venerdì 31 dicembre 2010

Il negazionismo degli euroburocrati



Nel giro di poche ore l'Ue si dimentica delle festività critiane e si rifiuta di equiparare le vittime del comunismo a quelle del nazismo. E se ne frega se attaccano le chiese in Nigeria e nelle Filippine

di Marcello Veneziani


Tratto da Il Giornale del 27 dicembre 2010

Per l’Unione europea il Natale non esi­ste, la Pasqua nemmeno, e se uccidono i cristiani in Nigeria e nelle Filippine, co­me è accaduto nel giorno di Natale, chi se ne frega, la cosa non ci riguarda. I cri­stiani saranno una setta del posto. Noi europei ci occupiamo di misurare le ba­nane, mica di religioni, superstizioni, stragi e amenità varie. Noi siamo civili, lavoriamo in banca, mica pensiamo alle festività religiose. E poi in questi giorni la Commissione europea non lavora, è in vacanza natalizia, anche se non si sa uffi­cialmente la ragione di queste festività, sarà l’anniversario dell’euro o l’onoma­stico di Babbo Natale... Non sto vaneg­giando per overdose di spumanti e pa­nettoni. È stata diffusa in milioni di copie e in migliaia di scuole, in tutta Europa e forse anche nei Paesi islamici, l’agenda ufficia­le dell’Europa, firmata della Commissione europea. Nel diario europeo, che mi è capitato di vedere, c’è traccia delle più estrose festività relative alle più minoritarie religioni, ma non c’è alcun riferimen­to alle festività antiche, canoniche e ufficiali della cristianità europea. Non si sa perché festeggiamo Natale e le altre festività religiose, nulla è ac­cennato sull’agenda che ricordi la Natività, la Resurrezione e tutto il re­sto, nulla che segni in rosso una san­­ta festività. Ma quale Natale, Pasqua, Epifania, diceva Totò, a cui evidente­mente si ispira l’Unione Europea. L’ha fatto notare, protestando, il mi­nistro degli Esteri Frattini, ma in que­sti giorni l’Unione europea è chiusa per inventario merci (non esistendo il Santo Natale) e dunque la protesta affonda nel vuoto vacanziero di que­sta vuota Europa. A ragion veduta possiamo perciò accusare l’Unione europea di nega­zionismo. L’Unione europea è un’as­sociazione vigliacca di smemorati banchieri fondata sul negazioni­smo. Nel giro di poche ore, l’Unione eu­ropea ha infatti negato le festività cri­stiane e dunque la sua tradizione principale ancora viva da cui provie­ne e nel cui nome ha un calendario e un sistema di festività. Ed ha pure ne­gato ai Paesi dolorosamente usciti dal comunismo il diritto di conside­rare i loro milioni di vittime sullo stes­so piano delle vittime del nazismo. Come sapete, la Commissione eu­ropea ha nega­to che si possano equi­parare gli stermini comunisti a quelli nazisti e possa dunque scattare an­che per loro il reato di negazionismo. Pur avendo commesso «atti orren­di», i regimi del gulag, secondo la Commissione europea, «non hanno preso di mira minoranze etniche». E che vuol dire, sterminare i borghesi o i contadini è meglio che sterminare gli appartenenti a una razza? Uccide­re chi non la pensa come te è un cri­mine meno efferato che uccidere chi è di un’altra razza? Tra le fosse di Ka­tyn, le foibe e le camere a gas di Da­chau, qual è la differenza etica, giuri­dica ed umana? Tra chi nega gli ster­mini di popolazioni civili di Paesi in­vasi dal comunismo e chi nega gli stermini etnici, qual è la differenza? È ideologica, signori, puramente ide­ologica. Come ideologica è la nega­zione delle tradizioni cristiane più popolari. Non parliamo infatti del dogma trinitario o di altri quesiti teo­logici, qui parliamo di Natale e Pa­squa, avete presente? Alla base del­l’Europa c’è un negazionismo vi­gliacco e bugiardo, che non è solo quello di negare alcuni colossali orro­ri per riconoscere e perseguirne de­gli altri; ma negare l’Europa stessa, la sua vita, il calendario che scandisce i suoi giorni, la sua realtà e la sua veri­tà, la sua tradizione e la sua storia. Il negazionismo dell’Unione euro­p­ea è ancora più grave del negazioni­smo elevato a reato: perché non ne­ga solo alcuni orrori, ma nega anche in positivo la storia, la provenienza, la vita europea. Del suo passato l’Unione resetta tutto, difende solo la memoria della Shoah, e poi cancella millenni di civiltà cristiana, millenni di natali e pasque, orrori del comuni­smo e di altre tirannidi. Che schifo. Io non ho ancora capito a che serve l’Unione europea fuori dall’ambito economico. Non è un soggetto politi­co che esprime posizioni unitarie, non ha un governo passato dal con­senso del popolo europeo, la sua stes­sa unione non fu voluta o almeno rati­ficata da un referendum costitutivo del popolo sovrano. Non è un sogget­to cul­turale e civile perché non fa nul­la per affermare, difendere o valoriz­zare l’identità europea, anzi fa di tut­to per negarla. Non ha una sua carta costituzionale dove declina le sue ge­neralità storiche, le sue affinità idea­li, i suoi principi, le sue provenienze civili e religiose. Non ha una sua poli­tica es­tera unitaria o una strategia in­ternazionale, e non si occupa di stra­gi dei cristiani, semmai si agita solo se c’è una donna condannata a mor­te per aver ucciso il marito in Iran. Insomma, l’Europa non è mai nata e ha paura pure della sua ombra. Esi­ste solo un sistema monetario unico, un sistema di dazi e di regole, di ban­che e di finanziamenti. È un ente eco­nomico, un istituto per il commer­cio. Per questo l’Unione europea non esiste, abbiamo ancora la Cee, la Comunità economica europea. Anzi non sprechiamo la parola comunità per un consorzio economico, tornia­mo al Mec, Mercato europeo comu­ne. L’Europa è un morto che cammi­na.

giovedì 30 dicembre 2010

L'intervento del Prof. De Mattei al Convegno sul Concilio Vaticano II




 
 
Testo integrale del Prof. de Mattei del suo intervento al Convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell'Immacolata.
 
Fonte:http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2010/12/convegno-di-roma-sul-vaticano-ii-16.html
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Istituto Maria Santissima Bambina
Roma, 16 dicembre 2010
Concilio Vaticano II

1. L’immagine della Chiesa nel 1962

Eccellenze reverendissime, Monsignori, Reverendi Padri, Signore e Signori,

chi vi parla è uno storico ed è dalla storia che vorrei partire, tornando assieme a voi a quel giorno dell’11 ottobre 1962, in cui si aprì a Roma il Concilio Vaticano II, ventunesimo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.

Il lungo corteo dei Padri conciliari, che quella mattina uscì dalla Porta di Bronzo e avanzò lentamente all’interno della Basilica di San Pietro stracolma, offriva una straordinaria immagine della Chiesa militante sulla terra.

In testa i superiori di ordini religiosi, gli abati generali e i prelati nullius; quindi i vescovi, gli arcivescovi, i patriarchi, i cardinali, e per ultimo, in sedia gestatoria, scortato dalla Guardia nobile, tra gli applausi della folla, il Papa Giovanni XXIII. Mentre il corteo dei padri incedeva con solennità, i cantori intonarono il Credo e poi il Magnificat. Il corteo era lungo complessivamente circa 4 chilometri; vi partecipavano quasi tremila dignitari della Chiesa. Di essi 2.381 vescovi, direttamente collegati mediante la successione apostolica ai primi Apostoli. Essi erano riuniti attorno al sovrano supremo, il Papa, Vicario di Cristo, con giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e su tutti i fedeli del mondo.

La presenza del Vicario di Cristo e dei successori degli Apostoli, nel quadro incomparabile della Basilica di San Pietro, fecero di quella cerimonia uno spettacolo unico al mondo. Mai come in questo momento la Chiesa cattolica manifestò il suo carattere, gerarchico e visibile: visibile perché la Chiesa militante, in quanto fondata sull’Incarnazione del Verbo, deve rendere manifesto nella sua struttura il suo aspetto invisibile, come l’organismo umano rende tutto l’uomo visibile, benché la sua anima in sé resti invisibile. Per amare questa gerarchia era, ed è, necessaria una profonda umiltà. Bisogna ammettere che non esiste uguaglianza nel mondo creato, che tutto dipende da Dio, che partecipa l’essere a ogni creatura in maniera diversa: e con l’essere ogni creatura riceve qualità, doni, grazie in base alle quali occupa nella società terrena e in quella soprannaturale un posto diverso. Il primo peccato, quello degli angeli ribelli, fu il rifiuto di riconoscere la sapienza di Dio, nel calare la propria divinità nel seno di un'umile creatura, come avvenne per il Verbo Incarnato, e per elevare questa creatura, Maria, al vertice dell’universo creato. I cori degli Angeli Fedeli esprimono nel cielo questa sublime dipendenza gerarchica e la Chiesa e la società cristiana sono chiamate a riflettere sulla terra la gerarchia dei cori celesti.

