1.1 Santità della Chiesa. Il principio della
apologetica –
E’ dogma di fede ed è nel simbolo che la Chiesa sia santa, ma
ardua è la definizione teologica.
La Chiesa è oggettivamente santa perché è il corpo di cui il
capo è l’uomo-Dio. E’ santa perché possiede l’eucaristia; E’ santa perché
possiede in modo infallibile e indefettibile la verità rivelata. E in questo è
da collocare il principio primo della apologetica cattolica. La Chiesa nel suo
corso storico non può esibire una sequela di azioni conformi alla legge
evangelica, ma può allegare un’ininterrotta predicazione della verità: la
santità della Chiesa va cercata in questa e non in quella. Perciò gli uomini
che appartengono alla Chiesa predicano sempre una dottrina superiore ai loro
fatti. Anche la Verità dunque è un costitutivo della santità della Chiesa
perpetuamente attaccata al verbo e perpetuamente contraddicente alla
corruttela, compresa la propria.
La santità della Chiesa si rivela in maniera “soggettiva”
nella santità dei suoi membri, che vivono in stato di grazia nel corpo di
Cristo. In modo evidente ed eminente appare in coloro che vengono canonizzati.
Paolo VI concede ai denigratori che “la storia della Chiesa
ha lunghe e molte pagine poco edificanti”, ma troppo debolmente discerne tra
santità oggettiva della Chiesa e santità soggettiva dei suoi membri: “La Chiesa
dovrebbe essere santa, buona, dovrebbe essere come l’ha pensata e ideata
Cristo, e talora vediamo che non è degna di questo titolo”. Sembra che il
Pontefice muti in una nota soggettiva una nota oggettiva. Dovrebbero i
cristiani essere santi, e lo sono in quanto graziati, ma la Chiesa è santa. Non
sono i cristiani che fanno santa la Chiesa, ma la Chiesa a fare santi i
cristiani. La Chiesa non ha né macchia né ruga (Ef. 5,27)e d’altronde tutti i
Padri riferiscono quella irreprensibilità assoluta non già allo stato
peregrinale e storico di essa, ma alla finale purificazione escatologica.
1.2 La cattolicità nella Chiesa. Obiezione. La
Chiesa come principio di divisione. Paolo VI –
Il 24 dicembre 1965 Paolo Vi
affermò: ”La Chiesa con il suo dogmatismo così esigente, così qualificante,
impedisce la libera conversazione e la concordia fra gli uomini; essa è nel
mondo un principio di divisione anziché di unione. Ora la divisione, la
discordia, al contesa come sono compatibili con la sua cattolicità e santità?
Alla difficoltà il Papa risponde che il cattolicesimo è un
principio di distinzione tra gli uomini, ma non di divisione. E la distinzione,
dice il Papa, “è come quella che importano la lingua, la cultura, l’arte, la
divisione”. E poi, correggendosi :”E’ vero che il cristianesimo può essere
motivo di separazione e di contrasti derivanti da ciò che di bene conferisce
all’umanità: la luce splende nelle tenebre e diversifica così le zone
dello spazio umano. Ma non è suo genio lottare contro gli uomini, ma se mai per
gli uomini”. Ma questo motivo apologetico appare debole e rischioso. Pareggiare
la varietà delle religione a quella delle lingue, delle culture e dei mestieri
appare rischioso perché si abbassa la religione che è il supremo dei valori. E
mentre non esiste un linguaggio vero, né un arte vera né un mestiere vero, cioè
dogmatismo esigente e qualificante, all’ordine della carità anzi della libertà,
al “rispetto di quanto c’è di vero e di onesto in ogni religione e in ogni
umana opinione, nell’intento specialmente di promuovere la concordia civile e
la collaborazione in ogni sorta di buone attività”. Ma in questo passo il
principio di unione tra gli uomini non è più la religione ma la libertà e
quindi risorge l’obiezione che il Pontefice credeva di aver sciolta. Occorre
produrre l’unione in un principio veramente unitivo, oltrepassante le divisioni
religiose, e per il Pontefice questo è la libertà.
Non si può dimenticare che nel testo sacro Cristo è
annunciato come bersaglio di contraddizione (Mt 25,31-46) e che la vita del
cristiano e quella della Chiesa sono descritte come una situazione di combattimento.
