lunedì 14 marzo 2011

La “storia del Concilio” di De Mattei fa rizzare il pelo ai cattolici conservatori



Il 2 dicembre, l’Editrice Lindau di Torino ha pubblicato il lavoro del Prof. Roberto De Mattei: 

Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta.
Una storia scritta da uno storico ormai a tutti noto.
Il testo, nelle sue 632 pagine, è tutto da leggere e da considerare, tenuto conto che è solo da qualche anno che si sta affrontando la problematica circa il Concilio, i testi del Concilio, l’applicazione del Concilio, l’interpretazione del Concilio. Fino a qualche anno fa esistevano in circolazione solo testi critici o testi elogiativi. I primi quasi assolutamente ignorati per trent’anni, perché a priori ritenuti indegni di considerazione, i secondi citati ad ogni pie’ sospinto, nonostante la stragrande maggioranza di essi rivelasse una grave carenza di informazione e di un minimo serio approfondimento. A queste due categorie occorre aggiungere quella sorta di proiezione postconciliare costituita dalla monumentale Storia del Concilio Vaticano II, in 5 volumi, redatta in quel di Bologna a cura di un gruppo di studiosi dediti all’esaltazione del Vaticano II in vista della convocazione del Vaticano III. Opera che rappresenta una coerente presentazione del Concilio in rapporto alla mentalità che lo informò sia per il suo svolgimento sia per la sua applicazione. L’opera è stata tradotta in diverse lingue e usata anche attraverso dispense o testi collaterali in tutti i seminari del mondo. Questi professori, non a caso eredi diretti della Curia bolognese di Lercaro e dell’impegno politico-religioso del famoso Giuseppe Dossetti, hanno insegnato, direttamente e indirettamente, che il Concilio Vaticano II è stato un evento storico universale che ha trasformato la Chiesa “controriformista” in Chiesa moderna proiettata nel futuro, cogliendo in tal modo l’elemento portante che ha caratterizzato il Concilio e il post-concilio. Una sorta di riforma protestante intra moenia, avente in vista quella sorta di “parlamento delle religioni” agognato fin dalla fine dell’800 da tutti gli ambienti anticattolici e negatori di Dio.
Questi ultimi trent’anni sono trascorsi con l’educazione di generazioni di preti che si sono abbeverati a questa fonte, da cui hanno tratto una impostazione mentale nefasta per la vita della Chiesa, e molti di loro sono diventati Monsignori di Curia, Vescovi e Cardinali.
Prima  o poi qualcosa doveva accadere, il Signore non paga solo il sabato, e grazie a Dio, e grazie anche all’elezione di Benedetto XVI al Soglio Pontificio, si è aperta una nuova stagione che a giusto titolo potremmo chiamare “revisionista”, anche se oggi questo termine è diventato tabù e lo si può usare legittimamente solo per capovolgere la verità storica di duemila anni di Cristianesimo.
Noi non abbiamo ancora letto il libro del Prof. De Mattei, ma da quello che abbiamo sentito e letto qua e là, e da quel poco che sappiamo dell’Autore, abbiamo l’impressione che esso andrà annoverato tra i lavori di “revisione” della vulgata del Concilio.

In attesa di leggerlo e sulla scorta della polemica che ne è derivata, ci permettiamo di esprimere qui qualche considerazione prendendo spunto da alcuni articoli apparsi qua e là sul suo contenuto, anche se non tutti i loro redattori dimostrano di averlo veramente letto. In genere si tratta di articoli giornalistici redatti per sentito dire e fondati su una sorta di novello tabù: il Concilio si può criticare, ma lo si deve prima accettare.
Uno dei ripetuti slogan che circolano da quanto il Papa, nel dicembre 2005, parlò di “ermeneutica della riforma nella continuità”, sancendo finalmente che il Vaticano II è un Concilio opinabile perché a quarant’anni di distanza necessita ancora di una seria interpretazione.
Tra i diversi articoli, terremo particolarmente presente ciò che ha scritto uno che dichiara di aver letto il libro: il Dott. Massimo Introvigne, fondatore del CESNUR e reggente nazionale vicario di Alleanza Cattolica. Egli ha redatto un articolo pubblicato sul sito del CESNUR, articolo che in forma ridotta è stato ripreso da Avvenire del 1 dicembre 2010 (p. 30). Non sfugge l’importanza della voluta combinazione tra il credito che gode Introvigne e il fatto che Avvenire è il quotidiano della CEI, tanto da essere autorizzati a ritenere che il contenuto dell’articolo rappresenti, in qualche modo, la posizione dell’episcopato italiano.

