Per gentile concessione del direttore della rivista, Prof.
Mons. Brunero Gherardini, pubblichiamo in versione integrale l’articolo di
Paolo Pasqualucci, L’ermeneutica della Riforma: discontinuità del Concilio
nella continuità?, apparso su ‘Divinitas’, Nova Series, LIV, 2011, n. 3, pp.
284-312.
Fonte: Riscossa cristiana
di Paolo Pasqualucci
(primo capitolo)
Recentemente è apparsa in rete la traduzione
italiana di un articolo pubblicato nel 2010 su ‘Nova et Vetera’ da Martin
Rhonheimer, professore di etica e filosofia politica all’Università Pontificia
della S. Croce, dedicato all’ “ermeneutica della riforma”, in sé stessa ed
esemplificata nella nozione di “libertà religiosa”. L’articolo fa ben
comprendere che cosa intenda dire il Pontefice attualmente regnante con
l’espressione “ermeneutica della riforma”, come tale non immediatamente
accessibile(1). Tuttavia, esso sembra creare più problemi di quanti non ne
risolva e ha già suscitato pertinenti repliche. Anche dal punto di vista non
specialistico del semplice credente, penso si possa sollevare qualche
interrogativo concernente: la definizione stessa di questa “ermeneutica”; la
rappresentazione dei primi Martiri cristiani quali sostenitori della “libertà
religiosa” in senso moderno; il modo in cui viene esposta la dottrina
preconciliare, che condannava la “libertà religiosa” quale frutto
dell’individualismo agnostico e miscredente del Secolo; la coerenza della nuova
dottrina con la Tradizione della Chiesa.
1. L’ermeneutica della riforma. Essa è ricompresa tra i
concetti espressi dal Papa nel famoso discorso natalizio alla Curia, del 22
dicembre 2005, nel quale, tra l’altro, prese posizione contro l’interpretazione
largamente diffusa di una Chiesa “postconciliare” diversa da quella
“preconciliare”. Su questa presa di posizione, rileva l’Autore, si è costruita
un’immagine inesatta di ciò che intendeva dire il Pontefice. È vero che egli ha
affermato l’erroneità dell’ “ermeneutica della discontinuità e della rottura”,
che vede nel Concilio appunto una “rottura” con la Chiesa “preconciliare”.
Tuttavia, non è proclamando sic et simpliciter la validità di un’ermeneutica
della continuità che egli respinge l’ipotesi della discontinuità. Che si sia
limitato a questo, l’hanno pensato diversi interpreti, come ad esempio il
filosofo prof. Robert Spaemann, che, per trovare un caso analogo di mutamento
che non ha contraddetto la dottrina perenne della Chiesa, si è rifatto
all’esempio della variazione di dottrina sul prestito ad interesse e sulla
relativa interdizione dello stesso(2).
Ma si tratta di ben altro. Benedetto XVI ha dichiarato,
infatti, che “all’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della
riforma” non quella di un’ermeneutica della continuità tout court. “E qual è
“la natura della vera riforma”? Essa consiste, spiega il Papa, “in questo
insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi"(3). La continuità
dell’insegnamento del Vaticano II con quello precedente viene dunque affermata
in modo complesso: non è tale da escludere la discontinuità, tuttavia questa
discontinuità, a sua volta, non è tale da escludere la continuità. L’una e
l’altra operano a “livelli diversi”, che è necessario individuare e spiegare.
Ma perché nella Chiesa è apparsa, con il Vaticano II, la necessità di intendere
il significato della dottrina in modo nuovo, come significato che contiene
una “riforma” di quanto tramandato e consolidato lungo i secoli?
Tutto è nato, precisa il Pontefice, dalla necessità che si è
imposta al Concilio, “di definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e
l’epoca moderna”, sia per ciò che riguardava “le scienze naturali” nel loro
attuale sviluppo, sia per ciò che riguardava “il rapporto tra la Chiesa e lo
Stato moderno, il quale concede spazio ai cittadini di diverse religioni ed
ideologie, tenendo un atteggiamento imparziale verso le religioni e prendendo
su di sé solamente la responsabilità di assicurare una coesistenza ordinata e
tollerante tra i cittadini, ivi compresa la loro libertà di culto"(4).
Ma la Chiesa, osservo, aveva effettivamente la necessità di
“definire in modo nuovo” il suo rapporto con lo Stato e con la scienza, ossia
con la cultura moderna? L’assunto viene presentato come se si trattasse di
verità per sé evidente, che all’epoca del Concilio si sarebbe imposta a tutti.