Universalità, sacralità, gerarchia: questa era l’immagine che l’11 ottobre del 1962 di sé dava al mondo la Chiesa militante sulla terra, soprannaturalmente unita alla Chiesa sofferente e alla Chiesa trionfante nell’unica Comunione dei Santi. La Chiesa appariva davvero la città posta sul monte di cui parla il Vangelo (Mt, 5,14).

2. Il rapporto tra la Chiesa e il mondo

Ma qual era l’immagine che di sé offriva il mondo all’inizio degli anni Sessanta?
Il mondo di quegli anni era immerso in un clima psicologico di ottimismo, se non di euforia. Tre icone brillavano nel firmamento internazionale, incarnando questo clima di ottimismo: Nikita Sergeevic Krusciov, dal 27 marzo 1958 premier dell’Unione Sovietica; Angelo Giuseppe Roncalli, asceso al soglio pontificio il 28 ottobre di quello stesso 1958 con il nome di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, che il 21 gennaio 1961 aveva assunto la carica di Presidente degli Stati Uniti.

Il 12 aprile 1961 il maggiore sovietico Yuri Gagarin aveva compiuto il primo volo di un uomo nello spazio. La sua impresa sembrava suggellare un’epoca di trionfo della scienza, campo in cui l’Unione Sovietica contendeva agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma il 13 agosto di quello stesso 1961 era iniziata la costruzione del Muro di Berlino e l’imperialismo sovietico estendeva la sua ombra minacciosa su larga parte del mondo.

L’influenza che il comunismo esercitava sul mondo, più che politica e militare, era culturale e psicologica. La filosofia marx-hegeliana dominava negli ambienti accademici e mediatici e anche nel linguaggio comune correvano termini mutuati da quella filosofia immanentista, come “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si trattava di una visione dialettica che si esprimeva nelle nuove parole d’ordine lanciata dalla propaganda comunista: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità e tradizione del passato. L’ideologia soggiacente era quello del progresso inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso celeste.

Nel corso della sua storia, la Chiesa aveva parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura, dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà sponsale. Questi uomini e queste donne avevano preferito essere esclusi, disprezzati, perseguitati, messi a morte dal mondo piuttosto che rinunciare a proclamare la verità e a lottare contro gli errori e le false dottrine. Era questa la strada indicata da confessori della fede come il cardinale Aloisio Stepinac, morto alla vigilia del Concilio, e il cardinale Josef Mindszenty, recluso dal 1956 nell’ambasciata americana a Budapest.

La cultura progressista degli anni Sessanta esercitava il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti che fosse necessario mutare l’atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli anatemi e alle condanne degli errori per scorgere ciò che di positivo il mondo presentava. Era questa la tesi espressa dal padre domenicano Yves Congar, a cui si deve una delle prime enunciazioni della distinzione tra i dogmi e la loro formulazione. In un’opera di successo, Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar affermava che non esistono “germi attivi nei quali non siano pure presenti dei microbi”: ossia errori, in cui non esistono verità. Poiché uccidere i microbi significherebbe uccidere anche i germi vivi, occorreva, a suo avviso, lasciare prosperare gli uni e gli altri. La condanna degli errori da parte della Chiesa, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento secondo lui le istanze positive in essi presenti, qualcuno le chiama oggi le istanze “esigenziali”: meglio avrebbe fatto la Chiesa a lasciar vivere e diffondere questi errori. Con questo atteggiamento Congar proponeva di cambiare la Chiesa dall’interno, attraverso “una riforma senza scisma”. “Non bisogna fare un’altra Chiesa – spiegava –bisogna fare una Chiesa diversa”. Quello di modificare la Chiesa dall’interno era l’antico sogno, irrealizzato, dei modernisti. “Fino ad oggi – aveva spiegato il sacerdote apostata Ernesto Buonaiuti – si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic labor”.

Tra coloro che accoglievano le tesi di Congar era un gruppo di Padri conciliari del Centro-Europa, tra cui spiccava il neo-eletto primate del Belgio, il cardinale Léo-Joseph Suenens. Suenens non aveva ancora 60 anni. Dopo essere stato consacrato arcivescovo di Malines-Bruxelles nel marzo 1962, aveva incontrato a Roma Giovanni XXIII che fu affascinato dalla sua figura e gli chiese di preparargli una nota per il Concilio. Nel mese di giugno 1962 Suenens riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, tra i quali gli arcivescovi di Monaco Döpfner, di Lille Liénart, di Milano Montini, per discutere un “piano” e una strategia per il prossimo Concilio.

Nel documento che fu redatto, il cardinale Primate del Belgio lanciava la parola d’ordine del “Concilio pastorale”, definendo ciò “un beneficio immenso”, una “grazia di Pentecoste per la Chiesa”. Giovanni XXIII avrebbe seguito questa linea strategica.

3. Giovanni XXIII apre il Concilio

L’allocuzione inaugurale del Papa, Gaudet mater ecclesia dell’11 ottobre fu – come osserva il padre Wenger – la chiave per comprendere il Concilio. “Più che un ordine del giorno, esso definiva uno spirito; più che un programma, dava un orientamento”. La novità non era nella dottrina, ma nella nuova disposizione psicologica ottimistica con cui si impostavano i rapporti tra la Chiesa e il mondo: un rapporto dialogico di simpatia e “apertura”. Coloro che mettevano in dubbio questo spirito irenico e ottimistico venivano definiti dal Papa “profeti di sventura”.

Per Giovanni XXIII, compito principale del Concilio era quello di custodire il Magistero della Chiesa e insegnarlo “in forma più efficace”. Nel suo discorso di apertura egli affermava: “Altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. “Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto”.

Il Concilio era stato indetto, non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale, cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi di azioni e di apostolato, con Giovanni XXIII, diventava la forma del Magistero per eccellenza. Si tratta di un punto centrale. Giovanni XXIII non intendeva avviare una Rivoluzione all’interno della Chiesa. Il suo temperamento era inclinato a un ottimismo che aveva come conseguenza psicologica, più che ideologica, l’idea di “adattamento” o, come poi si dirà, di “aggiornamento”. Egli pensava che il Concilio potesse tenersi in tempi brevi, giungendo ad approvare pochi documenti, magari per acclamazione. Nel luglio del 1962, ricevette in udienza mons. Pericle Felici, che gli presentò gli schemi conciliari rivisti e approvati. “Il Concilio è fatto – esclamò con entusiasmo Papa Roncalli – a Natale possiamo concludere”.

4. Le due minoranze

Il Concilio non durò tre mesi, come aveva immaginato Giovanni XXIII. E Papa Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, poté seguirne solo la prima sessione. Paolo VI, eletto il 21 giugno guidò le successive tre sessioni e ne fu il protagonista. Il Concilio non si svolse neppure nell’atmosfera di gioioso consenso immaginata da Giovanni XXIII, ma fu il luogo di drammatici contrasti.

Se ci si limitasse a una storia “ufficiale”, basata sui risultati dalle votazioni, si dovrebbe negare l’esistenza di una lotta interna al Concilio tra opposti schieramenti, visto che i documenti conciliari furono tutti approvati da una schiacciante maggioranza. In realtà, nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi contrapposti.

Gli storici pur non negando quest’evidenza, la riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. In realtà lo scontro avvenne tra due minoranze che, nel 1963, il teologo di Lovanio Gerard Philips descriveva come due “tendenze” contrapposte della filosofia e della teologia del ventesimo secolo: l’una nelle parole di Philips più preoccupata di essere fedele agli enunciati tradizionali, l’altra più attenta alla diffusione del messaggio presso l’uomo contemporaneo. Nell’articolo del teologo belga le due posizioni venivano poste sullo stesso piano con una netta preferenza dell’autore verso la seconda. La prima “tendenza” era però la posizione ufficiale del Magistero della Chiesa, sempre ribadita fino al pontificato di Pio XII; la seconda “tendenza” era quella eterodossa, ripetutamente censurata e condannata dallo stesso Magistero ecclesiastico.

Per questa seconda tendenza il Concilio rappresentava una straordinaria opportunità. La natura dell’evento avrebbe permesso alle diverse posizioni, la conservatrice e la progressista, di confrontarsi su di un piano di parità ideologica e di affidare alle regole del gioco parlamentare la prevalenza nei dibattiti. Nel Concilio si crearono gruppi e correnti definiti dai mass media come una destra, una sinistra, un centro. L’uso di questi termini, per quanto improprio, non deve sorprendere e può essere, per comodità, accettato. Lo storico dei Concili Hefele scrive che, nel 325, a Nicea, i vescovi ortodossi formavano con sant’Atanasio e i suoi seguaci la destra, Ario e i suoi partigiani rappresentavano la sinistra, mentre il centro-sinistra era occupato da Eusebio di Nicomedia e il centro-destra da Eusebio di Cesarea. La posizione giusta, quella autenticamente cattolica, non era quella del centro dei due Eusebi, che formava un “terzo partito” tra l’ortodossia e l’eresia, ma era quella incarnata dalla destra di sant’Atanasio, accusato dai suoi avversari di estremismo e di fanatismo. Fu sant’Atanasio però, autore del Simbolo della fede che ancora oggi professiamo, a tracciare la storia della Chiesa nei secoli futuri.