In questo articolo, Introvigne sostiene che il libro di De Mattei è da annoverare tra le opere anticonciliari, perché avallerebbe e sosterrebbe l’“ermeneutica della rottura” tra i testi del Vaticano II e la Tradizione, al pari degli scritti dei conciliaristi e dei “lefebvriani” e in opposizione all’“ermeneutica della riforma nella continuità” sostenuta e promossa da Benedetto XVI.

Secondo Introvigne, De Mattei commetterebbe l’errore di pretendere di leggere i testi del Vaticano II tenendo conto del contesto in cui sono nati. Un errore che, secondo lui, andrebbe evitato perché i testi debbono essere letti a prescindere dal contesto, e questa lettura può tranquillamente attuarsi alla luce della Tradizione: cogliendo la continuità dei primi con la seconda.
Certo, la cosa è suscettibile di attenzione, ma prima bisognerebbe capire se si sollecita una lettura siffatta per giustificare a posteriori l’“ermeneutica della riforma nella continuità”, o se invece tale ermeneutica è talmente evidente nei testi del Vaticano II da rendere inutile e fuorviante la considerazione del contesto.
È chiaro che questa impostazione si basa sul presupposto che i testi conciliari abbiano autorevolezza per se stessi, tale che ne debba scaturire solo la loro accettazione, salvo le riserve che legittimamente possono avanzarsi su un punto o sull’altro in forza del loro carattere “pastorale”.
Siamo di fronte ad una strana formula che ritroviamo negli stessi decreti d’erezione di alcuni nuovi Istituti Ecclesia Dei. In essi la Santa Sede riconosce la facoltà di avanzare “critiche costruttive” nei confronti dei testi del Concilio. Ora, l’espressione “critica costruttiva”, che discende pari pari dalla polivalenza del linguaggio moderno, può significare più cose contrapposte, ma di certo ha un suo significato intrinseco: “critica” equivale a dissenso, e “costruttiva” equivale a partecipazione consensuale. Come può condursi un dissenso che sia contemporaneamente consensuale? Uno dei misteri del linguaggio e del costume moderni!
Chi critica dissente dall’oggetto in esame, in tutto o in parte, e perché possa giungere ad un possibile assenso è necessario che vengano rimossi gli elementi del dissenso. Nel nostro caso, criticare i testi del Vaticano II, anche in parte, perché trovati in contraddizione o in rottura con la Tradizione, significa rifiutarli “alla luce della Tradizione”, ed è possibile giungere ad una loro condivisione solo se da essi vengono rimossi tutti i fattori di contraddizione e di rottura. Sostenere che nonostante l’esistenza di questi fattori, per i quali la stessa Santa Sede riconosce il diritto di “critica costruttiva”, si possa praticare un’ermeneutica in continuità con la Tradizione che essi contraddicono è una impossibilità letterale e concettuale.
Su questa base è anche impossibile leggere i testi del Concilio per se stessi, perché ogni qual volta che si troverà un elemento in rottura con la Tradizione, per comprenderne la portata e le implicazioni attuali e future occorrerà rifarsi al contesto in cui sono nati e a quello in cui sono stati applicati. Ma c’è di più, se ci si limitasse a questi due soli contesti, occorrerebbe considerare il Concilio come la causa degli elementi di rottura, il che non corrisponde alla realtà, poiché è chiaro a tutti che il Vaticano II ha rappresentato il punto di arrivo di un vasto movimento antitradizionale che ha impregnato la vita della Chiesa a partire della seconda metà del XIX secolo e che col Vaticano II è riuscito ad affermarsi fino ai vertici della Gerarchia. È impossibile comprendere il Concilio, valutare seriamente i suoi testi, inquadrare correttamente il post-concilio, senza avere chiaro il quadro destabilizzante che è andato formandosi in seno alla Chiesa da più di un secolo e mezzo.
Per affrontare seriamente questa problematica, però, è indispensabile che prima si metta bene in chiaro il motivo per cui oggi si ritiene necessaria un’operazione di rilettura del Vaticano II, perché insomma si insiste sulla rinnovata interpretazione dei suoi testi in chiave di continuità con la Tradizione.
In effetti, questi testi, che sono stati elaborati e definiti da tutti i vescovi della Chiesa e sono stati approvati dai papi, successivamente sono stati applicati dagli stessi papi e dagli stessi vescovi, e questo poteva avvenire, ovviamente, solo sulla base della loro corretta interpretazione, se non altro perché gli autori e gli esecutori erano le stesse persone. Chi meglio di loro avrebbe potuto interpretare e applicare correttamente i testi da essi stessi elaborati e definiti?
Ebbene, se oggi, a 40 anni distanza dal Vaticano II, si ritiene indispensabile interpretarli in chiave di continuità con la Tradizione è del tutto evidente che essi sono stati redatti e applicati a prescindere da questa chiave, e non da questo o da quello, ma dai vescovi e dai papi. Ne consegue che qualcosa è andato storto, nel Vaticano II e nella sua applicazione. Credere, oggi, che si possa provare a rileggere questi testi in accordo con la Tradizione significa: o decidersi ad eliminare tutti i fattori in contrasto con la Tradizione che essi contengono o ritenere che tali fattori siano inspiegabilmente in accordo con la stessa Tradizione con cui sono in contrasto.

