di Paolo Pasqualucci (Fonte)
secondo capitolo
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3. L’art. 24 GS consolida l’antropocentrismo di GS 22. L’inusuale orientamento che emerge dall’art. 22 GS si chiarisce ancor meglio, io credo, alla luce della nozione dell’uomo quale concisamente appare nel successivo art. 24 della stessa costituzione conciliare. Possiamo dire che in quest’articolo l’antropocentrismo presente nella GS raggiunga la sua massima espressione. Infatti, vi si afferma che l’uomo “in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa (hominem, qui in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit)” (GS 24.4).
Salvo errore, è stato Romano Amerio a cogliere il carattere teologicamente improprio di questo inciso sull’uomo. Amerio connette gli artt. 12 e 24 della GS. Nel primo si afferma che l’uomo è “il centro e il vertice di tutto quanto esiste sulla terra (omnia quae in terra sunt ad hominem tamquam ad centrum suum et culmen ordinanda sunt)” (GS, 12.1). Che l’intero mondo e persino l’universo siano ordinati all’uomo, ribatte Amerio, è affermazione temeraria e non solo alla luce delle scoperte della scienza moderna, che hanno fatto venir meno i lucreziani moenia mundi, ma anche alla luce di gran parte dello stesso pensiero profano. Inoltre, affermare che l’uomo “è la sola creatura che Dio abbia voluta per se stessa”, ciò contrasta con quanto affermato dalla Bibbia e sempre ritenuto dalla teologia ortodossa: “Universa propter semetipsum operatus est Dominus” (Prov. 16, 4).
La dottrina corretta, sempre insegnata dalla Chiesa a proposito della creazione, è che Dio ha voluto tutte le cose per la Sua gloria: nella creazione Egli celebra se stesso, non l’uomo. Come ricorda S. Tommaso, sottolinea Amerio, “Dio vuole le cose finite in quanto vuole sé stesso creante le cose finite: ‘Sic igitur Deus vult se et alia: sed se ut finem, alia ad finem’ (ST, I, q. 19. a. 2). Quindi le cose finite che vuole le vuole per sé stesso, non per sé stesse, non potendo il finito essere il fine dell’infinito né potendo la divina volontà essere attratta e passiva rispetto al finito”. Nella religione, “che ordina tutto a Dio e non all’uomo”, la “centralità finalistica” dell’uomo, così cara allo spirito dell’uomo contemporaneo, “non ha fondamento alcuno”(1).
La frase antropocentrica di GS, 24.4 mi sembra anche contraddittoria in se stessa. Infatti, se l’uomo, a differenza di tutte le altre, è una creatura che Dio ha creato “per se stessa” e non “per Se stesso”, ciò significa che tale creatura possiede un valore tale da giustificarne o richiederne la creazione da parte di Dio. Ma questo non è possibile, se l’uomo è stato creato da Dio dal nulla. Il valore che l’uomo possiede in quanto uomo, la sua humanitas, esiste solo in conseguenza della creazione e quindi è stato voluto da Dio quando ha deciso di fare l’uomo. L’humanitas dell’uomo viene pertanto da Dio non dall’uomo stesso, quasi fosse una caratteristica sua indipendente da Dio, che ha spinto Dio a crearlo. L’uomo è stato voluto da Dio con la sua humanitas, per la Gloria di Dio, come tutto ciò che Egli ha creato. Il fatto che l’uomo occupi una posizione privilegiata fra le creature perché creato inizialmente ad immagine e somiglianza di Dio e destinato da Dio alla vita eterna, nulla toglie a questa verità.
La proposizione contenuta in GS, 24.4 sembra dunque completare e persino andare oltre il dettato di GS, 22.1. Mentre l’antropocentrismo alla de Lubac di quest’ultimo articolo portava in sostanza ad identificare l’uomo con Dio grazie al peculiare modo nel quale veniva intesa l’Incarnazione, in GS 24.4 sembra si voglia addirittura affermare un’autonomia dell’uomo, un suo valore intrinseco, che lo rende di per sé degno della creazione, che così verrebbe a riconoscere la grandezza dell’uomo!
Di fronte a questa immane esaltazione della dignità e della grandezza dell’uomo, spinta fino ad adombrarne un valore che può sembrare indipendente dall’atto divino di creazione; di fronte all’iperottimistico umanesimo che pervade non solo la GS ma l’intero Vaticano II, a partire dalla celebre Allocuzione di apertura di Giovanni XXIII sino a quella di chiusura di Paolo VI, l’interprete deve chiedersi: come si accorda tutto ciò con la nozione del peccato e con il dogma del peccato originale, che deve sempre porsi a fondamento di ogni concezione autenticamente cristiana dell’uomo?
4. Una concezione riduttiva del peccato. L’art. 13 GS si occupa della nozione del peccato. Esso ribadisce alcuni elementi tradizionali della stessa: per resistere al peccato l’uomo ha bisogno dell’aiuto di Cristo; il peccato infrange un ordine stabilito da Dio e altera l’armonia (ordinatio) che esiste sia nel rapporto dell’uomo con se stesso, sia nel rapporto con gli altri, sia in relazione a tutta la creazione. L’articolo sembra voler tuttavia conferire un particolare rilievo alle conseguenze interiori che il peccato ha per ognuno di noi, per la nostra psiche, visto che, dopo aver affermato che peccando “l’uomo si trova diviso in se stesso (Ideo in se ipso divisus est homo)”, ne dà questa definizione: “il peccato è una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza (Peccatum autem minuit ipsum hominem, a plenitudine consequenda eum repellens)”(GS, 13.2).
