Mentre si apre oggi a Roma il convegno sul Vaticano II organizzato dai Francescani dell'Immacolata, il prof. de Mattei, il cui recente saggio sarà presentato nel corso dei lavori, ci ha cortesemente inviato un suo articolo, apparso su Libero del 12 scorso e titolato: "La primavera mancata della Chiesa". Lo scritto è anche una diretta replica alle osservazioni critiche di Introvigne che abbiamo riportato ieri.
Sono passati quarantacinque anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, il ventunesimo nella storia della Chiesa, ma i problemi da esso sollevati sono ancora vivi e attuali. Un primo problema di cui si discute è quello del rapporto tra la “lettera” (i testi) e lo “spirito” del Concilio, rispettivamente contrapposti tra le due scuole della continuità e della discontinuità. Il confronto rischia però di ridursi a un dialogo tra sordi. I documenti promulgati dalle supreme autorità ecclesiastiche non hanno infatti, dal punto di vista teologico, il medesimo valore. Se Benedetto XVI esprime alcune opinioni in un’intervista, come è accaduto nel suo ultimo libro Luce del mondo, è evidente che esse vadano accolte con il massimo rispetto, perché chi parla è, comunque, il Vicario di Cristo. Ma è altrettanto evidente che tra un’intervista e la definizione di un dogma c’è una gradazione di autorità che non impegna, al medesimo livello, l’ossequio dei fedeli. Lo stesso può dirsi di un Concilio come il Vaticano II, che in quanto riunione solenne dei vescovi uniti al Papa, ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Ma solo chi ignora la teologia potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a questi insegnamenti.
Se un Concilio ha l’autorità che il Papa che lo convoca e lo dirige gli vuole attribuire, tutti i pronunciamenti di Giovanni XXIII e di Paolo VI, prima, durante e dopo il Vaticano II, ne sottolineano la dimensione non dogmatica, ma pastorale. Lo stesso intento pastorale e non definitorio gli attribuisce Benedetto XVI, la cui “ermeneutica della continuità” viene totalmente fraintesa da molti cattolici, sia progressisti che conservatori. L’affermazione secondo cui il Concilio II va inteso in continuità con il Magistero della Chiesa presuppone evidentemente l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che necessitano una interpretazione. Per Benedetto XVI il criterio di interpretazione del passaggio dubbio non può che essere la Tradizione della Chiesa, come egli stesso ha più volte ribadito. Se si ammettesse invece, come ritengono i seguaci del sito web “Viva il Concilio”, che il Vaticano II fosse il criterio ermeneutico per rileggere la Tradizione, bisognerebbe attribuire, paradossalmente, forza interpretativa a ciò che ha bisogno di essere interpretato. Interpretare la Tradizione alla luce del Vaticano II, e non il contrario, sarebbe possibile solo se si accettasse la posizione di Alberigo, che attribuisce valore interpretativo non ai testi, ma allo “spirito” del Concilio. Tale non è però la posizione di Benedetto XVI, che critica l’ermeneutica della discontinuità, proprio per il primato che essa attribuisce allo spirito sui testi. Mons. Gherardini, nel suo volume Concilio Vaticano II. Un discorso da fare (2009) ha bene sviluppato il giusto criterio dell’ermeneutica teologica. O si ritiene, come Gherardini, che le dottrine del Concilio non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili e dunque nemmeno vincolanti, oppure si assegna al Concilio un’autorità tale da oscurare le altre venti precedenti assisi della Chiesa, abrogandole o sostituendole tutte. Su quest’ultimo punto sembra non esserci differenza tra gli storici della scuola di Bologna e sociologi come Massimo Introvigne che sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano II.
C’è però un secondo problema che va al di là della discussione sulla continuità/discontinuità dei testi conciliari e non investe il campo teologico, ma quello storico. È il tema a cui ho voluto dare un contributo nel mio recente volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, pubblicato dall’Editore Lindau. Ciò che mi propongo nel volume non è una lettura teologica dei testi, nel senso di valutare una loro continuità o discontinuità con la Tradizione della Chiesa, ma una ricostruzione storica di quanto avvenne a Roma tra l’11 ottobre 1962 e l’8 dicembre 1965. Si tratta di un lavoro complementare a quello teologico e che non dovrebbe preoccupare nessuno. Non si comprendono infatti le reazioni allarmate di chi teme che questa storia possa portare acqua al mulino della ermeneutica della discontinuità. Bisognerebbe allora rinunziare a scrivere la storia del Concilio Vaticano II? O lasciare che a scriverla sia solo la scuola di Bologna, che ha offerto contributi scientificamente pregevoli, ma ideologicamente tendenziosi? E se elementi di discontinuità dovessero emergere, sul piano storico, perché temere di portarli alla luce? Come negare una discontinuità, se non nei contenuti, nel nuovo linguaggio del Concilio Vaticano II? Un linguaggio fatto non solo di parole, ma anche di silenzi, di gesti e di omissioni, che possono rivelare le tendenze profonde di un evento più ancora del contenuto di un discorso. La storia dell’inspiegabile silenzio sul comunismo da parte di un Concilio che avrebbe dovuto occuparsi dei fatti del mondo non può essere, ad esempio, ignorata.
Lo storico che si accinge a questo compito non può isolare i testi del Vaticano II dal contesto storico in cui furono prodotti, perché è proprio del contesto, e non dei testi, che in quanto storico si occupa. Allo stesso modo il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa e nella società.