1.3 L’unità della Chiesa postconciliare –
Paolo
VI il 30 agosto 1973 piange su “la divisione, la disgregazione che
purtroppo s’incontra ora in non pochi ceti della Chiesa” e dice che “la
ricomposizione dell’unità spirituale e reale all’interno della Chiesa è oggi
uno dei più gravi e più urgenti problemi della Chiesa”. La situazione di scisma
è tanto più grave, perché quelli che si dividono pretendono di non essere
divisi e quelli cui spetta di dichiarare che i divisi son divisi aspettano invece
che gli scismatici si confessino tali.
Il 20 novembre 1976 il Papa ritorna sulla situazione “dei
figli della Chiesa i quali, senza dichiarare una loro rottura canonica
ufficiale della Chiesa i quali, senza dichiarare una loro rottura canonica
ufficiale con la Chiesa, sono tuttavia in uno stato anormale nei suoi
riguardi”. Queste asserzioni suonano soggettivistiche giacché si tratta di un
fatto che spetta alla Chiesa stabilire, non bastando il sentimento soggettivo
di essere unito alla Chiesa per far sussistere il fatto di unione.
Il Papa esprime il suo “grande dolore per il fenomeno che si
diffonde come un’epidemia nelle sfere culturali delle nostre comunità
ecclesiale”, usando una locuzione elusiva e diminuente perché il fenomeno
toccava in realtà la sfera gerarchica.
Il Papa derivava al disunione della Chiesa dal pluralismo:
questo dovrebbe contenersi nell’àmbito delle modalità onde si formula la fede,
ma trapassa invece nell’àmbito delle modalità onde si formula la fede. Nel
medesimo discorso il Papa vede distintamente che è impossibile che una chiesa
disunita faccia l’unione tra tutti i cristiani o fra tutti gli uomini.
1.4 La Chiesa disunita nella gerarchia –
Mons.
Gijsen, vescovo olandese, riferendosi al pluralismo nella Chiesa Olandese,
riferisce la impossibilità del confronto quando questo significa voler aderire
a una Chiesa altra e altri a un'altra. Sarebbe confronto tra Chiese e non
dentro la Chiesa.
A chi gli domandava se le divergenze fossero così grandi tra
i suoi confratelli nell’episcopato rispondeva che questi pretendono la Chiesa
romana essere una Chiesa a pari con l’olandese.
Il significato di questa testimonianza sulle discordie
intestine risalta se si rifletta come la solida concordia della Chiesa Romana
sia sempre contrapposta alla pluralità del protestantesimo.
Al Sinodo di Wurtzburg del 1974 si propone la
sacramentabilità dei divorziati bigami e la partecipazione degli eterodossi
all’eucaristia che l’episcopato germanico sconfessa, ma riproposti
identicamente all’episcopato elvetico, questo li accetta. Questo è l’effetto
della collegialità che, deliberando a maggioranza esautora ciascun vescovo
della minoranza.
Il Vescovo di Orleans difese i cappellani catecumenali che
la conferenza episcopale francese aveva disapprovato.
Mons. Arceo, vescovo di Cuernavaca, venne sconfessato dalla
Conferenza episcopale del Messico per aver sostenuto essere il marxismo una
componente necessaria del cristianesimo. Mons. Simonis vescovo di Rotterdam
appoggia le proposte di ordinare femmine e uomini uxorati, mente mons. G
Gijsen, vescovo di Roermond, si separa effettualmente dal resto dell’episcopato
olandese istituendo un seminario proprio e rifiutando la nuova pedagogia per la
formazione del clero. Avendo dichiarato mons. Simonis che l’affermazione secondo
cui la Chiesa cattolica è soltanto una parte della Chiesa è erronea, mons.
Ernst, Vescovo di Breda, lo smentisce e mons. Groot afferma che la dottrina di
Simonis è in contrasto “con l’insegnamento del Vaticano II”.
I vescovi italiani pronunciano l’incompatibilità col
comunismo e col marxismo ateo, quelli francesi lasciano i cattolici seguire le
opzioni politiche che desiderano e sopprimono i movimenti sociali
specificamente cattolico perché “nessun movimento può esprimere in se
stesso la pienezza della testimonianza cristiana ed evangelica”. Dunque
supponendo che tutte le forme di testimonianza siano specie equivalenti dello
stesso genere.