Nel suo articolo critico, Introvigne insiste su un altro punto controverso. Secondo lui, De Mattei, negando la continuità dei documenti del Concilio con la Tradizione, assumerebbe una posizione scorretta perché in contraddizione con ciò che ha detto il Papa.
Questo appunto critico, che è diventato un motivo ricorrente in ambiente conservatore, rivela la persistenza di un pregiudizio “papista” che a partire dal Concilio è stato usato con forza e con spregiudicatezza dallo stesso Paolo VI. Ciò che dice il Papa non si discute, si accetta. Nonostante questo stesso Papa pianga promulgando i documenti che determinano un moto di sovversione nella Chiesa, come il nuovo Messale; nonostante questo Papa pianga sui disastri provocati in seguito al Concilio e non muova un dito per porvi rimedio. Nonostante questo, l’unica cosa che si possa e si debba fare è ubbidire al Papa. Ubbidienza, cieca, totale, nonostante l’evidenza e nonostante il fatto che questa stessa Autorità che la reclama riconosca le conseguenze negative dei suoi atti.
E qui scatta l’altro pregiudizio che spadroneggia a più non posso per nascondere la contraddizione precedente. Non è il Papa che ha sbagliato, non è la Gerarchia che ha rinunciato a fare il suo dovere, non sono i vescovi e i cardinali che hanno sovvertito e sovvertono la Tradizione liturgica e dottrinale della Chiesa, ma solo certuni, certi liturgisti, certi teologi, certi vescovi, certi cardinali, tutti, i soli, incredibilmente dediti a cercare di rompere con la Tradizione della Chiesa. Insomma, la crisi ormai acclarata che da 40 anni attanaglia la vita della Chiesa sarebbe opera di certuni.
Molte persone in buona fede sostengono questa tesi stupefacente, e molte altre stanno cercando di rendersi celebri impugnandola come una clava contro il minimo appunto critico che sorge spontaneo dalla considerazione dello stato miserevole in cui versa da anni la vita della Chiesa.
Questo secondo pregiudizio, unito al primo, si fonderebbe sul famoso discorso alla Curia di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005. Secondo una strana vulgata in auge ormai da 5 anni, il Papa avrebbe affermato che il Concilio e i suoi documenti sono in continuità con la Tradizione della Chiesa, quindi, dire il contrario significa contraddire il Papa. Esercizio, questo, che, secondo tanti conservatori, verrebbe gratuitamente praticato da ogni sorta di “tradizionalista”.
Non è inutile allora ricordare quanto ha detto realmente il Papa, così da rinfrescare la memoria sia ai conservatori sia a certi difensori della Tradizione che sembra si siano convinti che, a partire dal 2005, “tutto va bene… signora la marchesa”.
Tralasciamo l’esame dell’intero discorso, dal quale è possibile trarre tante altre interessanti indicazioni, e consideriamo solo il brano in cui si parla delle due ermeneutiche:


Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato.