Ma ciò, a mio avviso, non è storicamente esatto. Quest’esigenza di “definire in
modo nuovo” quel rapporto era sentita soprattutto dalla nouvelle
théologie e dai settori ammodernanti della Gerarchia: da una minoranza,
per quanto attiva, combattiva e ben organizzata. Gli schemi preparatori delle
costituzioni conciliari, elaborati sotto la supervisione del S. Uffizio di
Ottaviani e Tromp sj, poi fatti cadere in Concilio grazie ai noti colpi di mano
dei progressisti, contenevano una critica ed una condanna ragionata e razionale
del mondo contemporaneo, il quale già mostrava i primi sintomi di quella
impressionante decadenza che oggi affligge noi tutti e la Chiesa nel modo che
sappiamo(5).
Ma ritorniamo alle parole del Pontefice. Quale la
conseguenza di questa “nuova definizione” del suddetto “rapporto”? Che,
“nell’insegnamento del Concilio, in tutte queste materie che costituiscono
comunque un unico problema [da affrontare per la Chiesa], poteva scaturire una
certa forma di discontinuità: questa discontinuità, in un certo senso, c’è
effettivamente stata"(6). Dunque, un Papa ammette (ed è la prima volta)
che nell’insegnamento del Vaticano II “in un certo senso, c’è stata
effettivamente una certa forma di discontinuità” con l’insegnamento precedente.
Ma siffatta “discontinuità” non deve intendersi come rottura o
antitesi inconciliabile. Per qual motivo? Per il semplice motivo, prosegue,
“che la continuità dei princìpi non è stata abbandonata”. Non essendo stata
abbandonata, si è avuta una “vera riforma, la cui natura consiste nel
combinarsi di continuità e discontinuità a diversi livelli"(7). Dunque
cos’è che tiene insieme (senza contraddizione) continuità e discontinuità
nell’insegnamento del Vaticano II? Il fatto che “i princìpi non sono stati
abbandonati”; che nella discontinuità si sono evidentemente mantenuti gli
stessi princìpi presenti da secoli nella dottrina che per tutti i credenti
rappresenta la continuità del deposito della fede. Il Vaticano II avrebbe
dunque realizzato con successo – osservo – una vera e propria coincidenza degli
opposti: delle esigenze della Chiesa con quelle dello Stato e della cultura
moderni (l’uno e l’altra – ricordo – fondati sul principio di immanenza,
sull’antropocentrismo più radicale) senza venir meno in alcun modo ai
“princìpi” tradizionali della dottrina della Chiesa, che invece richiedono la
subordinazione radicale dello Stato e della cultura al Sovrannaturale, come
risulta dalla Sacra Scrittura e da tutto il plurisecolare Magistero.
2. La libertà religiosa del Vaticano II come esempio di
ermeneutica della riforma: la discontinuità. C’ è stata dunque “una
discontinuità”. Con quale aspetto della dottrina tradizionale? Il Papa apporta
l’esempio dell’insegnamento sulla libertà religiosa, proposta dal Concilio come
libertà di professione di fede e di culto da riconoscersi a tutte le religioni
perché da concepirsi come diritto inalienabile della persona. Recita, infatti,
l’art. 9 della Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà
religiosa: “Quanto questo Concilio Vaticano dichiara sul diritto degli esseri
umani alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità della persona,
le cui esigenze la ragione umana venne conoscendo sempre più chiaramente
attraverso l’esperienza dei secoli"(8).
Storicamente, l’istanza della “libertà religiosa”, nella
prassi “libertà di culto”, quale espressione della libertà di coscienza, che si
attua mediante la libertà di parola, si era posta, come sappiamo, dopo la
rottura dell’unità cattolica dell’Europa a causa dello scisma dei protestanti
eretici e le conseguenti guerre di religione. Il mancato rientro dello scisma
aveva dato vita a soluzioni di compromesso, con la coesistenza forzata di
protestanti e cattolici in uno stesso Stato. La cultura, nelle sue componenti
laiche, che si andavano affermando sempre più, proclamava a gran voce il
principio della tolleranza, con il conseguente riconoscimento statale della
libertà di coscienza ossia di professione religiosa e di culto per le varie
fedi. Ma tale indirizzo (che annovera gli Spinoza, i Locke, i Voltaire tra i
suoi maggiori esponenti) si ispirava in modo evidente ad una concezione deista
e razionalista della divinità, che metteva ogni religione storicamente
esistente sullo stesso piano, aprendo la strada all’indifferentismo e
all’agnosticismo non solo nei confronti della religione rivelata ma anche del
fenomeno religioso stesso. Il laico principio di tolleranza in nome della
libertà individuale di coscienza stabiliva in tal modo (all’insegna
dell’indifferentismo e dell’agnosticismo) il presupposto concettuale della
“libertà religiosa” che sarebbe stata poi garantita dallo Stato laico,
liberale, affermatosi in Europa dopo la Rivoluzione francese.