1.5 La Chiesa, disunita circa l’“Humanae vitae” –
L’occasione dell’enciclica diede luogo alla più generale e tracotante
manifestazione del dissenso intestino alla Chiesa. Di essa pubblicarono
documenti quasi tutte le Conferenze episcopali, ma con un giudizio di sindacato
quasi come se fosse caduto il principio che Prima sedes a nemine iudicatur. Il
dogma dell’infallibilità al Vaticano I fu contrastato, ma una volta definito
tutti gli oppositori nel giro di pochi mesi (tranne Strossmayer che tardò fino
al 1881) si allinearono, essendo assurdo che la Chiesa si trovi sottoposta a un
perpetuo referendum.
Avendo invece il Vaticano II statuito il principio della
collegialità e specie della corresponsabilità su tutto, l’enciclica di Paolo VI
divenne un testo suscettivo di disparate letture. Paolo VI compì l’atto più
importante del suo pontificato non solo per la materia in sé ma perché la
sentenza papale cadde sopra l’intestino dissenso della Chiesa, mettendolo in
luce.
Le obiezioni fatte all’enciclica riguardano sia il valore
autoritativo della promulgazione, sia la dottrina. Il card. Dopfner,
arcivescovo di Monaco, fautore dei contraccettivi dichiara: ”Adesso mi metterò
in relazione con gli altri vescovi per vedere come sia possibile offrire aiuto
ai fedeli”, sembrando che i fedeli vadano aiutati contro l’enciclica.
L’episcopato tedesco, in generale contrario ai contraccettivi,
aderisce all’ insegnamento argomentando però sul carattere non infallibile del
documento e concede ai fedeli di dissentire in teorica e pratica
rimandando ultimamente al lume privato della coscienza. Non significa rifiuto
dell’autorità, ma degli atti concreti di quell’autorità. Il rifiuto
dell’Enciclica continuò nel Sinodo svizzero, col Sinodo di Wurzburg e con la
Dichiarazione di Konigstein. E non cessa ancora oggi [metà anni ‘80]. Il
Katholikentag del 1982 ebbe un contrapposto parallelo e simultaneo di un
Katholikentag di base che riuniva cattolici dissenzienti che rivendicava la
promiscuità eucaristica, il sacerdozio delle donne, l’abolizione del celibato
dei preti e celebrano una Messa diversa.
Stessa divisione anche nella Chiesa inglese dove si fece
appello alla libertà di coscienza come regola regolante la moralità.
Nella Chiesa olandese l’opposizione fu netta e generale. Il
card. Alfrink professava l’enciclica non infallibile, mentre “la coscienza era
la norma più importante”. La stessa forza ultimativa della coscienza
individuale è il motivo dominate dei vescovi canadesi.
Più manifesta ostilità all’enciclica venne dai vescovi
francesi, perché si andava a insegnare che il dovere cede tutte le volte che
incontri una difficoltà “umanamente” insopportabile: invece, nella realtà, è
soltanto psicologico e soggettivo, mai oggettivo e morale, ed è l’errore che la
religione ha sempre combattuto.
In Italia la resistenza fu più sorda ma non meno estesa. Su
Famiglia cristiana (1976) un articolo di p. Haring difendeva la contraccezione
affiancandosi alle posizioni dei vescovi francesi. Sebbene l’Osservatore Romano
lo abbia confutato immediatamente il religioso continuò ad insegnare contro
l’enciclica arrivando a definire immorale il metodo della continenza periodica
raccomandata dal pontefice.
1.6 Lo scisma olandese –
Misero in questione
l’autorità del Papa quando questa non sia esercitata collegialmente. Al
Concilio pastorale olandese, grande assemblea rappresentativa di tutti i ceti
della Chiesa, presente l’episcopato. Questa assemblea, alla maggioranza di nove
su dieci, votò per l’abolizione del celibato dei presbiteri, per la
conservazione dei preti spretati negli offici pastorali, per le ordinazioni
femminili, per la partecipazione deliberativi dei vescovi ai decreti del
Pontefice e dei laici a quelli dei vescovi.