Né in questo brano, né in tutto il suo discorso, il Papa ha sostenuto che il Vaticano II è in continuità con la Tradizione, egli ha parlato solo di “ermeneutica della riforma”, chiarendo che per riforma si deve intendere il “rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”.
Mentre da una parte ci sarebbe stata un “interpretazione della discontinuità e della rottura”, dall’altra ci sarebbe stata una “interpretazione della riforma”, la quale riforma, legittima, dice il Papa, consisterebbe nel “rinnovamento nella continuità”.
Per essere esatti, qui non si parla neanche di “ermeneutica nella continuità”, ma di “ermeneutica della riforma”, di “interpretazione della riforma”, di “interpretazione del rinnovamento”. Rinnovamento che è quello che ha fatto il Concilio, dice il Papa: rinnovamento che non poteva operarsi se non in continuità.
Il Papa non parla di un Concilio in continuità con la Tradizione, ribadisce invece che il Concilio ha voluto la riforma, il rinnovamento, e questo rinnovamento non potrebbe essere se non in continuità con ciò che è sempre stata la Chiesa “che il Signore ci ha donato”. Ma questa continuità il Papa la considera come un dato proprio della Chiesa, non del Concilio, perché in relazione a quest’ultimo egli parla di “ermeneutica”, di “interpretazione”. Il Concilio è stato interpretato sia in termini di rottura sia in termini di rinnovamento, dice il Papa, la prima interpretazione è sbagliata, la seconda è corretta.
Quindi, ciò che è corretto non è il Concilio, non sono i documenti del Concilio, bensì l’interpretazione di essi secondo un’ottica del rinnovamento nella continuità.
Ora, ciò che colpisce è il fatto che si possa parlare di interpretazione. Se il Concilio e i documenti del Concilio sono suscettibili di interpretazione è evidente che di per sé sono confusi e incerti, e se addirittura è possibile che si producano delle interpretazioni contrapposte, di cui una conduce addirittura alla rottura con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, è ancor più evidente che il Concilio e i documenti del Concilio sono anche equivoci; e una volta riconosciuto che il Concilio e i documenti del Concilio sono confusi ed equivoci è giocoforza chiedersi se questa confusione e questa equivocità siano stati prodotti dal caso o da un preciso intendimento.
Abbiamo avuto modo di esaminare in altra occasione questa questione, rimandiamo quindi ad essa, limitandoci qui a considerare l’intenzione espressa dal Papa nel famoso discorso di cui parliamo.

In esso il Papa esprime effettivamente il suo pensiero, le sue intenzioni, tanto che si è potuto parlare di “discorso programmatico”, egli esprime anche una sorta di esigenza che è certo ben comprensibile e corrisponde ad un desiderio rispettabile e perfino ad una necessità della Chiesa, ma è evidente che una tale interpretazione del rinnovamento nella continuità può seriamente basarsi solo sulla reale continuità esistente in quei documenti.
Ora, se questi documenti fossero realmente in continuità con la Tradizione, che bisogno ci sarebbe di una loro interpretazione seconda l’ottica della continuità? Basterebbe sconfessare l’“ermeneutica della rottura” e isolarla nella Chiesa. Se in quarant’anni questo non è accaduto è perché i documenti non sono in continuità, e solo oggi se ne chiede una nuova interpretazione per cercare di porre un argine non tanto ad una “ermeneutica della rottura” supposta sopraggiunta nonostante tali documenti, quanto alla deriva prodotta dai documenti stessi. Se la rottura non fosse contenuta in questi documenti non sarebbe stata possibile una “ermeneutica della rottura” attuata da quasi tutta la Chiesa, papi, cardinali e vescovi in testa.
Come esempio di questa volontà di rottura che a partire dal Vaticano II ha permeato tutta la Chiesa del post-concilio, non ricorderemo, a Introvigne e ad altri, il caso clamoroso della cosiddetta riforma liturgica che continua a contraddire perfino la Sacrosanctum Concilium, poiché la cosa è talmente nota che ormai non v’è dubbio che si è voluta una nuova liturgia perché si è voluta una nuova Chiesa; ricorderemo invece l’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, con il quale il Papa ha voluto dare un segnale in termini di continuità con la Tradizione.
Questo Motu Proprio, a tre anni della sua entrata in vigore, è del tutto disatteso e variamente e quasi universalmente combattuto dai cardinali, dai vescovi, dai preti. Se il Motu Proprio ha permesso che finalmente si mostrassero tanti fedeli, chierici e laici, finora timorosi di farlo, forse per la loro posizione di esigua minoranza, ha permesso anche di far capire che non di ermeneutica o di interpretazione si tratta, bensì della volontà, diffusissima, di rompere con la Tradizione e di non permettere alcun riavvicinamento ad essa. La stessa Santa Sede è tutt’ora impotente di fronte alla diffusa opposizione dei vescovi e dei preti, e lo è per sua stessa scelta, perché non vi è ancora alcunché che permetta di rendere operativo quanto stabilito dal Papa nel Motu Proprio, senza contare, ovviamente, che è la stessa articolazione del Motu Proprio a rendere estremamente problematica una sua coerente operatività (e anche qui rimandiamo a quanto abbiamo già scritto in queste pagine sul contenuto del Motu Proprio).
In realtà, i fatti di questi tre anni, dimostrano che più che per il bene della Chiesa questo Motu proprio è stato voluto tenendo presente quello che lo stesso Papa ha scritto nella lettera di accompagnamento ai vescovi

