemonte ne possedeva solo 27,0 milioni. Dal primo censimento del Regno d'Italia, tenutosi nel 1861, risulta che nelle province napoletane e siciliane la popolazione occupata nell'industria era 1.595.359, nell'agricoltura 3.133.261, nel commercio 272.556, mentre in Piemonte, Liguria e Sardegna (messi insieme) era rispettivamente di 376.955 (industria), 1.501.106 (agricoltura), 119.122 unità (commercio). La città più popolosa era Napoli con 447.065 abitanti, Torino di abitanti ne aveva 204.715, Roma 194.587. Nella Conferenza Internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l'Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale.
Oggi - scrive Ciano nel suo libro - abbiamo due Italie, una del Nord ed una del Sud, una ricca ed una povera. Rispetto al 1860 si sono invertiti i ruoli. Il Nord ha rubato tutto al Sud, che fu invaso militarmente e colonizzato. Ora è tempo di cambiare. Il Sud ha bisogno di liberarsi del colonialismo instaurato dalla borghesia del Nord; ha bisogno di liberarsi del sistema fiscale impostogli dal Piemonte nell'Ottocento; ha bisogno della sua piena autonomia per far sprigionare la fantasia imprenditoriale dei suoi abitanti. Ma il Sud prima di separarsi dovrà chiedere al Nord il conto dei danni subiti, che sono tanti.
Il libro di Ciano, scritto nel 1996, conserva ancora oggi la sua validità e la sua freschezza d'invettiva contro i soprusi compiuti dai Piemontesi per imporre con la forza agli abitanti del Sud una unità non voluta e non sentita.
Il 1861 è un anno che ogni Meridionale deve ricordare, non per la pseudo unità imposta con la forza, ma perché quell'anno i Savoia iniziarono il massacro del Sud. Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse.
La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, scrive Ciano, un milione di contadini furono abbattuti; anche se i governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno doveva sapere.
Il brigantaggio fu un grande movimento rivoluzionario e di massa, che lottò contro l'invasione piemontese. I briganti furono partigiani che difendevano la loro patria, la loro terra, il loro Re Borbone e la Chiesa cattolica. Dovevano essere annientati perché si opponevano alle mire colonialistiche dei piemontesi.
Generali ed ufficiali piemontesi furono dei criminali di guerra, che praticarono lo sterminio di massa. I contadini dovevano essere fucilati; imprigionarli non era conveniente, perché, se in galera, lo Stato doveva provvedere al loro sostentamento.
Il Sud sta pagando ancora lacrime e sangue. L'ultimo Re Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
Nel 1861 il Sud è stato invaso dalle truppe piemontesi, ed oggi, anche se in modo diverso, continua ancora ad essere invaso. Scrive Ciano: «Una volta i generali savoiardi fucilavano i nostri contadini, oggi, massacrano le nostre menti con le televisioni i cui proprietari sono i liberal massoni di ieri. Non è cambiato niente».
E' giunto il momento - scrive ancora Ciano - di dire basta e di chiamare a raccolta tutti i meridionali sensibili e orgogliosi. E' il momento di compattarci, di rivalutare la nostra storia, di processare l'invasione piemontese del 1860-61, di processare coloro che fucilarono, imprigionarono, deportarono un milione di contadini del Sud etichettandoli briganti.
Più amara della sconfitta è stata la falsa storia raccontata dai prezzolati sabaudi, scrive Lucio Barone nella prefazione del libro. Tutto ciò che apparteneva al Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva additato al pubblico disprezzo.
Ispiratrice e suggeritrice della politica italiana di quegli anni fu la massoneria inglese, che aveva come obiettivo la costituzione di un nuovo ordine mondiale che non prevedeva più la presenza della Chiesa cattolica. Per l'Italia questo compito fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia. Alla massoneria, infatti, appartenevano i cosiddetti padri della patria che diedero vita alla cosiddetta unità d'Italia: Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi.
“Nord ladro” è il titolo del capitolo che introduce la rassegna delle grandi opere industriali presenti nel Sud prima dell'unificazione al Piemonte.