La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. Ancora oggi viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”.
Roberto de Mattei
Di seguito il commento interessante di Enrico da Messainlatino:
UNA PICCOLA GLOSSA. De Mattei osserva che certe posizioni (come quella di Introvigne, o della scuola di Bologna) "sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano II". In effetti abbiamo letto ieri nell'articolo di Introvigne che "Il cattolico che cavillasse e iniziasse a distinguere fra Concilio dogmatico e pastorale, fra magistero infallibile e magistero non infallibile si porrebbe nella stessa posizione dei dissidenti “progressisti”". Ora, su questo tema, a mio avviso, Introvigne erra. Anche se, in realtà, non dice che l'insegnamento conciliare sia infallibile. Ma la cogenza che gli attribuisce, è la stessa.
Chiariamo il punto, non senza prima rinviare, per un approfondimento teologico ben più pregnante, ad un articolo dell'abbé Barthe. Qui, per far breve, ci limiteremo a citare il codice di diritto canonico, che ha il vantaggio della sintesi, e della cogenza, quel che spesso manca alle paginate dei teologi (scusate, qui affiora il revanscismo del giurista...). Ebbene: con il motu proprio Ad tuendam fidem del 1998, Giovanni Paolo II ha novellato il canone 750 c.j.c., distinguendo tra il Magistero espressamente dichiarato infallibile (§1: "Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria") ed il Magistero definitivo (§2: "Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente").
Orbene: nell'uno e nell'altro caso (Magistero infallibile e Magistero definitivo) il cattolico deve prestare un eguale assenso di fede a queste verità, pena l'eresia (come si legge nella nota esplicativa della Congregazione per la Dottrina della Fede: "non vi è differenza circa il carattere pieno e irrevocabile dell'assenso, dovuto ai rispettivi insegnamenti. La differenza si riferisce alla virtù soprannaturale della fede: nel caso delle verità del 1° comma l'assenso è fondato direttamente sulla fede nell'autorità della Parola di Dio (dottrine de fide credenda); nel caso delle verità del 2° comma, esso è fondato sulla fede nell'assistenza dello Spirito Santo al magistero e sulla dottrina cattolica dell'infallibilità del magistero (dottrine de fide tenenda)".
Per complicar le cose, tanto l'infallibilità quanto la definitività di un insegnamento posson derivare o da una pronuncia espressa del Magistero (che, appunto, definisce un dogma come infallibile, o una verità come definitiva: esempi di quest'ultimo tipo il divieto di sacerdozio femminile o l'invalidità delle ordinazioni anglicane), oppure - e qui viene il bello - infallibilità o definitività possono sussistere anche in assenza di una dichiarazione in tal senso, quando si tratta di dottrina che, "appartenente al patrimonio del depositum fidei, è insegnata dal magistero ordinario e universale – che include necessariamente quello del Papa".
E appunto Introvigne, nell'istante in cui rifiuta la liceità stessa di discussioni critiche sui testi conciliari, appare ipso facto sostenere che si tratti di pronunce non tanto infallibili (ché lo stesso Concilio e il Papa han dichiarato di non voler coinvolgere l'infallibilità) ma quanto meno definitive. In effetti, buona parte degli insegnamenti del Concilio appare davvero definitiva, di quella definitività non dichiarata che deriva dal fatto di ripetere verità appartenenti da sempre al depositum fidei e insegnate semper, ubique et ab omnibus.
Ma non son quelli i passaggi del Concilio che dan problemi. Li danno quelli che appaiono in qualche modo difformi dagli insegnamenti anteriori. Una difformità che è già la prova in re ipsa che su quelle materie non può essersi formata alcuna definitività, per sua natura incompatibile con cambiamenti che non siano meri sviluppi logici ed approfondimenti. Sicché è giocoforza ammettere che sulla libertà religiosa, ad esempio, o sull'ecumenismo, né l'insegnamento del Concilio, né quello anteriore (visto che non è del tutto conforme a quello, egualmente autentico, del Concilio) sono verità da ritenere definitivamente.
Se dunque così è, l'assunto di Introvigne è errato poiché i testi conciliari controversi, non essendo né infallibili (come pacifico), né definitivi (perché in qualche misura innovativi rispetto al Magistero anteriore), non possono godere di quella adesione di fede che troppo affrettatamente Introvigne sembra pretendere.
All'evidenza, questi insegnamenti ricadono invece nella definizione del canone 752; eccola: "Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell'intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda". Religioso ossequio di intelletto e volontà: tali insegnamenti non si posson rigettare a cuor leggero e ancor meno si può insegnare tranquillamente il contrario. Ma è possibile non aderire, dopo matura ed informata riflessione, a tali dottrine. Tanto più che, in quest'ambito, occorre pure verificare l'autorità della fonte (ad esempio, tra i documenti conciliari non tutti hanno la stessa importanza) poiché tali insegnamenti "richiedono un grado di adesione differenziato, secondo la mente e la volontà manifestata, la quale si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore della espressione verbale".
Il Concilio, che si volle pastorale, e non dogmatico, contiene dunque molte parti - quelle più controverse - di valore contingente e non definitivo: la discussione in merito anche critica, seppur sempre col dovuto 'ossequio di intelletto e volontà', è dunque libera.
Enrico
Fonte: Messainlatino
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