All’interno delle aule conciliari, tra le due minoranze conservatrici e progressiste ondeggiava, come sempre, la massa di coloro che esitavano a schierarsi.

Qual era il pensiero e la posizione di questo centro maggioritario? Abbiamo uno strumento per conoscerne i pensieri. In aula e nelle commissioni solo una minoranza dei Padri conciliari prese la parola, ma pressoché tutti risposero alla richiesta che nel 1959 venne fatta loro dal cardinale Segretario di Stato Domenico Tardini di proporre temi e suggerimenti per l’imminente Concilio.
Le risposte dei vescovi, dei superiori degli ordini religiosi e delle università cattoliche alla richiesta di pareri del card. Tardini giunsero, in forma di “vota” nell’estate del 1959. Lo spoglio dell’enorme materiale, iniziò nel mese di settembre e si concluse alla fine del gennaio 1960. Un attento esame deivota permette oggi allo storico, come permetteva allora al Papa, alla Curia e alla Commissione preparatoria, di avere un quadro dei “desiderata” dell’episcopato mondiale alla vigilia del Concilio.

Le richieste dei futuri Padri conciliari, considerate nel loro insieme, non esprimevano il desiderio di una svolta radicale, e tantomeno di una “Rivoluzione” all’interno della Chiesa. Se le tendenze antiromane di alcuni episcopati affioravano nettamente in alcune risposte come quelle del card. Alfrink, arcivescovo di Utrecht, in generale gli auspici dei padri erano quelli di una moderata “riforma” sulla linea della tradizione. La maggioranza dei vota chiedeva una condanna dei mali moderni, interni ed esterni alla Chiesa, soprattutto del comunismo, e nuove definizioni dottrinarie, in particolare riguardanti la Beata Vergine Maria. Tra gli stessi vescovi francesi, considerati tra i più progressisti, molti domandavano la condanna del marxismo e del comunismo e una consistente minoranza chiedeva la definizione del dogma della mediazione di Maria.

I vescovi italiani, i più numerosi, avrebbero voluto che il Concilio proclamasse il dogma della “mediazione universale della Beata Vergine Maria”. Il secondo dogma di cui essi richiedevano la definizione era quello della Regalità di Cristo, da opporre al laicismo imperante. Molti inoltre chiedevano al Concilio la condanna degli errori dottrinali: il comunismo, l’esistenzialismo ateo, il relativismo morale, il materialismo, il modernismo.

È interessante l’analogia tra i “vota” dei Padri conciliari e i Cahiers de doléance redatti in Francia, in vista degli Stati Generali del 1789. Prima della Rivoluzione francese, nessun “cahier de doléance” si proponeva di sovvertire le basi dell’Ancien Régime, e in particolare la Monarchia e la Chiesa. Ciò che veniva richiesta era una moderata riforma delle istituzioni, non il loro sovvertimento, come accadde inaspettatamente, quando si riunirono gli Stati generali.

Qualcosa di simile alla Rivoluzione francese accadde tra il 1962 e il 1965. Il Concilio non esaudì le richieste che emergevano dai “vota” dei Padri conciliari, ma assecondò le rivendicazioni della minoranza progressista che, fin dall’inizio, riuscì a porsi alla testa dell’assemblea e ad orientarne le decisioni. È quanto emerge inconfutabilmente dai dati storici. E come accadde nella Rivoluzione francese, i giorni decisivi furono i primi, quelli in cui avvenne la rottura della legalità. A Versailles successe il 17 giugno 1789, quando gli Stati Generali si trasformarono in assemblea costituente; a Roma il 13 ottobre 1962, quando, su richiesta del card. Liénart, ma la mossa era stata accuratamente preparata, le Conferenze episcopali entrarono come gruppi organizzati nella dinamica conciliare.

Dietro questi gruppi organizzati si muovevano altri gruppi organizzati, di vescovi e di teologi, che formarono un partito apertamente antiromano, perché vedeva nella Curia di Roma il nemico da battere. La rete di relazioni, che preesisteva al Concilio, era forte e ramificata e comprendeva oltre alle conferenze nazionali, famiglie religiose, gruppi linguistici, ma soprattutto laboratori ideologici, come quello di Cuernavaca in Messico, di Bologna in Italia, di Lovanio in Belgio. Il padre Congar, il propugnatore della vera Riforma della Chiesa, nel suo Diario del Concilio ha chiarito come il nemico da abbattere fosse la teologia romana, soprattutto nella forma in cui era allora insegnata alla Lateranense.

Di fronte a questa minoranza organizzata, i vescovi e teologi fedeli a Roma reagirono solo tardivamente e senza l’intelligenza strategica dei loro avversari. Secondo una studiosa, Melissa Wilde, il successo dei progressisti può essere spiegato la minoranza progressista prevalse anche grazie alla migliore strategia e organizzazione, occorre dire che la storia è sempre fatta da minoranze e ciò che prevale, nello scontro, non è il numero e neanche l’organizzazione, ma la determinazione e l’intensità con cui queste minoranze combattono le loro battaglie. Fu questa una delle cause del successo dell’ala progressista. Successo o sconfitta? Le rivendicazioni dell’ala giacobina furono certo respinte. I documenti non corrisposero alle attese dei progressisti più audaci ed è grazie ai compromessi raggiunti in extremis che oggi quei documenti possono essere letti anche alla luce della Tradizione. Ma l’immagine che il mondo aveva della Chiesa cambiò. Quando il 12 ottobre 1963 mons. Franić, vescovo di Spalato, propose che nello schema De Ecclesia al nuovo titolo di Chiesa “pellegrinante” fosse aggiunto quello, tradizionale, di “militante”, la sua proposta fu respinta. L’immagine che la Chiesa doveva offrire di sé al mondo non era quella della lotta, della condanna, della controversia, ma del dialogo, della pace, della collaborazione ecumenica e fraterna.

La minoranza progressista si propose non tanto di mutare la dottrina della Chiesa, ma di sostituire all’immagine sacrale e gerarchica della Chiesa quella di un’assemblea democratica, aperta alle novità, immersa nella storia. Ciò avvenne soprattutto attraverso la Rivoluzione del linguaggio, metodo pastorale per eccellenza. Alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che uno studioso del Concilio, il padre O’Malley chiama “epidittico”. Questo modo di esprimersi, secondo lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. Esprimersi in termini diversi dal passato, significa accettare una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso rivela infatti, prima ancora che le idee, le tendenze profonde dell’animo di chi si esprime. “Lo stile – sottolineò O’Malley – è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza”. L’aspetto pastorale è, di norma, accidentale e secondario rispetto a quello dottrinale, ma nel momento in cui diviene una dimensione sostanziale e prioritaria, il modo in cui la dottrina viene formulata si trasforma esso stesso in dottrina, più importante di quella che, oggettivamente, viene veicolata.

I leader del Concilio, continua O’Malley, “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”. “Questo significa che il Vaticano II, il ‘Concilio pastorale’, ha un insegnamento, una ‘dottrina’, che in gran parte è stato difficile per noi formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa medaglia”. La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo rivela un modo di essere e di pensare e in questo senso si deve ammettere che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina.

Sotto questo aspetto il Concilio segnò indubbiamente un profondo cambiamento nella vita della Chiesa. I contemporanei ne avvertirono il carattere epocale. “Si parlò – ricorda lo storico americano Josef Komonchak – di una svolta storica; la fine della controriforma o dell’epoca tridentina, la fine del Medioevo, la fine dell’era costantiniana”. “Semplicemente – rileva Melissa Wilde – il Vaticano II rappresenta l’esempio più significativo di cambiamento religioso istituzionalizzato dal tempo della Riforma”.

Sotto questo aspetto, non si può negarlo, il Concilio costituì una Rivoluzione. A questo punto potrei essere accusato, come è già avvenuto, di essere un fautore della ermeneutica della discontinuità, in contrasto con la ermeneutica della continuità di Benedetto XVI. Queste accuse che hanno accompagnato la pubblicazione del mio recente libro sono arrivate al punto di cercare di mettermi contro Benedetto XVI (così Massimo Introvigne su “Avvenire”) e perfino contro Pio XII (così lo storico Alberto Melloni sul “Corriere della Sera”). Si tratta di palesi distorsioni del mio pensiero che esigono una rettifica per il profondo amore e rispetto che provo verso Pio XII e verso il regnante Pontefice Benedetto XVI.