La risposta all’episcopato olandese di Paolo VI dà il tono
di tutto il pontificato. L’occhio vede il guasto e l’errore, ma la mano né con
medicina, né con cauterio, né con coltello si accosta al male per combatterlo e
sanarlo. Dopo aver denunciato lucidamente gli errori il Papa conclude così: ”La
nostra responsabilità di Pastore della Chiesa universale Ci obbliga a
domandarvi in tutta franchezza: che pensate che possiamo fare per rinforzare la
vostra autorità, per permettervi di superare le difficoltà presenti nella
Chiesa in Olanda?” Paolo VI offre ai vescovi olandesi il suo servizio per
aiutarli a rafforzare la loro autorità, mentre in effetti non la loro, ma la
propria veniva disconosciuta: per aiutarli, dice a superare le difficoltà della
Chiesa d’Olanda, mentre si tratta di difficoltà della Chiesa universale.
Nella risposta il card. Alfrink, riferendosi ai principali
punti biasimati dal Pontefice, ancora dichiarava al “Corriere della Sera” che
la questione doveva essere risolta non da una autorità centrale ma
“secondo il principio della collegialità, cioè dal collegio episcopale del
mondo intero, di cui è capo il Papa. Dimenticando però che il collegio è
consultivo e che la sua autorità, pur limitata, viene dal Papa. Dichiarando poi
che lo scisma poteva avvenire solo in materia di fede cadeva in errore giacché scisma
è la separazione dalla disciplina e il rifiuto dell’autorità. San Tommaso ne
tratta come di un peccato contro la carità, mentre l’eresia è contro la fede.
1.7 La desistenza dell’autorità. Una confidenza
di Paolo VI –
L’autorità di qualunque specie sia la società è funzione
necessaria della società, la quale è sempre una moltitudine di voleri liberi da
unire. Riduzione che non è ad unum di tutto ma, ma coordinamento di tutte le
libertà in un’unione intenzionale. Essa deve volgere le libertà degli uomini
associati al fine sociale, prescrivendo i mezzi, cioè l’ordine per conseguirlo.
Perciò l’atto dell’autorità è duplice: puramente razionale in quanto scopre e
promulga la regola dell’operare sociale; pratico in quanto comanda un tale
ordine, disponendo le parti dell’organismo sociale verso tale ordine. Questo
secondo atto dell’autorità è il governare.
Il carattere peculiare del pontificato di Paolo VI è la
propensione a spostare l’officio dal governo alla monizione, a restringere il
campo della legge precettiva e ad allargare quello della legge direttiva, la
quale formula una legge ma non annette obbligazione ad eseguirla. In questo
modo il governo della Chiesa risulta dimidiato e per dirla biblicamente rimane
abbreviata la mano di Dio (Is. 59,1). La breviatio manus può dipendere da più
ragioni: cognizione imperfetta dei mali, mancanza di forza morale, calcolo di
prudenza perché stima l’intervento di rimedio come aggravio del male.
Ma allo snervamento dell’autorità Montini era inclinato da
una sua disposizione d’indole, confessata al Sacro Collegio nel discorso del 22
giugno ’72:”forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io
vi abbia una qualche attitudine, o perché governi o salvi la Chiesa dalle sue
presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa e sia
chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva”. Ma appare difficile
pensare, sia in linea teologica che storica, che Pietro, deputato a condurre la
nave della Chiesa appaia ritroso a questo servizio e si rifugi nel desiderio di
patire per la Chiesa. L’officio papale prescrive infatti un servizio di
operazione e di governo che però è estraneo all’indole di Papa Montini.
Tra le parti integranti del supremo officio furono sempre
annoverati gli atti di governo, cioè di potestà iussiva (imperativa) e
obbligante senza i quali l’insegnamento delle verità di fede rimane pura
enunciazione teoretica e di scuola. Per mantenere la verità occorrono due cose.
Primo: RIMUOVERE L’ERRORE in sede dottrinale, il che si fa confutando gli
argomenti dell’errore. Secondo: RIMUOVERE L’ERRANTE, cioè deporlo dall’officio,
il che si fa per atto autoritativo della Chiesa. Se questo servizio vien meno
non sembra potersi dire che tutti i mezzi siano stati adoperati per mantenere
la dottrina della Chiesa.
