di Paolo Pasqualucci (Fonte)
terzo capitolo
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5. Un’esposizione molto discutibile del dogma del peccato originale. Nel secondo paragrafo dell’art. 22, il testo passa a spiegare perché proprio Nostro Signore, nella Sua qualità di nuovo Adamo, “svela l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”. In questa delucidazione è contenuto un inciso che si riferisce al peccato originale
“Egli [Cristo] è ‘l’immagine dell’invisibile Iddio’ [Col 1, 15; 2 Cr 4,4], è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato (Qui est ‘imago Dei invisibilis’, Ipse est homo perfectus, qui Adae filiis similitudinem divinam, inde a primo peccato deformatam, restituit)” ( GS 22.2).
Secondo Johannes Dörmann, la dottrina qui enunciata sul peccato originale non potrebbe nemmeno definirsi cattolica! Tale pesantissimo giudizio di trova nei suoi studi sulla teologia di Giovanni Paolo II e in un suo commento alla Dichiarazione Dominus Iesus, del 6 agosto 2000. Vediamo quest’ultimo.
La Dichiarazione – scrive – appoggiandosi alla Scrittura, ai Concili di Nicea e Calcedonia, rivendica correttamente “la verità tradizionale dell’unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth”, respingendo le ereticali concezioni teologiche attualmente diffuse, secondo le quali la Rivelazione non si esaurirebbe con Gesù di Nazareth, ma comprenderebbe anche le altre religioni, attribuendo perciò erroneamente al Cristianesimo un ruolo solo complementare nell’ambito di un più ampio disegno di salvezza.
Ma, continua il P. Dörmann, “il testo del Vaticano II portato come pezza d’appoggio dalla Dichiarazione (Gaudium et spes, 22), non insegna la dottrina cattolica. Il testo è citato così (DJ, 10): “Il Concilio Vaticano II afferma che Cristo, “nuovo Adamo”, “immagine dell’invisibile Dio” (Col 1, 15), “ è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato”. Ora – continua il prof. Dörmann – secondo la dottrina della Chiesa (Trid., Sess. V, c. I e ss.; DS 787- 793/ 1510-1515), la somiglianza sovrannaturale di Adamo con Dio, non è stata “resa deforme” [e quindi semplicemente alterata] a causa del primo peccato: a causa della colpa originale, è andata perduta per la discendenza di Adamo. Se, invece, questa somiglianza con Dio, in seguito al primo peccato, non è andata perduta, ma è stata solo “resa deforme”, allora la somiglianza con Dio sarebbe rimasta nell’uomo anche dopo il peccato originale, benché in modo deficitario. Ma questa dottrina non è cattolica; essa è solo una variante della teoria eterodossa, secondo la quale la Grazia è data “a priori” a tutti gli uomini”(1).
Ma perché questa nozione distorta del peccato originale sembrava al nostro autore una “variante” di questa erronea dottrina? Perché l’idea di una salvezza oggettivamente già presente e permanente in tutti gli uomini, si scontra frontalmente con la dottrina del peccato originale. Essa può mantenere quest’ultima solo al prezzo di alterarla, tentando di sostenere che la somiglianza sovrannaturale di Adamo con Dio non è andata perduta ma è sempre rimasta, venendo solo “deformata” dal peccato stesso. Se è sempre rimasta, cotituisce in ogni uomo quella presenza divina che permette di pensare, volendo, ad una salvezza già garantita a tutti. Infatti, come si può condannare alla dannazione eterna un essere nel quale sia rimasta ontologicamente una somiglianza (sovrannaturale) con Dio?
“Secondo la dottrina cattolica – continua Dörmann – la similitudo Dei è andata perduta e l’imago Dei è rimasta deteriorata nei figli di Adamo – dunque in tutti gli uomini – dal peccato originale. È con l’applicazione dei frutti della redenzione, nel processo di giustificazione, che la similitudo Dei (gratia sanctificans) che era stata perduta è ridata all’uomo, e che l’imago Dei, deteriorata, è restaurata (gratia medicinalis). Il testo conciliare dice, al contrario, che il Cristo ha restituito a tutti i figli di Adamo la “somiglianza divina” (similitudo) “alterata” (deformata) dal primo peccato. Così la somiglianza divina non sarebbe stata perduta per il “primo peccato” ma solamente “alterata” da esso”(2).