Per quanto riguarda Pio XII il discorso è molto semplice: ho una somma venerazione verso il suo Magistero che rappresenta, come ho scritto nel mio libro, una vera summa dottrinale, una preziosa miniera a cui è ancora oggi utilissimo attingere. Ma Pio XII, che fu uno straordinario diplomatico, non ebbe l’esperienza di Pastore che aveva avuto il Papa che pure tanto amava, Pio X. E nella repressione del male che serpeggiava nella Chiesa – uso il termine serpeggiare che a Melloni non piace, perché indica bene l’atteggiamento infido del serpe che striscia nella penombra per colpire all’improvviso con il suo veleno – il venerabile Pio XII non fu, a mio parere, altrettanto pronto e vigoroso di san Pio X.

Va precisato che lo storico differisce dall’agiografo. Chi legge l’intramontabile Storia dei Papi di Ludwig von Pastor sa che lo storico tedesco non lesinò rispettose critiche ai numerosi pontefici da lui presi in esame. È sul piano storico che io esprimo giudizi nei confronti di Pio XII, Giovanni XXIII; Paolo VI, senza che ciò debba scandalizzare nessuno. Tra questi è proprio verso Pio XII che esprimo la maggiore ammirazione. Chi critica Pio XII non sono io, ma lo storico Alberto Melloni, che sul “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2005 si è pronunciato contro la sua beatificazione definendolo “un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna”.

Ma l’accusa di fondo che è stata rivolta al mio testo è un’altra: nel mio libro non distinguerei i testi del Concilio dal suo contesto storico, fondendo e unificando testi e contesto in unico evento. Con ciò assorbirei e fagociterei il testo nel contesto cadendo in una sorta di strutturalismo come, in ultima analisi, fa la scuola di Bologna.

Chi lancia questa accusa è però un lettore frettoloso o tendenzioso. Infatti io affermo esattamente il contrario di quanto mi si attribuisce. Non ho mai negato la distinzione logica tra testo e contesto. L’impossibilità di separarli non significa impossibilità di distinguerli. Nego la tesi della scuola di Bologna, secondo cui i testi vadano assorbiti nel contesto, ovvero nell’evento e spirito del Concilio. Sostengo invece che vanno ben distinti i testi dottrinali dal contesto storico del Concilio. I testi hanno una loro autonomia, una loro importanza, una loro dignità, ma vanno esaminati in quanto testi sul piano teologico. Non ho l’autorità né la competenza teologica per formulare questa valutazione teologica e mi rimetto al giudizio di un eminente ecclesiologo come mons. Brunero Gherardini, che fin dagli anni Settanta, il mio maestro universitario Augusto Del Noce ricordo definiva il migliore teologo romano.

Dove rivendico competenza è sul piano storico ed è sotto questo aspetto che studio un contesto comprensivo anche, necessariamente, dell’elaborazione dei testi. È sul piano storico, non sul piano teologico, che giudico il Concilio una Rivoluzione nella Chiesa e, per molti aspetti, un evento disastroso. Ed è invece sul piano teologico, e non su quello storico, che Benedetto XVI ci invita a seguire, in modo però non conclusivo né definitorio, l’ermeneutica della continuità.
Ermeneutica della continuità che, d’altra parte, può essere intesa in un solo modo: quello di leggere i documenti del Concilio alla luce del precedente Magistero della Chiesa, attraverso un metodo preciso: laddove si ravvisano ambiguità, incertezze, appunti di contraddizione, assumere come punto di riferimento la Tradizione.

I documenti promulgati dalle supreme autorità ecclesiastiche non hanno infatti, dal punto di vista teologico, il medesimo valore. Se Benedetto XVI esprime alcune opinioni in un’intervista, come è accaduto nel suo ultimo libro Luce del mondo, è evidente che esse vadano accolte con il massimo rispetto, perché chi parla è, comunque, il Vicario di Cristo. Ma è altrettanto evidente che tra un’intervista e la definizione di un dogma c’è una gradazione di autorità che non impegna, al medesimo livello, l’ossequio dei fedeli. Lo stesso può dirsi di un Concilio come il Vaticano II, che in quanto riunione solenne dei vescovi uniti al Papa, ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Il suo Magistero – come ha ben spiegato mons. Gherardini – è certamente solenne e supremo. Ma solo chi ignora la teologia potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a tutti i suoi insegnamenti.

Perché, se si volesse intendere capovolgere il metodo ed affermare che la continuità va letta assumendo come punto di riferimento non la Tradizione, ma il Concilio: se si volesse cioè leggere la Tradizione alla luce del Concilio e non viceversa, bisognerebbe attribuire al Concilio quel valore di infallibilità, che mai nessun testo del Concilio ha in sé, e allora bisognerebbe cercare l’infallibilità del Concilio nell’evento stesso, nel suo spirito, nell’impalpabile carisma che anima i testi senza tradursi in formule definitorie. Ma questa è esattamente la posizione della scuola di Bologna, non è certo quella di Benedetto XVI.

L’affermazione secondo cui il Concilio II va inteso in continuità con il Magistero della Chiesa presuppone infatti l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che necessitano una interpretazione. Per Benedetto XVI il criterio di interpretazione del passaggio dubbio non può che essere la Tradizione della Chiesa, come egli stesso ha più volte ribadito. Se si ammettesse invece che il Vaticano II fosse il criterio ermeneutico per rileggere la Tradizione, bisognerebbe attribuire, paradossalmente, forza interpretativa a ciò che ha bisogno di essere interpretato. Interpretare la Tradizione alla luce del Vaticano II, e non il contrario, sarebbe possibile solo se si accettasse la posizione di Alberigo, che attribuisce valore interpretativo non ai testi, ma allo “spirito” del Concilio. Tale non è però la posizione di Benedetto XVI, che critica l’ermeneutica della discontinuità, proprio per il primato che essa attribuisce allo spirito sui testi. O si ritiene, come mons. Gherardini, che le dottrine del Concilio non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili e dunque nemmeno vincolanti, oppure si assegna al Concilio un’autorità tale da oscurare le altre venti precedenti assisi della Chiesa, abrogandole o sostituendole tutte. Su quest’ultimo punto sembra non esserci differenza tra gli storici della scuola di Bologna e sociologi come Massimo Introvigne che sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano II.

D’altra parte, il lavoro storico è complementare a quello teologico e non dovrebbe preoccupare nessuno. Bisognerebbe rinunziare a scrivere la storia del Concilio Vaticano II in nome della “ermeneutica della continuità”? O lasciare che a scriverla sia solo la scuola di Bologna, che ha offerto contributi scientificamente pregevoli, ma ideologicamente tendenziosi? E se elementi di discontinuità dovessero emergere, sul piano storico, perché temere di portarli alla luce? Come negare una discontinuità, se non nei contenuti, nel nuovo linguaggio del Concilio Vaticano II? Un linguaggio fatto non solo di parole, ma anche di silenzi, di gesti e di omissioni, che possono rivelare le tendenze profonde di un evento più ancora del contenuto di un discorso. La storia dell’inspiegabile silenzio sul comunismo da parte di un Concilio che avrebbe dovuto occuparsi delle principali questioni del mondo è ad esempio un fatto clamoroso e catastrofico che allo storico non è lecito ignorare.

Sono anche stato criticato per aver stabilito una continuità tra Concilio e post-Concilio. Ma il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa e nella società.

Già all’indomani del Concilio l’orizzonte della Chiesa vedeva il crollo delle certezze dogmatiche; il relativismo della nuova morale permissiva; l’anarchia in campo disciplinare; le defezioni dal sacerdozio e l’allontanamento dalla pratica religiosa di milioni di fedeli; l’espulsione dalle chiese di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, ma soprattutto il crollo delle vocazioni e l’abbandono della vita religiosa. È lo storico gesuita Giacomo Martina a scriverlo, nel 1977. “Per la prima volta nella storia – scriveva – si è assistito all’abbandono del sacerdozio, pur con tutte le dispense necessarie, da parte di migliaia di preti, nel giro di pochi anni”.

Il bilancio complessivo del quarantennio postconciliare 1965-2005, riguardo alle perdite totali e percentuali dei principali istituti religiosi, sarà ancora più drammatico. Se i religiosi dei principali istituti maschili erano 329.799 nel 1965, nel 2005 ne restavano 214.913, circa un terzo erano venuti meno nei 40 anni di post-concilio.

Come negare l’esistenza di una profonda crisi della Chiesa post-conciliare più volte ammessa dallo stesso Paolo VI, da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI? Ogni evento però ha una causa proporzionata. Possibile che il Concilio Vaticano II fosse estraneo alla crisi del post-Concilio e che la cattiva interpretazione dei testi possa essere considerata una causa proporzionata per spiegare ciò che seguì? Si può davvero separare la Rivoluzione postconciliare dal Concilio?

Voglio ricordare solo un episodio, quando nel 1968 Paolo VI fu apertamente contestato dal cardinale Suenens per la promulgazione della enciclica Humanae Vitae. Ma chi era il cardinale Suenens?