La Campania nel 1860 era la regione più industrializzata del mondo. Il Reale Opificio meccanico e politecnico di Pietrarsa, con i suoi mille operai specializzati, era il fiore all'occhiello dell'industria partenopea; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. In Castelnuovo operava la Real fonderia con 500 operai, a Torre Annunziata la Real Manufattura delle armi con 500 operai, a Castellamare il Cantiere Navale con 2.000 operai.
A Mongiana in Calabria erano presenti le Ferriere, con 1.500 operai e stabilimenti a Pazzano e Bigonci; quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa. Sempre in Calabria, nello Stabilimento metalmeccanico di Cardinale, 200 operai specializzati producevano 2.000 quintali di ferro.
Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). In Puglia, a Lecce, Foggia, Spinazzola, vi erano officine che producevano macchine agricole.
Ma quasi in ogni paese del Sud nacquero piccole industrie, che costituirono il nerbo dell'economia del Regno delle Due Sicilie. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, corallo, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali.
Nel 1860 - scrive Ciano - i settentrionali scannarono il Sud. Oggi, che non c'è più niente da scannare, paghi chi non ha mai pagato, paghi il Nord che ha sempre rubato. Il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, deportati; 20 milioni di emigranti le cui rimesse sono state dilapidate dal Nord; tutti i risparmi dei Meridionali rapinati dal Nord.
E i pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri, sperando di poter continuare a mettere un velo sull'intelligenza umana, di voler continuare a nascondere le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberal massoni di ieri e di oggi; e soprattutto vogliono farci dimenticare che il Sud era ricco e che il Nord era pezzente.
La parte centrale del libro è dedicata alla descrizione dei massacri operati dai piemontesi nei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi oggi in provincia di Benevento, distanti fra loro circa 5 chilometri. Nel 1861 il primo aveva 5 mila abitanti ed il secondo 3 mila; oggi il numero degli abitanti sia nell'uno che nell'altro paese è dimezzato.
Come in un diario vengono annotati e commentati i tragici avvenimenti che portarono nell'agosto del 1861 alla distruzione dei due paesi.
Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un b...ando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese. Eccolo: «1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato. 2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato. 3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato. 4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato». I piemontesi vennero ad imporre la loro inciviltà con i fucili.
E i meridionali si opposero. Preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte.
Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro insorsero, abbatterono le insegne savoiarde ed issarono nuovamente le bandiere borboniche. In quei giorni caldi di agosto, il Sud era quasi libero dal gioco piemontese. Le truppe sabaude venivano regolarmente battute dai partigiani-briganti. I popoli meridionali - scrive ancora Ciano - sono sempre stati civili, non hanno mai invaso territori altrui e sono diventati belve quando hanno visto insidiate le loro donne e la loro libertà.
Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. Una compagnia, composta da quaranta bersaglieri e quattro carabinieri, fu mandata a ristabilire l'ordine piemontese a Pontelandolfo. Anche per l'inesperienza del loro comandante Bracci, furono tutti fucilati. In un sommario processo furono giudicati colpevoli per aver invaso un regno pacifico senza dichiarazione di guerra e per aver fucilato migliaia di contadini e di giovani renitenti alla leva piemontese. Erano le 22,30 dell'11 agosto 1861.
La rappresaglia piemontese scattò rabbiosa. Un generale piemontese sentenziò: «Per ogni soldato ucciso moriranno cento cafoni». Una prima colonna di piemontesi, composta da 900 bersaglieri, si diresse verso Pontelandolfo, un'altra colonna, composta da 400 uomini, si diresse verso Casalduni. Era l'alba del 14 agosto 1861. E cominciò la mattanza.
Spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. Diedero fuoco a tutte le case. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla, saccheggi. Il massacro durò l'intera giornata.
Non si è mai saputo quanti furono i morti di Pontelandolfo, di Casalduni e degli altri paesi vicini. Certamente furono migliaia.
E così i piemontesi fecero l'unità d'Italia.
Rocco Biondi

Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256

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