Questa breviatio manus ha certamente origine dal discorso
inaugurale del Concilio che annunciò la rinuncia al metodo della condanna
dell’errore e fu praticato da Paolo VI per tutto il suo pontificato. Come
dottore si attenne a tutte le formule tradizionali, ma come pastore non impedì
che corressero le formule eterodosse, pensando che da sé stesse si
sistemerebbero in formule ortodosse. Gli errori da lui furono denunciati e la
fede cattolica mantenuta, ma la disformazione dogmatica non fu condannata negli
erranti e la situazione scismatica della Chiesa venne dissimulata e tollerata.
All’incompiutezza del reggimento papale cominciò a portar
riparo soltanto Giovanni Paolo II, sia condannando nominatim e rimuovendo i
maestri di errore, sia ristabilendo i principii cattolici nella Chiesa
d’Olanda, mediante il Sinodo straordinario dei vescovi olandesi convocati a
Roma.
Lo stile di Paolo VI è quello di addolorarsi, denunciare,
rivendicare, accusare, ma nell’atto stesso di rivendicare e accusare
l’autorità la immedesima in un monitorio, come se nella causa egli non fosse
una parte anziché un giudice.
Il più generale effetto di questa desistenza dell’autorità è
la generale disistima e inosservanza, giacché il suddito non può avere
dell’autorità una nozione superiore a quella che l’autorità ha di sé medesima.
E paradossalmente questa universale contestazione che rende la Chiesa attuale
così diversa dalla Chiesa storica e preconciliare, anziché fenomeno patologico
e anomalo sembra essere il proprio della religione autentica e sinonimo di
vitalità ecclesiale. Non c’è documento papale sul quale gli episcopati
nazionali non prendano posizione e dietro di essi, ma indipendentemente
da essi e reciprocamente contraddicendosi, teologi e laici. Così si ha una
molteplicità di documenti manifestanti una varietà che non è quella
dell’ordine, giacché in essi l’autorità, moltiplicandosi, si annulla.
1.8 Un parallelo storico. Paolo VI e Pio
IX –
Rosmini nel 1848 scrisse a Pio IX: ” Un principe che non impedisce l’anarchia
e neppure fa alcuno sforzo per impedirla che lascia fare tutto ciò che dichiara
di non volere e che indirettamente asseconda ciò che si fa contro le sue
espresse dichiarazioni, non sembra che soddisfi ai doveri annessi al
principato”. Ciò in relazione alla politica estera di Pio IX che per l’alto
riguardo al suo officio di pastore universale, rifuggiva a quelle alleanze di
guerra che il suo ufficio di principe prescriveva. Come il sacerdozio cattolico
sembrava impedire nel Papa la perfezione del principato civile così a Paolo VI
l’esercizio dell’autorità non ben compatire col ministero pastorale. Ma la
differenza è che in Pio IX la parte rinunziata era estrinseca, mentre per Paolo
VI la parte rinunziata è intrinseca al reggimento spirituale e rinunziandovi
dissesta l’intimo organismo della Chiesa fondata sul principio di dipendenza e
non su quello di libertà. Pio IX, mancando nel temporale, temeva di abusare
dello spirituale nelle cose politiche; Paolo VI completamente spogliato o quasi
di potere temporale, si rimetteva giustamente tutto allo spirituale, ma questo
lo dimidiava per timore di usarlo in maniera non spirituale. Emblematico
l’episodio del teologo di Tubinga Erbert Haag che negò la dottrina cattolica
del diavolo in Abschied vom Teufel per il quale fu iniziato a Roma un
procedimento contro di lui che fu subito abbandonato e la sola risposta fu un
documento della Congregazione per la dottrina della fede che riaffermava la
dottrina tradizionale. Lo Haag continuò a dogmatizzare contro i principi cattolici.
Il giorno dell’Immacolata nella Chiesa maggiore di Lucerna negò formalmente i
dogmi dell’Immacolata Concezione e del peccato originale. Sembra che l’autorità
episcopale creda potersi comprimere l’errore senza inibire l’errante che lo va
spargendo.