L’uso del Messale antico presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano tanto di frequente. Già da questi presupposti concreti si vede chiaramente che il nuovo Messale rimarrà, certamente, la forma ordinaria del Rito Romano, non soltanto a causa della normativa giuridica, ma anche della reale situazione in cui si trovano le comunità di fedeli.

e cioè che questa istanza della liturgia tradizionale (come la chiamiamo noi) o straordinaria (come la chiama il Papa), è roba da gruppi ristretti.
È evidente che qui non si tratta del bene della Chiesa, né della sottolineatura della continuità con la Tradizione, qui si tratta di un espediente in grado di produrre effetti diversi. Intanto tacitare certe quarantennali resistenze, smorzandone o annullandone il vigore, poi dare un segnale ai chierici e ai teologi sovversivi che vorrebbero decattolicizzare ancor più la Chiesa cattolica, infine preparare il terreno per mettere mano ad alcuni ritocchi della liturgia moderna. La liberalizzazione dell’uso della liturgia tradizionale è quindi uno strumento che serve per altri fini, diversi dalla difesa della Tradizione e dalla preoccupazione della continuità. Gli effetti che si sono prodotti in favore della Tradizione derivano dall’intrinseca coerenza e forza della Tradizione stessa, nonostante le intenzioni del Motu Proprio. D’altronde, il Papa sapeva bene che questo era il prezzo da pagare, ma sapeva anche che poteva trarne dei benefici secondo la sua visione delle cose. Non è un caso che in questi tre anni non ha mai celebrato con i libri liturgici tradizionali, anzi si è sempre preoccupato di mescolare in ogni occasione il moderno con l’antico, come nel caso clamoroso della distribuzione della Comunione in bocca e in ginocchio per pochissimi, mentre contemporaneamente, al suo fianco, la gran parte dei fedeli assume la Comunione in piedi e sulle mani. Invero uno strano segno di continuità, dove il moderno si mantiene maggioritario e “ordinario”, nonostante affondi le radici nell’ermeneutica della rottura, mentre il tradizionale viene mantenuto minoritario e “straordinario”, nonostante affondi le sue radici direttamente nella Tradizione senza alcun bisogno di ermeneutiche di alcun genere.
Piccoli passi, dirà qualcuno,… ce ne saranno altri, assicurerà qualcun altro,… ma tutti faranno finta di non capire che l’intento è quello di operare una sorta di mescolanza tra antico e moderno tale da imporre definitivamente la sostanza del moderno con le forme dell’antico.