Era il prelato a cui Paolo VI aveva concesso un privilegio senza precedenti, quando il 23 giugno 1963, pochi giorni dopo la sua elezione, lo aveva voluto accanto a sé, alla finestra del Palazzo apostolico, presentandolo alla folla riunita in San Pietro per l’Angelus. Era il giovane cardinale di Bruxelles che all’indomani della sua elevazione alla porpora era accorso a Roma per suggerire a Giovanni XXIII di dare un’impronta pastorale al Concilio. Era l’uomo che fin dall’inizio aveva stabilito un patto di ferro con mons. Helder Câmara, vescovo ausiliario di Rio, poi vescovo rosso di Recife, che si rivolgeva a lui, con un codice cifrato, chiamandolo “padre Miguel”. Era l’uomo prescelto per guidare i quattro “moderatori” del Concilio: una posizione chiave che avrebbe assunto per tre anni. Era l’uomo che già in Concilio, il 19 ottobre 1964, aveva sollevato il problema del controllo delle nascite, pronunciando in piena basilica di San Pietro, con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”. Nessuno più di lui aveva vissuto il Concilio da protagonista. Il cardinale Suenens, ribelle a Paolo VI e alla Chiesa nel 1968, era un uomo diverso da quello che tre anni prima, aveva intonato il canto della vittoria alla chiusura del Concilio? Aveva cambiato la sua mentalità, aveva distorto i documenti del Concilio, ne aveva male interpretato lo spirito? Suenens non aveva bisogno di forzare o distorcere i documenti del Concilio perché Suenens, come Frings, Alfrink, Bea e tanti altri, era il Concilio.

Il nesso tra Concilio e post-Concilio non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965 e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978, e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese.

La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. Ancora oggi viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”.

La sua missione, come affermava Pio XII, non può svolgersi ed adempiersi con la benedizione del cielo se non sotto la divisa terrena non metuit! È sotto questa divisa che, seguendo le indicazioni del Santo Padre Benedetto XVI, tutti noi, sacerdoti e laici, dobbiamo assumerci l’impegno, di aprire coraggiosamente nuove strade, di tornare ad essere il sale del mondo.

Io credo che uno dei primi nostri compiti sia oggi quello di rinnovare l’immagine della Chiesa, abbandonando ogni forma di cattiva pastorale. Se infatti una dottrina ha il suo criterio di giudizio ultimo nella verità che essa esprime – una dottrina è buona e giusta se è vera – il metodo pastorale ha il suo criterio di verifica nei risultati che raggiunge: un metodo pastorale è buono e giusto se funziona, se ottiene i risultati previsti. Ciò non fu il caso del Concilio Vaticano II, che si auto qualificò pastorale, ma proprio sul piano pastorale fu contraddetto dai fatti. Molti teologi vollero trasporre il primato marxista della prassi nel primato religioso del pastorale sul dottrinale, ma entrambi i metodi furono condannati dal tribunale immanentistico a cui si appellavano: quello della storia.

Rinnovare la pastorale significa abbandonare il linguaggio sociologico, piegato alle esigenze del mondo e ritrovare il linguaggio perenne e universale della Chiesa, quello che parla alla mente e al cuore degli uomini attraverso la chiarezza della dottrina e la bellezza della verità; significa ritrovare il senso di una Chiesa militante, di una Chiesa che combatte perché vive nella storia, vive nella storia perché è un Corpo gerarchico e visibile, ma nella storia combatte per un fine che è soprannaturale e non terreno, perché il suo Corpo è Mistico, e ha in Gesù Cristo, unica via, verità e vita, il suo Capo e fondatore.

Nel 1953 Papa Pacelli invitava i giovani di Azione Cattolica a combattere contro i nemici della Chiesa, che muovono ad essa “una guerra terribile, con perfida strategia e subdola tattica”. “Muoiono gli uomini, anche quelli che sembrano immortali; crollano le umane istituzioni; si succedono gli uni agli altri, i più impensati tramonti. E a ogni alba nuova la Chiesa assiste serena ed è baciata dal sorgere di ogni nuovo sole”.

Riserva

Dove va la Chiesa?

In queste ore drammatiche ci chiediamo: dove va la Chiesa e, ancora più profondamente, dove è la Chiesa? Non la Chiesa invisibile dei docetisti, degli hussiti, o dei modernisti, ma il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa cattolica, apostolica, romana, riconoscibile dalle sue note visibili.

Ebbene mai come oggi è attuale la intramontabile definizione di san Roberto Bellarmino, che dice: la Chiesa è la comunità dei fedeli uniti dagli stessi sacramenti e dalla stessa fede, sotto la guida degli stessi pastori.

Questa e non altra è Chiesa e questa stessa definizione la ritroviamo nelle parole che il Divino Fondatore della Chiesa, Nostro Signore Gesù Cristo, rivolge ai nostri cuori, invitandoci a seguirlo.
Io – ci dice il Signore con parole forti, dolci, esclusive – sono la via, la verità, la vita”. Potrebbe apparire che di questi attributi il più importante sia la verità: Ego sum veritas. La Chiesa, certo è dove è la verità, secondo la formula di san Vincenzo di Lerins, quella di cui non si può cedere neppure uno iota, quella che è racchiusa nella Tradizione Cristo è verità. Ma questa verità non è astratta come il logos greco, è vivificata dalla Grazia, e la fonte di ogni Grazia che fluisce attraverso i sacramenti è Cristo stesso. La Chiesa è dove sono i suoi sacramenti.

I sacramenti della Chiesa sono la fonte della nostra vita spirituale e questa vita spirituale ha la sua fonte in Cristo stesso. Ma la dottrina e la vita, la fede e i sacramenti non bastano, se non c’è una via da seguire. E nella Chiesa questa via la tracciano i legittimi pastori, che seguono a loro volta il Papa, successore di Pietro, Vicario di Cristo in terra.

La nota della apostolicità ci garantisce questa legittimità dei pastori, che ha la sua fonte ultima nel Buon Pastore per eccellenza, unica via.

Dove è la legittima gerarchia, dove è la vera fede, dove è la santità dei sacramenti, lì è la Chiesa. Cercando questi punti di riferimento, nulla abbiamo da temere perché dove troviamo la Chiesa una nella fede, santa nelle sue opere, e apostolica nella sua gerarchia lì troviamo Gesù stesso, via, verità e vita.

Tramite: Non possumus

Fellay: "La FSSPX è più vicina al Papa di quanto sembri"



Intervista rilasciata il 27 dicembre dal Superiore generale della Fraternità S. Pio X in Nuova Caledonia, al giornale Nouvelles Caledoniennes.


[..]
- La fraternità S. Pio X si qualifica tradizionalista quando la si accusa di fondamentalismo. Voi vi opponete tuttavia a tutti gli avanzamenti progressisti della Chiesa dal 1962...
La nostra situazione è controversa, ma è anche legata a ciò che accade nella Chiesa Cattolica. La vita della Chiesa è cambiata con il concilio [Vaticano II]. E il bilancio è devastante. È diminuita la quantità di sacerdoti e suore. C'è una perdita di vitalità religiosa diffusa. Si deve fare qualcosa per ripristinare la situazione. La totale libertà demolisce la società. Gli uomini hanno bisogno di un aiuto speciale per conoscere il cammino di Dio e la salvezza delle anime. Del resto, il Papa è tornato a idee tradizionali. Egli vede molto bene che c'è una deviazione che si deve correggere. Siamo forse molto più vicini al Papa di quanto sembri.

- Siete stati sorpresi da Benedetto XVI che ha detto di tollerare l’uso del preservativo, in casi eccezionali, per combattere l'AIDS?
Sono stato un po' deluso dal libro. Ma io sono molto soddisfatto del cambiamento intervenuto dopo: è chiaro che Roma vuole chiarire la questione del preservativo che ha creato confusione. Il preservativo non è il modo per risolvere questo problema di salute. Va contro la natura dell'atto di matrimonio, perché impedisce il normale risultato di tale atto. La famiglia è molto importante. L'atto deve essere fatto nel matrimonio. C'è una disciplina da rispettare che aveva molto valore in passato, e che oggi è disprezzata.
.
- Vi accorgete di essere controcorrente rispetto all'evoluzione della società?
Sì, me ne rendo ben conto. Ma non mi imbarazza. A volte dico persino che ci prendono per dei Marziani. Ma non siamo marziani.

- Lo scopo della vostra comunità è sempre di far parte della Chiesa cattolica?
Sì, abbiamo sempre sostenuto che non vogliamo fare banda a parte. Manteniamo che siamo cattolici e lo restiamo. Ci auguriamo che Roma ci riconosca come veri vescovi. D’altronde, non si usa più la parola ‘scismatici’ contro di noi. Quindi se non siamo scismatici né eretici, significa che siamo chiaramente cattolici. Il Papa ha detto che c'è solo un problema di ordine canonico. Basta un atto di Roma per dire che è finito e che noi rientriamo nella Chiesa. Ci si arriverà. Sono molto ottimista. [molto interessante. Dunque si prefigura un atto unilaterale del Papa per risolvere la situazione canonica, indipendentemente dallo svolgimento dei complessi colloqui dottrinali in corso?]