1.9 Governo e autorità –
La desistenza
dell’autorità non comporta in Paolo VI la desistenza dai principi dogmatici. Il
18 giugno 1970 Paolo VI parlò sul primato petrino e pur collocandolo sotto la
categoria dichiara però: “Il fatto che Gesù Cristo ha voluto che la sua
Chiesa fosse governata in spirito di servizio non vuol dire che la Chiesa non
debba avere potestà di governo gerarchico: la chiavi conferite a Pietro
dicono qualche cosa”. Il papa ricorda che il potere degli Apostoli non è
altro che il potere stesso di Cristo a loro trasmesso, e non tace che
esso è potestà in virga, e anche punitivo, e anche di consegnare a satana. E’
chiaro quindi che la desistenza dell’autorità che si accompagna in Paolo VI
all’affermazione dell’autorità senza Breviatio manus è lo stile di Paolo VI ma
non della Chiesa.
Quando il papa ricorda il titolo di servus servorum Dei
assunto da san Gregorio Magno, si ha badare che tale formula non porta un
genitivo oggettivo, quasi colui che serve i servi di Dio, ma un genitivo ebraico,
in senso assoluto, come in saecula saeculorum: la formula designa che il Papa è
il più servo dei servi di Dio, è il servo di Dio per eccellenza, non di quelli
che son servi di Dio.
1.10 Ancora desistenza dell’autorità. L’affare del catechismo francese –
Tale
desistenza dell’autorità fu proseguita anche da Giovanni XXIII. Il card.
Ratzinger in un discorso tenuto a Lione nel gennaio 1983 riprovò l’inspirazione
non corretta del catechismo francese. Sembrò un monito e un raddrizzamento. Ma
la desistenza dell’autorità già manifestata nel caso del catechismo olandese e
nella tenue condanna di Hans Kung alla cui eterodossia non fu posto alcun
limite, fece al cardinal Ratzinger ritrattare quasi subito la critica e diede
modo ai vescovi di pubblicare la ritrattazione. La ritrattazione del Card.
Ratzinger mostra a qual punto la forza dell’autorità romana si ritiri davanti
all’autodeterminazione episcopale. Benché il nuovo codice di diritto canonico
al can. 775 stabilisca che le Conferenze episcopali non possano promulgare
catechismi per il loro territorio senza previa approvazione della Santa Sede, i
vescovi francesi promulgarono senza approvazione e anzi proibirono l’uso di
ogni altro testo tra cui il Catechismo tridentino e di Pio X. Ratzinger che nel
suo discorso aveva parlato di “miserie della nuova catechesi” e di
“disgregazione”, sembra così lodare quella “miseria” e quella
“disgregazione”. La breviatio manus consiste nel ridurre l’autorità alla sola
monizione e consiste nel ridurre tutto a manifestazione puramente vocale e che
la voce della Chiesa sia divenuta pura Eco riflettente le variazioni del mondo.
Per questo la ritrattazione del card. Ratzinger arguisce un
abito della Chiesa postconciliare e manifesta i fenomeni maggiori che la
travagliano: scadimento dell’autorità papale, emancipazione degli episcopati,
disunione della Chiesa, declino della vis logica e dell’attaccamento alle
verità dogmatiche.
Il Card. Oddi in visita negli USA (1983) ammise la
disgregazione della fede: molti catechisti oggi selezionano nel depositum fidei
alcuni articoli da credere mentre tralasciano tutti gli altri. Dogmi come la
divinità di Cristo, la verginità di Maria, il peccato originale, la presenza
reale nell’eucaristia, l’assolutezza dell’imperativo morale, l’inferno, il
primato di Pietro vengono rifiutati da pulpiti e cattedre, da teologi e da
vescovi. Domandatogli la ragione per la quale non vengono rimossi i seminatori
di errori, come il padre Curran che impugna l’Humanae vitae e insegna la
liceità della sodomia. Oddi rispose che anche i vescovi sono uomini della fibra
di Adamo e che egli non crede che essi vogliano veramente ergersi contro le
verità di fede. E dichiarò: ”La Chiesa non infligge più pene. Essa spera di
poter persuadere gli erranti”. E sostiene che la Chiesa abbia scelto questa
condotta: ”forse perché non ha la cognizione esatta delle diverse situazioni di
errore, forse perché pensa inopportuno procedere con misure energiche, forse
anche perché non vuole eccitare uno scandalo anco più grande alla
disobbedienza. La Chiesa ritiene che sia meglio tollerare certi
errori nella speranza che, superate certe difficoltà, il prevaricatore abiuri
l’errore e torni alla Chiesa”.