Questa concezione (filosoficamente figlia del razionalismo
protestante e poi illuminista e del panteismo di un apostata dell’Ebraismo come
Spinoza) si presentava come neutrale nei confronti della religione,
in nome delle esigenze della libertà individuale e della pace sociale. In
realtà, essa era profondamente ostile alle religioni basate su di una
Rivelazione ed in particolare al Cattolicesimo, la cui dottrina manteneva
intatta sia la natura soprannaturale della vera Rivelazione che l’etica su di
essa fondata. Esso veniva calunniato come superstizione, al massimo buona a
tenere a freno la canaglia con la paura dell’Inferno, e comunque respinto sul
piano del concetto, dal momento che Dio doveva ritenersi, dal punto di vista di
questi latitudinari liberi pensatori, semplicemente un ente di ragione i
cui attributi venivano elaborati dalla ragione stessa. In tal modo, Dio
diventava un prodotto della nostra mente e l’uomo finiva con il divinizzarsi,
con il porre la sua ragione al centro dell’universo, al posto di Dio.
Come se non bastasse, tale laica concezione portava alla dissoluzione
dell’etica cristiana ed anzi di ogni etica, con il toglierle ogni fondamento
oggettivo, dal momento che il principio morale delle nostre azioni lo si faceva
sempre ed esclusivamente dipendere dalla nostra libera coscienza individuale,
dal sentimento morale che c’è in noi o dalla nostra volontà, obbediente ai
dettami di una “ragion pratica” fondata sempre sul nostro io. Ma l’etica
cristiana non dipende dal sentimento del soggetto né dalla sua coscienza di sé
né dalla sua volontà: è fondata sulla Verità Rivelata come mantenuta
dall’insegnamento della Chiesa nei secoli. Essa si compone di precetti che il
nostro libero arbitrio, con l’aiuto indispensabile della Grazia, deve
riconoscere come obbliganti, sia per il retto agire in questo mondo che per la
salvezza della nostra anima.
Era perfettamente logico che i Papi condannassero nel modo
più energico la “libertà religiosa” propugnata, alla fine, dall’ideologia
liberale dell’Ottocento, fondata com’era su quel deismo che conduceva
inevitabilmente all’indifferentismo e all’agnosticismo in campo religioso e
morale e in campo politico ad una inaccettabileseparazione fra Chiesa e
Stato (da non confondersi con la legittima distinzione delle
rispettive sfere di competenza). Infatti, lo Stato moderno, dandosi
giustificazione e fini solo terreni, non riconosceva più come propri i
valori religiosi (cosa che comportava il venire meno della difesa della morale
cristiana e della Chiesa cattolica) e pertanto non si considerava più come
ordinato anch’esso da Dio (nella sfera di sua competenza, che è quella del Bene
comune) alla realizzazione del fine sovrannaturale per il quale ciascuno di noi
è stato creato, il conseguimento della vita eterna. In tale condanna si
distinsero, come sappiamo, pontefici del XIX secolo quali Gregorio XVI e Pio
IX, senza escludere Leone XII e XIII. Leone XIII, nell’Enciclica Libertas
praestantissimus sulla “libertas humana”, del 20.6.1888, dopo aver
ricordato che la libertà dell’uomo, inerente alla sua dignità di ente razionale
creato da Dio, non si poteva intendere in modo assoluto ma doveva esercitarsi
con il limite di obbedire alla ragione, di perseguire il “bene morale” e di non
discostarsi mai dal “sommo fine” proprio dell’uomo (la vita eterna), ribadiva
la condanna dell’opinione di chi voleva concepire come “diritti naturali” la
libertà di pensiero, di espressione, di insegnamento e di “promiscua
religione”. Infatti, “se fosse stata la natura a conferire questi diritti,
sarebbe allora legittimo ricusare i comandi divini e nessuna legge potrebbe
temperare la libertà dell’uomo”. Perciò, “questi tipi di libertà” si potevano
solo “tollerare”, con la dovuta moderazione, unicamente “si iustae causae
sint”, ad esempio per evitare mali peggiori, in certe situazioni(9).