- Accettereste allora le decisioni del Vaticano II?
No, non in questo modo. Chiediamo che vengano dissipate le grandi ambiguità del Vaticano II.

- Che cos’è che chiamate le grandi ambiguità?
In primo luogo, la libertà religiosa: che cosa significa che ogni uomo ha il diritto di scegliere la sua religione? No, il buon Dio ne ha fondata una sola. Poi, l'ecumenismo: è possibile che un uomo si possa salvare in altre religioni diverse dalla cattolica? No, c'è solo la Chiesa che Salva.

- Tuttavia diverse religioni esistono nel mondo. Quale legittimità avete per negarle?
Vedo che esistono, ma non arrivano a produrre gli effetti della religione cattolica. Per affermarlo, ci si appoggia su quanto dice la Chiesa antica. L'approccio della Chiesa è bene spiegato nel Vaticano I. Ci sono un sacco di segni esteriori che permettono di riconoscere che la religione cattolica è la vera. È una scienza che si impara. L’ideale sarebbe naturalmente di dimostrare l'esistenza di Dio. Ci si avvicina.

mercoledì 29 dicembre 2010

Catechesi del Papa: Santa Caterina da Bologna



L’UDIENZA GENERALE, 29.12.2010


CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla figura di Santa Caterina da Bologna (1413-1463).
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica
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Santa Caterina da Bologna

Cari fratelli e sorelle,

in una recente catechesi ho parlato di santa Caterina da Siena. Oggi vorrei presentarvi un’altra Santa, meno conosciuta, che porta lo stesso nome: santa Caterina da Bologna, donna di vasta cultura, ma molto umile; dedita alla preghiera, ma sempre pronta a servire; generosa nel sacrificio, ma colma di gioia nell’accogliere con Cristo la croce.

Nasce a Bologna l'8 settembre 1413, primogenita di Benvenuta Mammolini e di Giovanni de’ Vigri, patrizio ferrarese ricco e colto, Dottore in Legge e pubblico Lettore a Padova, dove svolgeva attività diplomatica per Niccolò III d'Este, marchese di Ferrara. Le notizie sull’infanzia e la fanciullezza di Caterina sono scarse e non tutte sicure. Da bambina vive a Bologna, nella casa dei nonni; qui viene educata dai parenti, soprattutto dalla mamma, donna di grande fede. Si trasferisce con lei a Ferrara quando aveva circa dieci anni ed entra alla corte di Niccolò III d’Este come damigella d’onore di Margherita, figlia naturale di Niccolò. Il marchese sta trasformando Ferrara in una splendida città, chiamando artisti e letterati di vari Paesi. Promuove la cultura e, benché conduca una vita privata non esemplare, cura molto il bene spirituale, la condotta morale e l’educazione dei sudditi.

A Ferrara Caterina non risente degli aspetti negativi, che comportava spesso la vita di corte; gode dell'amicizia di Margherita e ne diventa la confidente; arricchisce la sua cultura: studia musica, pittura, danza; impara a poetare, a scrivere composizioni letterarie, a suonare la viola; diventa esperta nell’arte della miniatura e della copiatura; perfeziona lo studio del latino. Nella vita monastica futura valorizzerà molto il patrimonio culturale e artistico acquisito in questi anni. Apprende con facilità, con passione e con tenacia; mostra grande prudenza, singolare modestia, grazia e gentilezza nel comportamento. Una nota, comunque, la contraddistingue in modo assolutamente chiaro: il suo spirito costantemente rivolto alle cose del Cielo. Nel 1427, a soli quattordici anni, anche in seguito ad alcuni eventi familiari, Caterina decide di lasciare la corte, per unirsi a un gruppo di giovani donne provenienti da famiglie gentilizie che facevano vita comune, consacrandosi a Dio. La madre, con fede, acconsente, benché avesse altri progetti su di lei.

Non conosciamo il cammino spirituale di Caterina prima di questa scelta. Parlando in terza persona, ella afferma che è entrata al servizio di Dio “illuminata dalla grazia divina […] con retta coscienza e grande fervore”, sollecita notte e giorno alla santa orazione, impegnandosi a conquistare tutte le virtù che vedeva in altri, “non per invidia, ma per piacere di più a Dio in cui aveva posto tutto il suo amore” (Le sette armi spirituali, VII, 8, Bologna 1998, p. 12). Notevoli sono i suoi progressi spirituali in questa nuova fase della vita, ma grandi e terribili sono pure le prove, le sofferenze interiori, soprattutto le tentazioni del demonio. Attraversa una profonda crisi spirituale fino alle soglie della disperazione (cfr ibid., VII, p. 12-29). Vive nella notte dello spirito, percossa pure dalla tentazione dell’incredulità verso l’Eucaristia. Dopo tanto patire, il Signore la consola: in una visione le dona la chiara conoscenza della presenza reale eucaristica, una conoscenza così luminosa che Caterina non riesce ad esprimere con le parole (cfr ibid., VIII, 2, p. 42-46). Nello stesso periodo una prova dolorosa si abbatte sulla comunità: sorgono tensioni tra chi vuole seguire la spiritualità agostiniana e chi è più orientata verso la spiritualità francescana.

Tra il 1429 e il 1430 la responsabile del gruppo, Lucia Mascheroni, decide di fondare un monastero agostiniano. Caterina, invece, con altre, sceglie di legarsi alla regola di santa Chiara d’Assisi.

E’ un dono della Provvidenza, perché la comunità abita nei pressi della chiesa di Santo Spirito annessa al convento dei Frati Minori che hanno aderito al movimento dell'Osservanza. Caterina e le compagne possono così partecipare regolarmente alle celebrazioni liturgiche e ricevere un’adeguata assistenza spirituale. Hanno pure la gioia di ascoltare la predicazione di san Bernardino da Siena (cfr ibid., VII, 62, p. 26). Caterina narra che, nel 1429 - terzo anno dalla sua conversione - va a confessarsi da uno dei Frati Minori da lei stimati, compie una buona Confessione e prega intensamente il Signore di donarle il perdono di tutti i peccati e della pena ad essi connessa. Dio le rivela in visione di averle perdonato tutto. È un’esperienza molto forte della misericordia divina, che la segna per sempre, dandole nuovo slancio nel rispondere con generosità all’immenso amore di Dio (cfr ibid., IX, 2, p. 46-48).

Nel 1431 ha una visione del giudizio finale. La terrificante scena dei dannati la spinge a intensificare preghiere e penitenze per la salvezza dei peccatori. Il demonio continua ad assalirla ed ella si affida in modo sempre più totale al Signore e alla Vergine Maria (cfr. ibid., X, 3, p. 53-54). Negli scritti, Caterina ci lascia alcune note essenziali di questo misterioso combattimento, da cui esce vittoriosa con la grazia di Dio. Lo fa per istruire le sue consorelle e coloro che intendono incamminarsi nella via della perfezione: vuole mettere in guardia dalle tentazioni del demonio, che si nasconde spesso sotto sembianze ingannatrici, per poi insinuare dubbi di fede, incertezze vocazionali, sensualità.

Nel trattato autobiografico e didascalico, Le sette armi spirituali, Caterina offre, al riguardo, insegnamenti di grande saggezza e di profondo discernimento. Parla in terza persona nel riportare le grazie straordinarie che il Signore le dona e in prima persona nel confessare i propri peccati. Dal suo scritto traspare la purezza della sua fede in Dio, la profonda umiltà, la semplicità di cuore, l’ardore missionario, la passione per la salvezza delle anime.

Individua sette armi nella lotta contro il male, contro il diavolo: 1. avere cura e sollecitudine nell'operare sempre il bene; 2. credere che da soli non potremo mai fare qualcosa di veramente buono; 3. confidare in Dio e, per amore suo, non temere mai la battaglia contro il male, sia nel mondo, sia in noi stessi; 4. meditare spesso gli eventi e le parole della vita di Gesù, soprattutto la sua passione e morte; 5. ricordarsi che dobbiamo morire; 6. avere fissa nella mente la memoria dei beni del Paradiso; 7. avere familiarità con la Santa Scrittura, portandola sempre nel cuore perché orienti tutti i pensieri e tutte le azioni. Un bel programma di vita spirituale, anche oggi, per ognuno di noi!

In convento, Caterina, nonostante fosse abituata alla corte ferrarese, svolge mansioni di lavandaia, cucitrice, fornaia, ed è addetta alla cura degli animali. Compie tutto, anche i servizi più umili, con amore e con pronta obbedienza, offrendo alle consorelle una testimonianza luminosa.

Ella vede, infatti, nella disobbedienza quell’orgoglio spirituale che distrugge ogni altra virtù. Per obbedienza accetta l’ufficio di maestra delle novizie, nonostante si ritenga incapace di svolgere l’incarico, e Dio continua ad animarla con la sua presenza e i suoi doni: è, infatti, una maestra saggia e apprezzata.