Qui è confessata la breviatio manus. Si è convinti che
l’errore contenga in sé il medesimo principio di emendamento: basta lasciarlo
devolverlo perché si risani. L’idea della carità si fa coincidere con quella
della tolleranza, si fa prevalere la via dell’indulgenza su quella della
severità, si trascura il bene della comunità ecclesiale per rispetto
all’abusata libertà del singolo, si perdono il sensus logicus e la virtù di
fortezza propri della Chiesa. La Chiesa ha da preservare e difendere la verità
con tutti i mezzi di una società perfetta.
1.11 Carattere di Paolo VI – Autoritratto. Card Gut –
Ad alcuni sembra che Papa
Montini fosse un indole perplessa per soverchia ampiezza di vedute, come pensa
Jean Guitton. Altri invece sostengono un ampio disegno perfettamente fermo
nella mente del Papa. Mirando a un’accomodazione della Chiesa allo spirito del
secolo allo scopo di prendere la direzione dell’intera umanità in un ordine
puramente umanitario, Paolo Vi procederebbe cautamente ora volgendosi da un
lato ora all’opposto, non coatto ma volente, e sempre nella direzione del fine prefissato.
Secondo altri sussiste nella mente del papa tale disegno, ma il procedere per
contrapposti sarebbe dovuto alle spinte delle circostanze.
Il card. Gut prefetto della Congregazione per il culto
divino circa gli arbitrii sulla liturgia scrisse “Molti preti fanno ciò che a
loro piace. Si sono imposti. Le iniziative prese senza autorizzazione non si
riesce a farle arretrare. Nella sua grande bontà e saggezza il santo Padre
allora cede, spesso contro la sua volontà”. Vien da osservare che cedere davanti
a chi viola la legge non è né bontà né saggezza se cedendo almeno non si
protesti.
La facoltà di prendere la Comunione sulla mano, contro la
quale si erano pronunciati i due terzi dell’episcopato fu concessa prima ai
soli francesi, che l’avevano introdotta per abuso, e fu poi preteso che fosse
estesa a tutta la Chiesa. Che l’abuso diventi criterio per abrogare la legge
non sembra ammissibile. Eppure è ciò che accadde circa il modulo di riforma
della Messa, proposto ai Padri del Concilio e da essi rigettato, il quale sotto
influssi potenti, fu poi adottato e promulgato come rito universale.
1.12 Sic et non nella Chiesa postconciliare –
La desistenza
dell’autorità porta come effetto l’incertezza.
L’incertezza della norma, nascente dalla esitazione
dell’autorità, è lampante nella riforma liturgica promossa tumultuariamente con
ritrattazione di divieti, con allargamenti successivi di facoltà e con maniere
di procedere ad experimentum. Ne è venuta, oltre che per il principio di
creatività del celebrante, la più variegata pluralità di celebrazione: mentre
il rito ufficiale non ammetteva che quattro canoni, si vide il Canone
immillarsi e uscire libri su libri che propongono canoni nuovi, elaborati da
commissioni liturgiche diocesane e anche da privati, talora con l’approvazione
della Santa Sede.
Il caso più evidente di frammentazione del rito cattolico
per effetto della desistenza dell’autorità è la quasi totale scomparsa delle
rubriche precettive e il proliferare di formule raccomandative e desiderative,
nonché la moltiplicazione delle possibilità alternative.
1.12 Ancora la desistenza dell’autorità. La riforma del S. Offizio –
Avvenne col
Motu proprio integrae servandae (7 dicembre 1964) e la successiva notifica Post
litteras apostolicas (4 giugno 1965). La notificazione esprime nel modo più
esplicito la desistenza dell’autorità che non intende più obbligare mediante
una legge, ma rimette all’obbligazione che lega la coscienza alla legge
morale:”L’Indice dei libri proibiti rimane moralmente impegnativo, ma non più
forza di legge ecclesiastica con annesse censure”. Il supposto di tale
disobbligazione è che nel popolo cristiano sussista quella maturità
intellettuale e religiosa per cui l’uomo è lume a se stesso. Inoltre si legge
che la Chiesa ripone “la più ferma speranza nella sollecitudine vigile degli
ordinari”, che si è vista essere un modus irrealis.