Per finire, corre l’obbligo di ricordare che il libro di De Mattei non è una meteora inaspettata; in questi cinque anni dal famoso discorso del Papa del dicembre 2005 sono stati scritti articoli, saggi e libri che hanno sollevato il problema della revisione del Vaticano II, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista teologico. Testi scritti da studiosi seri e conosciuti per la loro preparazione. Si è davvero aperto un dibattito che richiederà anni di lavoro perché si giunga ad una qualche definizione della problematica: è in questo contesto che si colloca il libro di De Mattei, ed esso apporta un importante contributo per la definizione di un quadro storico che faccia da sfondo agli altri lavori.
Ora, ciò che stupisce è che a fronte di una problematica del genere, che attiene all’intera vita della Chiesa e alla stessa tenuta della Fede, si è dovuto aspettare 40 anni per aprire un dibattito serio.
In questi 40 anni, quegli stessi ambienti conservatori che oggi si sbracciano per sostenere la sopraggiunta “ermeneutica nella continuità” non hanno fatto altro che seguire e puntellare l’ermeneutica e l’opera della rottura. I pochi interventi che sono apparsi qua e là si sono mantenuti ad un livello meramente accademico, una sorta di esercitazione dialettica che non ha minimamente scalfito la vulgata corrente del Concilio “nuova Pentecoste”, soprattutto in termini di pratica della Fede.
D’altronde, certi rilievi critici a riguardo della liturgia moderna, per esempio, erano stati avanzati dallo stesso Card. Ratzinger già 25 anni fa, non si trattava quindi di una novità di marca esclusivamente “tradizionalista”, eppure nessuna concreta attenzione è giunta in questi anni né dalla Santa Sede, per esempio dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, né dai vescovi, alcuni dei quali oggi hanno scoperto il bisogno della “continuità”, né tampoco dai laici “impegnati”. Anzi, di questi ultimi va ricordato che soprattutto nei 25 anni appena trascorsi essi si sono industriati in vario modo per difendere teoricamente e praticamente tutto l’insieme dell’impianto da rottura affermatosi e consolidatosi a partire dal Vaticano II: dalla libertà religiosa all’ecumenismo, dal movimentismo ecclesiale all’autonomia diocesana, dalla democratizzazione delle parrocchie alla creatività liturgica, accompagnando tutto questo con una persistente ostilità contro ogni appunto critico e con una aperta opposizione al mantenimento dell’uso della liturgia tradizionale. Tutti, chierici e laici, si sono dimostrati di fatto i paladini di quello che oggi dicono di voler combattere… dopo il discorso del Papa del 2005.
Vi sono stati addirittura i casi clamorosi di chi ha avallato o sollecitato l’inclusione negli elenchi delle “nuove religioni” e delle “sette”, di gruppi di cattolici la cui sola colpa era ed è di non essere conservatori, ma tradizionali o “lefebvriani”, cioè fedeli alla Tradizione millenaria della Chiesa.
E oggi ritroviamo questi stessi conservatori pronti a criticare il lavoro di De Mattei per il semplice fatto che non coincide con le loro vedute, e sempre con le stesse motivazioni: contraddice ciò che afferma il Papa, oggi Benedetto XVI, ieri Giovanni Paolo II o Paolo VI.
Ligi al Papa, si direbbe, … forse, ma soprattutto ligi a mettere sotto accusa tutto quello e tutti quelli che cercano di difendere la Tradizione e ne rivendicano i diritti per il bene della Chiesa e per la salvezza delle anime dei fedeli.

Ciò nonostante, riconosciamo volentieri che oggi tante coscienze sopite sembrano risvegliarsi e una nuova attenzione sembra prendere il posto del vecchio silenzio-assenso degli anni scorsi. Pur con i distinguo e i preconcetti duri a morire, oggi si comincia a prendere le distanze da tanti elementi del Vaticano II e dalle sue terribili applicazioni, e tutto questo grazie alla quarantennale tenacia dei cattolici tradizionali, laici e ancor più chierici, tenacia che tra i diversi frutti ha prodotto, seppure indirettamente, anche quel famoso discorso del 2005, il cui vero merito sta nell’aver permesso che si togliesse il bavaglio alla critica e al dissenso.
Che poi questo dispiaccia a certi ambienti conservatori è comprensibile, ma un giorno o l’altro dovranno farsene una ragione, anche se nell’attesa assisteremo ad attacchi sempre più viscerali contro i gruppi tradizionali che svolgono il sacrosanto compito di mettere il dito nella piaga e, spinti dallo stato di necessità in cui versa la Chiesa e il destino delle anime dei fedeli, talvolta sono costretti a rigirare il dito nella stessa piaga procurando un certo raccapriccio negli ipersensibili benpensanti che vorrebbero che cambiasse tutto perché non cambi niente.


Fonte: Una Vox

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