In seguito le viene affidato il servizio del parlatorio. Le costa molto interrompere spesso la preghiera per rispondere alle persone che si presentano alla grata del monastero, ma anche questa volta il Signore non manca di visitarla ed esserle vicino. Con lei il monastero è sempre più un luogo di preghiera, di offerta, di silenzio, di fatica e di gioia. Alla morte dell'abbadessa, i superiori pensano subito a lei, ma Caterina li spinge a rivolgersi alle Clarisse di Mantova, più istruite nelle costituzioni e nelle osservanze religiose. Pochi anni dopo, però, nel 1456, al suo monastero è richiesto di creare una nuova fondazione a Bologna. Caterina preferirebbe terminare i suoi giorni a Ferrara, ma il Signore le appare e la esorta a compiere la volontà di Dio andando a Bologna come abbadessa. Si prepara al nuovo impegno con digiuni, discipline e penitenze. Si reca a Bologna con diciotto consorelle. Da superiora è la prima nella preghiera e nel servizio; vive in profonda umiltà e povertà. Allo scadere del triennio di abbadessa è felice di essere sostituita, ma dopo un anno deve riprendere le sue funzioni, perché la nuova eletta è diventata cieca. Sebbene sofferente e con gravi infermità che la tormentano, svolge il suo servizio con generosità e dedizione.

Ancora per un anno esorta le consorelle alla vita evangelica, alla pazienza e alla costanza nelle prove, all’amore fraterno, all'unione con lo Sposo divino, Gesù, per preparare, così, la propria dote per le nozze eterne. Una dote che Caterina vede nel saper condividere le sofferenze di Cristo, affrontando, con serenità, disagi, angustie, disprezzo, incomprensione (cfr Le sette armi spirituali, X, 20, p. 57-58). All’inizio del 1463 le infermità si aggravano; riunisce le consorelle un’ultima volta nel Capitolo, per annunciare loro la sua morte e raccomandare l'osservanza della regola. Verso la fine di febbraio è colta da forti sofferenze che non la lasceranno più, ma è lei a confortare le consorelle nel dolore, assicurandole del suo aiuto anche dal Cielo. Dopo aver ricevuto gli ultimi Sacramenti, consegna al confessore lo scritto Le sette armi spirituali ed entra in agonia; il suo viso si fa bello e luminoso; guarda ancora con amore quante la circondano e spira dolcemente, pronunciando tre volte il nome di Gesù: è il 9 marzo 1463 (cfr I. Bembo, Specchio di illuminazione. Vita di S. Caterina a Bologna, Firenze 2001, cap. III). Caterina sarà canonizzata dal Papa Clemente XI il 22 maggio 1712. La città di Bologna, nella cappella del monastero del Corpus Domini, custodisce il suo corpo incorrotto.

Cari amici, santa Caterina da Bologna, con le sue parole e con la sua vita, è un forte invito a lasciarci guidare sempre da Dio, a compiere quotidianamente la sua volontà, anche se spesso non corrisponde ai nostri progetti, a confidare nella sua Provvidenza che mai ci lascia soli. In questa prospettiva, santa Caterina parla con noi; dalla distanza di tanti secoli, è, tuttavia, molto moderna e parla alla nostra vita.

Come noi soffre la tentazione, soffre le tentazioni dell'incredulità, della sensualità, di un combattimento difficile, spirituale. Si sente abbandonata da Dio, si trova nel buio della fede. Ma in tutte queste situazioni tiene sempre la mano del Signore, non Lo lascia, non Lo abbandona. E camminando con la mano nella mano del Signore, va sulla via giusta e trova la via della luce. Così, dice anche a noi: coraggio, anche nella notte della fede, anche in tanti dubbi che ci possono essere, non lasciare la mano del Signore, cammina con la tua mano nella sua mano, credi nella bontà di Dio; così è andare sulla via giusta!

E vorrei sottolineare un altro aspetto, quello della sua grande umiltà: è una persona che non vuole essere qualcuno o qualcosa; non vuole apparire; non vuole governare. Vuole servire, fare la volontà di Dio, essere al servizio degli altri. E proprio per questo Caterina era credibile nell’autorità, perché si poteva vedere che per lei l'autorità era esattamente servire gli altri. Chiediamo a Dio, per l’intercessione della nostra Santa il dono di realizzare il progetto che Egli ha su di noi, con coraggio e generosità, perché solo Lui sia la salda roccia su cui si edifica la nostra vita. Grazie.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

ARCHEOLOGITE LITURGICA - SACRILEGIO DILAGANTE...


 
San Cirillo di Gerusalemme e la Comunione sulla mano
[A proposito della questione relativa alla cosiddetta "Comunione sulla mano", 
riproduciamo un articolo del R. P. Giuseppe Pace, S. B. D., 
pubblicato nel n° di gennaio 1990 del periodico Chiesa Viva
(Editrice Civiltà, via Galileo Galilei, 121, 25123 Brescia).]

Ancora sulla prassi sacrilega della Comunione sulle mani nella Chiesa conciliare...