L’Incarnazione e la missione di Cristo farebbero allora riemergere questa componente divina nell’uomo, restituendo pienamente a ciascuno di noi ciò che possedevamo solo parzialmente, perché presente in noi in modo deformato a causa del peccato originale. Questa eterodossa teologia sembra anche contraria al senso comune. Una realtà sovrannaturale come la grazia santificante effusa con i suoi doni sui nostri Progenitori, realtà che costituisce la nostra “somiglianza” con Dio, o si possiede o non si possiede. Appare privo di senso insinuare che essa si è mantenuta in modo “deformato” in noi. Che significa? Che in ogni uomo è rimasta ontologicamente una grazia a metà? O peggio ancora, una grazia “deforme” o “alterata” che dir si voglia? La nozione stessa di una “somiglianza deforme” con Dio appare incoerente ed assurda. Ricordiamo quali sono i “doni sovrannaturali” perduti dai nostri Progenitori: la “santità” e la “giustizia”. Ad essi vanno aggiunti i “doni preternaturali”, costituenti il dono dell’integrità, la cui perdita ha sottoposto l’uomo alla concupiscenza, alla sofferenza, alla morte(3).
6. L’incarnazione ha innalzato “anche in noi” la natura umana ad una “dignità sublime”? Stabilita la piattaforma rappresentata da una nuova e discutibilissima rappresentazione del dogma del peccato originale, GS, 22 procede riaffermando un intimo nesso tra la natura umana di Cristo e la dignità della nostra natura umana. Nel far ciò, essa si rifà, in cospicue note a pie’ di pagina, all’insegnamento dei Concili ecumenici Costantinopolitano II e III, e di Calcedonia, che condannarono le gravi eresie cristologiche che sappiamo. “Cum in Eo natura humana assumpta, non perempta sit,[seguono in nota tre passi da questi Concili] eo ipso etiam in nobis ad sublimem dignitatem evecta est etc” (GS, 22.2).
Il Vaticano II afferma dunque che l’Incarnazione, non avendo “distrutto” la natura umana ma avendola “assunta”, ha innalzato per ciò stesso “anche in noi” la natura umana ad una “dignità sublime”. Dobbiamo ritenere che questa sia anche la dottrina sempre insegnata dalla Chiesa, dal momento che il testo conciliare sembra voler giustificare le sue affermazioni in base a quanto insegnato dai tre Concili ecumenici dell’antichità da esso richiamati? In realtà, se si va a rileggere quell’antico (e dogmatico) magistero conciliare, ci si accorge che esso insegna sì aver l’Incarnazione elevato la natura umana ma non in noi stessi bensì in Nostro Signore Gesù Cristo, in Colui che si è incarnato! E questo perché solo Colui che si è incarnato è l’uomo perfetto, senza peccato! Ci sembra, dunque, che l’inciso “etiam in nos”, retto da “eo ipso”, di GS, 22, rappresenti una straordinaria novità per i documenti ufficiali del Magistero, dal momento che esso sembra mirato ad estendere anche a noi uomini peccatori, in quanto tali, la dignità sublime dell’umanità perfetta di Cristo, Dio storicamente incarnatosi in un uomo.
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NOTE
1) J. Dörmann, Declaratio ‘Dominus Jesus’ und die Religionen, in ‘Theologisches. Katholische Monatsschrift’ (30) 11/12, nov/dic. 2000, coll. 445-460; tr. it., La dichiarazione ‘Dominus Jesus’ e le religioni in sì sì no no XXVII (2001) 5, p. 4. Sul punto, più ampiamente: ID., Der theologische Weg Johannes Pauls II., I, cit., pp. 80-95. Sulla traccia di Dörmann, vedi i precisi rilievi alla dottrina del peccato originale di GS, 22 del prof. H.-L. Barth, Konzil. Soll die katholische Pastorale die Kirche an die Welt anpassen oder die Welt zur Kirche führen?, in ‘Kirchliche Umschau’, 12 (2009) 3, pp. 48-54; p. 51; numero 4, pp. 38-43.
2) Der theologische Weg Joahnnes Paul II, I, cit., pp. 82-83.
3) Per un quadro sistematico: B. Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. del P. M. Gautier, Salvator, Mulhouse, 1951, I, § 80.
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