Ci si sarebbe aspettati, da un articolo di una costituzione di un Concilio ecumenico che vuol esprimere il concetto del peccato, che il relativo testo recitasse, in conformità con l’insegnamento tradizionale: “[il peccato è anche] una diminuzione [della propria umanità] che impedisce all’uomo di conseguire la propria salvezza”. Invece, il Concilio, al posto di “salvezza” mette “pienezza”. Cosa c’entra qui la “pienezza” e di quale “pienezza” si tratta? Verosimilmente, quella che risulta dall’armonia spirituale dell’uomo con se stesso, con la propria coscienza di sé; dell’uomo consapevole della grande dignità che per natura gli apparterrebbe, in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio.
Che il peccato ci metta in contraddizione con noi stessi, facendo prevalere la ferinitas sulla humanitas, lo afferma a chiare lettere già S. Paolo. Quando pecco, “non comprendo quel che faccio, perché non faccio quel che vorrei io, ma quello che non voglio [...] Dunque non sono più io che faccio il male, ma il peccato che abita in me” (Rm 7; 15, 17). È vero che “provo diletto nella legge di Dio, secondo l’uomo interiore: ma vedo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra” (Rm 7, 21-23). Anche se, peccando, non fa quello che vorrebbe la sua anima razionale, ma (a causa del peccato originale) quello che vogliono “le sue membra”, il soggetto resta ben consapevole del significato di quello che sta facendo. Ma questa consapevole contraddizione con se stesso, non ha mai costituito il significato essenziale del peccato, dal punto di vista cattolico. Né del peccato, né delle sue conseguenze.
Solo la “giustificazione” mediante la fede, precisa l’Apostolo, ci procura “pace con Dio” pur in mezzo alle “tribolazioni” della nostra esistenza. Ma si tratta sempre di una pace che viene da Dio perché consiste essenzialmente del nostro “gloriarci” nella speranza della vita eterna, che è il nostro “gloriarci in Dio” (1 Cr 1, 29-30). In Dio, non nella pienezza della nostra coscienza ovvero del nostro proprio “autocomprendersi”, come si dice oggi. Il credente giustificato, che resiste alle lusinghe del peccato, grazie all’aiuto divino, non vive “nella carne” ma “nello spirito, se però lo Spirito di Dio abita in lui” (Rm 8, 9). Chi vive con il pensiero “rivolto alle cose dello spirito” può dirsi certo più felice di colui che vive “con il pensiero rivolto alle cose della carne, che conducono alla morte”, alla perdizione (ivi, 8, 5). Ma siffatta felicità interiore non risulta dal realizzarsi della pienezza della coscienza di sé del soggetto, risulta dalla presenza dello Spirito di Dio nell’anima del credente. Risulta, in definitiva, dall’opera sovrannaturale della Grazia, non da quella del tutto profana della nostra (autonoma) coscienza di sé. Essa ha, pertanto, un fondamento sovrannaturale.
E le conseguenze essenziali del peccato sono anch’esse sovrannaturali. S. Paolo le condensa nella famosa, lapidaria sentenza: “il salario del peccato è la morte” (Rm 6, 23) ossia la dannazione eterna. E questa chiara e semplice verità, di ordine sovrannaturale (perché rivelata e perché concernente la nostra vita dopo la morte) il Concilio la ricorda, forse? Ricorda con la necessaria chiarezza che a causa del peccato l’umanità verrà divisa alla fine dei tempi e per sempre da Nostro Signore in eletti e reprobi, onde la conseguenza fondamentale del peccato è proprio quella di precludere per sempre ai peccatori impenitenti la vita eterna?
Ecco perché la concezione del peccato di GS 13 appare riduttiva. Essa non sembra porre nel dovuto rilievo il fatto che, per la dottrina della Chiesa, il peccato è soprattutto l’offesa fatta a Dio, la violazione consapevole di un ordinamento costituito da Dio con i Dieci Comandamenti; violazione che comporta di per sé l’ira divina e la conseguente giusta retribuzione (quel “salario” rappresentato dalla morte seconda, l’Inferno). Che esso ci impedisce di conseguire la nostra salvezza, la vita eterna nella Visione Beatifica, che è cosa molto più importante della presunta “pienezza” interiore, quale si realizzerebbe nella propria, autonoma coscienza di sé del soggetto. Diciamo la verità, che cosa ci importa della nostra “pienezza interiore”, che sarebbe in sostanza la nostra personale felicità? Quando mai la realizziamo nella nostra vita terrena, se non per brevi momenti e spesso a scapito della felicità di un altro? Non per nulla l’Apostolo ammonisce: “Quando [gli uomini] diranno ‘pace e sicurezza’, allora improvvisa li sorprenderà la rovina” (1 Ts 5, 3). Questo è sempre stato l’insegnamento di Cristo e della Sua Chiesa: ciò che conta, nella nostra vita, è fare in tutto la volontà di Dio, non ricercare l’illusoria “pienezza” con noi stessi! E per fare la volontà di Dio dobbiamo lottare ogni giorno con noi stessi e sentirci pertanto quasi sempre in contraddizione con noi stessi! Tale è il giusto prezzo terreno della Gloria futura, della vita eterna, della quale nessuno può avere certezza finché si trova in questo mondo.
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NOTE
1) Per tutta l’argomentazione di Amerio, vedi: ID., Iota Unum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli, 1986², §§ 205-208 (è il cap. XXX, pp. 401-408).
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