La ghianda è una quercia in potenza; la quercia è una ghianda divenuta perfetta. Il ritornare ghianda per una quercia, posto che lo potesse senza morire, sarebbe un regredire. Per questo nella Mediator Dei (n. 51) Pio XII condannava l'archeologismo liturgico come antiliturgico con queste parole: «… non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi, ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l'eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall'illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono, con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del Depositum Fidei affidatole dal suo divin Fondatore, a buon diritto condannò».
Di una tale ossessione morbosa - di archeologite - sono preda quei pseudoliturgisti che stanno desolando la Chiesa in nome del Concilio Vaticano II; pseudoliturgisti che talora giungono al punto di spingere con l'esortazione e con l'esempio i loro sudditi a violare quelle poche leggi sane che ancora sopravvivono, e da loro stessi formalmente promulgate o confermate.
Sintomatico a questo riguardo è il caso del rito della Santa Comunione. Qualche vescovo infatti, dopo aver proclamato che il rito tradizionale, di collocare le sacre Specie sulle labbra del comunicando, è tuttora in vigore, permette tuttavia che si distribuisca la santa Comunione in cestelli che si passano i fedeli dalla mano dell'uno a quella dell'altro; o lui stesso depone le sacre Specie nelle mani nude - e sempre pulite? - del comunicando. Se si vuole convincere i fedeli che la santissima Eucarestia non è che del pane comune, magari anche benedetto, per una refezioncella simbolica, certo si è imbroccata la via piú diretta: quella del sacrilegio.
I fautori della Comunione in mano fanno appello a quell'archeologismo pseduoliturgico condannato apertis verbis da Pio XII. Dicono infatti e ripetono che in tal modo la si deve ricevere, perché in tal modo si è fatto in tutta la Chiesa, sia in Oriente che in Occidente dalle origini in poi per mille anni.
È vero e certo che dalle origini in poi per quasi duemila anni i comunicandi dovevano astenersi da qualsiasi cibo e bevanda, dalla vigilia fino al momento della santa Comunione, in preparazione alla medesima. Perché quelli dell'archeologite non restaurano un tale digiuno eucaristico? che certamente contribuirebbe non poco a mantenere vivo nella mente dei comunicandi il pensiero della santa Comunione imminente, e a disporveli meglio.
È invece certamente falso che dalle origini in poi per mille anni ci sia stata in tutta la Chiesa, in Oriente e in Occidente, la consuetudine di deporre le sacre Specie nelle mani del fedele.
Il cavallo di battaglia di quei pesudoliturgisti è il seguente brano delle Catechesi mistagogiche attribuite a san Cirillo di Gerusalemme: 
«Adiens igitur, ne expansis manuum volis, neque disiunctis digitis accede; sed sinistram velut thronum subiiciens, utpote Regem suscepturæ: et concava manu suscipe corpus Christi, respondens Amen». (Andando quindi [alla Comunione] accostati non con le palme delle mani aperte, né con le dita disgiunte; ma tenendo la sinistra a guisa di trono sotto a quella che sta per accogliere il Re; e con la destra concava ricevi il corpo del Cristo, rispondendo Amen).
Giunti a questo Amen, si fermano; ma le Catechesi mistagogiche non si fermano lí, ed aggiungono: 
«Postquam autem caute oculos tuos sancti corporis contactu santificaveris, illud percipe… Tum vero post communionem corporis Christi, accede et ad sanguinis poculum: non extendens manus; sed pronus [in greco: 'allà kùpton, che il Bellarmino traduce genu flexo], et adorationis ac venerationis in modum, dicens Amen, sancticeris, ex sanguine Christi quoque sumens. Et cum adhuc labiis tuis adbaeret ex eo mador, manibus attingens, et oculos et frontem et reliquos sensus sanctifica… A communione ne vos abscindite; neque propter peccatorum inquinamentum sacris istis et spiritualibus defraudate mysteriis». (Dopo che tu con cautela abbia santificato i tuoi occhi mettendoli a contatto con il corpo del Cristo, accostati anche al calice del sangue: non tenendo le mani distese; ma prono e in modo da esprimere sensi di adorazione e venerazione, dicendo Amen, ti santificherai, prendendo anche del sangue del Cristo. E mentre hai ancora le labbra inumidite da quello, toccati le mani, e poi con esse santifica i tuoi occhi, la fronte e tutti gli altri sensi… Dalla comunione non staccatevi; né privatevi di questi sacri e spirituali misteri neppure se inquinati dai peccati). (P. G. XXXIII, coll. 1123-1126).
Chi potrà sostenere che un tale rito fosse sia pure un po' meno che per mille anni consueto nella Chiesa universale? E come conciliare un tale rito, secondo il quale è ammesso alla santa Comunione anche chi è inquinato di peccati, con la consuetudine certamente universale sin dalle origini che proibiva la santa Comunione a chi non era santo?: «Itaque quicumque manducaverit panem hunc, vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini. Probet autem seipsum homo: et sic de pane illo edat, et de calice bibat. Qui enim manducat et bibit indigne, indicum, sibi manducat et bibit non diiudicans corpus Domini». (Perciò chiunque abbia mangiato di questo pane e bevuto del calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Si esamini dunque ognuno: e cosí [trovatosi senza peccati gravi] di quel pane si cibi e di quel calice beva. Colui infatti che ne mangia e ne beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non discernendo il corpo del Signore ). (I Corinti, 11, 27-29).
Un tal stravangante rito della Santa Comunione, la cui descrizione si conchiude con l'esortazione di fare la santa Comunione anche se inquinati di peccati, non fu certo predicato da San Cirillo nella Chiesa di Gerusalemme, né poté essere lecito in qualsivoglia altra Chiesa. Si tratta infatti di un rito dovuto alla fantasia, oscillante tra il fanatismo e il sacrilego, dell'autore delle Costituzioni Apostoliche: un anonimo Siriano, divoratore di libri, scrittore instancabile, che riversa nei suoi scritti, indigerite e contaminate dai parti della sua fantasia, gran parte di quelle sue stesse letture; che al libro VIII di dette Costituzioni apostoliche, aggiunge, attribuendo a san Clemente Papa, 85 Canoni degli Apostoli; canoni che Papa Gelasio I, nel Concilio di Roma del 494, dichiarò apocrifi: «Liber qui appellatur Canones Apostolorum, apocryfus (P. L., LIX, col. 163).
La descrizione di quel rito stravagante, se non necessariamente sempre sacrilego, entrò nelle Catechesi mistagogiche per opera di un successore di san Cirillo, che i piú ritengono sia il vescovo Giovanni, cripto-ariano, origeniano e pelagiano; e perciò contestato da sant'Epifanio, da san Gerolamo e sant'Agostino.
Come può il Leclercq affermare che: «… nous devons y voir [in detto rito stravagante] une exacte représentation de l'usage des grandes Eglises de Syrie»? Non lo può affermare che contraddicendosi, dato che poco prima afferma trattarsi di: «… une liturgie de fantasie. Elle ne procède et elle n'est destinée qu'à distraire son auteur; ce n'est pas une liturgie normale, officielle, appartenant à une Eglise déterminée» (Dictionaire de Archeologie chretienne et de Liturgie, vol. III, parte II, col. 2749-2750).
Abbiamo invece delle testimonianze certe della consuetudine contraria, e cioè della consuetudine di deporre le sacre Specie sulle labbra del comunicando, e della proibizione ai laici di toccare dette sacre Specie con le proprie mani. Solo in caso di necessità e in tempo di persecuzione, ci assicura san Basilio, si poteva derogare da detta norma, ed era concesso ai laici di comunicarsi con le proprie mani (P. G., XXXII, coll. 483-486).
Non intendiamo, è chiaro, passare in rassegna tutte le testimonianze invocate a dimostrare che nell'antichità vigeva la consuetudine di deporre le sacre Specie sulle labbra del comunicando laico; ne indichiamo solo alcune sintomatiche, e peraltro sufficienti a smentire quanti affermano che per mille anni nella Chiesa universale, sia d'Oriente che d'Occidente, fu consuetudine deporre le sacre Specie nelle mani dei laici. 
Sant'Eutichiano, Papa dal 275 al 283, a che non abbiano a toccarle con le mani, proibisce ai laici di portare le sacre Specie agli ammalati: «Nullus præsumat tradere communionem laico vel femminæ ad deferendum infirmo» (Nessuno osi consegnare la comunione ad un laico o ad una donna per portarla ad un infermo) (P. L., V, coll. 163-168). 
San Gregorio Magno narra che sant'Agapito, Papa dal 535 al 536, durante i pochi mesi del suo pontificato, recatosi a Costantinopoli, guarí un sordomuto all'atto in cui «ei dominicum Corpus in os mitteret» (gli metteva in bocca il Corpo del Signore) (Dialoghi, III, 3). 
Questo per l'Oriente; e per l'Occidente, si sa ed è indubitabile che lo stesso san Gregorio Magno amministrava in tal modo la santa Comunione ai laici.
Già prima il Concilio di Saragozza, nel 380, aveva lanciato la scomunica contro coloro che si fossero permessi di trattare la santissima Eucarestia come se si fosse in tempo di persecuzione, tempo nel quale anche i laici potevano trovarsi nella necessità di toccarla con le proprie mani (SAENZ DE AGUIRRE, Notitia Conciliorum Hispaniæ, Salamanca, 1686, pag. 495).
Innovatori indisciplinati non mancavano certo neppure anticamente. Il che indusse l'autorità ecclesiastica a richiamarli all'ordine. Cosí fece il Concilio di Rouen, verso il 650, proibendo al ministro dell'Eucarestia di deporre le sacre Specie sulla mano del comunicando laico: «[Presbyter] illud etiam attendat ut eos [fideles] propria manu communicet, nulli autem laico aut fœminæ Eucharistiam in manibus ponat, sed tantum in os eius cum his verbis ponat: "Corpus Domini et sanguis prosit tibi in remissionem peccatorum et ad vitam æternam". Si quis hæc transgressus fuerit, quia Deum omnipotentem comtemnit, et quantum in ipso est inhonorat, ab altari removeatur» ([Il presbitero] baderà anche a questo: a comunicare [i fedeli] di propria mano; a nessun laico o donna deponga l'Eucarestia nelle mani, ma solo sulle labbra, con queste parole: "Il corpo e il sangue del Signore ti giovino per la remissione dei peccati e per la vita eterna". Chiunque avrà trasgredito tali norme, disprezzato quindi Iddio onnipotente e per quanto sta in lui lo avrà disonorato, venga rimosso dall'altare). (Mansi, vol. X, coll. 1099-1100).
Per contro gli Ariani, per dimostrare che non credevano nella divinità di Gesú, e che ritenevano l'Eucarestia come pane puramente simbolico, si comunicavano stando in piedi e toccando con le proprie mani le sacre Specie. Non per nulla sant'Atanasio poté parlare dell'apostasia ariana (P. G., vol. XXIV, col. 9 ss.).
Non si nega che sia stato permesso ai laici di toccare talora le sacre Specie, in certi casi particolari, o anche in alcune Chiese particolari, per qualche tempo. Ma si nega che tale sia stata la consuetudine della Chiesa sia in Oriente che in Occidente per mille anni; e piú falso ancor affermare che si dovrebbe fare cosí tuttora. Anche nel culto dovuto alla santissima Eucarestia è avvenuto un sapiente progresso, analogo a quello avvenuto nel campo dogmatico (con il quale non ha nulla a che fare la teologia modernista della morte di Dio).
Detto progresso liturgico rese universale l'uso di inginocchiarsi in atto di adorazione, e quindi l'uso dell'inginocchiatoio; l'uso di coprire la balaustra di candida tovaglia, l'uso della patena, talora anche di una torcia accesa; e poi la pratica di fare almeno un quarto d'ora di ringraziamento personale. Abolire tutto ciò non è incrementare il culto dovuto a Dio nella santissima Eucarestia, e la fede e la santificazione dei fedeli, ma è servire il demonio.
Quando san Tommaso (Summa Theologica, III, q. 82, a 3) espone i motivi che vietano ai laici di toccare le sacre Specie, non parla di un rito di recente invenzione, ma di una consuetudine liturgica antica come la Chiesa. Ben a ragione il Concilio di Trento non solo poté affermare che nella Chiesa di Dio fu consuetudine costante che i laici ricevevano la Comunione dai sacerdoti, mentre i sacerdoti si comunicavano da sé; ma addirittura che tale consuetudine è di origine apostolica (Denzinger, 881). Ecco perché la troviamo prescritta nel Catechismo di san Pio X (Questioni 642-645). Ora tale norma non è stata abrogata: nel Nuovo Messale Romano, all'articolo 117, si legge che il comunicando tenens patenam sub ore, sacramentum accipit (tenendo la patena sotto la bocca, prenda il sacramento).
Dopo di che non si riesce a capire come mai gli stessi promulgatori di tanto sapiente norma, ne vadano dispensando le diocesi una dopo l'altra. Il semplice fedele di fronte a tanta incoerenza, non può che concepire una grande indifferenza nei riguardi delle leggi ecclesiastiche liturgiche e non liturgiche.

Fonte: Non Possumus