3. La libertà religiosa del Vaticano II come esempio di
ermeneutica della riforma: la continuità. “È precisamente in rapporto a questo
insegnamento dei papi del XIX secolo – scrive il prof. Rohnheimer – che si
trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una
continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XIV nel suo
discorso: “il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla
libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso
nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”. Questo principio
essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo
patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il
chiaro rigetto di una religione di stato [che avrebbero sostenuto i Papi del
passato]: “I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel
Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la
libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria
fede""(10).
Ci viene qui fornita la chiave per comprendere come la
discontinuità conciliare debba considerarsi invececontinuità. Nell’ottica di
Benedetto XVI, la continuità esiste con le intenzioni dei Martiri della Chiesa
primitiva (dalle quali, evidentemente, i Papi si sarebbero poi per tanti secoli
discostati, col propugnare una “religione di Stato”). I Martiri morivano perché
non volevano abiurare la loro fede ma proprio per questo morivano anche per
la libertà di coscienza (che richiede, come si sa, la libertà di parola per
quanto attiene alla professione della propria fede). Attribuendo al martirio
dei primi cristiani anche questo significato, il ragionamento papale giunge
alla conclusione che il Vaticano II, con la sua dottrina sulla libertà
religiosa, oltre a riconoscere un principio fondamentale dello Stato moderno,
ha ripreso nuovamente “il patrimonio più profondo della Chiesa”. Poiché ha
riconosciuto e applicato un principio dello Stato moderno, agnostico e
liberale, ci sarebbe discontinuità; poiché, nel far ciò, ha tuttavia ripreso il
patrimonio più profondo della Chiesa, ci sarebbe continuità. L’elemento che più
colpisce nel ragionamento del Papa è dato, a mio avviso, proprio dalla riunione
di questi due opposti, come se, nel riconoscere un principio fondamentale della
concezione laica (e anticristiana) dello Stato, il Concilio avesse potuto nello
stesso tempo ritrovare o riscoprire “il patrimonio più profondo della Chiesa”,
quello costituitosi grazie allatestimonianza del sangue dei Martiri. Per
sostenere una cosa del genere, il Papa deve evidentemente attribuire al
martirio dei primi cristiani anche il significato di un sacrificio consapevole per
la libertà di fede e di culto (ossia di coscienza e di espressione). Deve
farne, in sostanza, dei precursori consapevoli della libertà di coscienza
propugnata in modo uguale per tutte le religioni dallo Stato moderno (fondato,
lo ricordo ancora, sul principio di immanenza, indifferente se non ostile
al fenomeno religioso in quanto tale). E dico a ragion veduta sacrificioconsapevole.
Infatti, se noi diciamo che solo oggettivamente essi si sono
sacrificati per la libertà religiosa, da attribuire ugualmente a tutte le fedi
quale diritto inalienabile della persona, non applichiamo al loro sacrificio la
nostra ottica di moderni, alterandone il significato?
(segue)
NOTE
1) L’”herméneutique de la réforme” et la liberté de
religion, in ‘Nova et Vetera’, no 4, Oct.-déc. 2010,http://www.novaetvetera.ch/Art%20Rhonheimer.htm.
, 14 pp. Traduzione italiana, sotto la rubrica: “Chi tradisce la tradizione. La
grande disputa” di Sandro Magister, in:http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670,
14 pp. Poiché il testo italiano omette alcuni passaggi e le note, l’ ho a volte
integrato con quello in francese, apparso inizialmente in tedesco, in forma più
ridotta, nel 2009, su “Die Tagespost” del 26.9.2009. Citerò l’articolo con la
sigla ER. I passi tra parentesi quadre sono miei. La S. Bibbia viene citata
nella tr. it. curata dall’Abate Ricciotti.
2) ER, p. 13 n. 2 ed. fr.
3) ER, pp. 3-4, ed. it.
4) ER, pp. 1-2, ed. fr.
5) Sulle gravi illegalità avutesi nella fase iniziale
del Concilio, vedi da ultimo: R. DE MATTEI, Il Concilio Vaticano II. Una
storia mai scritta, Lindau, Torino, 2010: il cap. III, dedicato alla prima
sessione, pp. 197-283. Nel rileggere oggi quei giudizi, si resta colpiti dalla
loro profetica acutezza.
6) ER, p. 2, ed. fr.
7) Ivi.
8) I Documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni,
Decreti, Dichiarazioni, Ed. Paoline, 1980, p. 588. Tutti i successivi
riferimenti a testi del Concilio sono tratti da questa edizione, confrontata su Concilii
Oecumenici Vaticani II. Constitutiones – Decreta – Declarationes (curante
F. Romita), Desclée ac Socii – Romae, 1967.
9) DS, 3252.
10) ER, p. 4, ed. it.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.