Tutto lo spirito della riforma cela il principio dello
spirito privato che si trova immediate di fronte alla legge, senza mediazione
d’autorità, a cui si riconosce a priori quella maturità che nella disciplina
antica stava nella attività legislatrice della Chiesa. Ed è palese la
transizione fatta dall’ordine precettivo e proibitivo all’ordine puramente
direttivo ed esortativo che riprende l’errore, ma non riprende l’errante,
supponendo che l’errore generi da sé medesimo la correzione.
La Chiesa ha il dovere d’insegnare integra e pura la
dottrina e quello di preservare dall’errore i membri del consorzio ecclesiale.
Ma tale secondo dovere fu fatto coincidere col primo: basta che la Chiesa
insegni e il cristiano si preserverà da se stesso dall’errore, essendo capace
di dirigersi con la sua retta ragione.
Nell’Istituzione originaria di Paolo III nel 1542 il fine
della Congregazione era di “combattere le eresie e conseguentemente reprimere i
delitti contro la fede”. Per Paolo VI invece “sembra meglio che la difesa della
fede avvenga attraverso l’impegno di promuovere la dottrina, per cui mentre si
correggono errori e gli erranti vengono richiamati dolcemente a miglior
consiglio, gli annunciatori del Vangelo ricevono nuove forze” Come nel discorso
inaugurale, il metodo dell’amore si appoggia sopra un duplice supposto: a) che
l’errore, purché si lasci devolvere, riesce da sé stesso alla verità; 2) che
l’uomo per costituzione naturale o per punto di civiltà in cui si trova sia in
tale stato di maturità che “i fedeli seguano più pienamente e con più amore il
cammino della Chiesa … se viene dimostrata la natura della fede e la natura dei
costumi”.
1.13 Critica della riforma del S. Uffizio –
Il qui pro quo giuridico e psicologico
che giace al fondo della riforma è che si tratta di un Index librorum
prohibitorum e non di un Index autorem prohibitorum. È forse sbagliato
condannare un libro senza ascoltare le spiegazioni dell’autore? Sì, se il senso
di uno scritto si dovesse desumere dalle intenzioni dello scrittore e non dallo
scritto medesimo. Il libro è una cosa in sé che porta inerente, anzi che è il
proprio significato. E’ il contrassegno dello scrivere male il dire quel che
non si vuole. Le chiose che l’autore fa al libro, una volta uscito, non mutano
la natura del libro. Un libro a chi lo interroghi risponde sempre nello stesso
modo, con quel che le parole esprimono, prese nel loro significato.
L’intenzione dell’autore non può fare che le parole scritte, se esprimono
l’errore, non esprimano l’errore. La certezza del senso delle parole è il
fondamento di ogni comunicazione tra uomini.
1.14 Variazione della Curia romana. Difetto di acribia –
La foga di innovazione
investì l’intera Curia. Furono variati nomi e funzioni. Le variazioni dei nomi
non sono senza significato: la Congregazione de Propaganda fide divenne per
l’evangelizzazione dei popoli, la parola propaganda insinuando l’idea di
un’espansione del cattolicesimo in popoli infedeli laddove il concetto di
evangelizzazione è più generico. Un opinione consolidata ritiene che la Curia
abbia svolto un’azione frenante il rinnovamento conciliare. E’ vero il
contrario. I moti stessi di disobbedienza alle norme romane ebbero la loro
forza dalla successiva ratificazione della Curia che li eresse in legge gli
abusi.
Tra le variazioni che più spiccano è da notare la
degradazione della latinità curiale. Il latino dei Padri del Vaticano II fu
sovente deplorato come miserando dai Padri che pure approvavano il contenuto
dei documenti. La Gaudium et spes fu redatta prima in francese, violando il
canone dello stile curiale che tiene per autentico il testo latino e generando
incertezze nell’ermeneutica. E medesime incertezze si ravvisano nell’ordine
grammaticale e anche in termini di cultura difettosa o almeno di diligenza e di
esattezza che vanno a ledere l’autorità stessa dell’istituzione papale.
1.15 La desistenza della Chiesa nei rapporti con gli Stati –
Si manifesta come una
forma di condiscendenza con cui la Chiesa procede al generale processo di
distensione internazionale. Alludiamo al caso Mindszenty dalla sede primaziale
d’Ungheria, alla volontaria umiliazione della legazione pontificia durante le
celebrazioni del 1971 per l’insediamento ortodosso, quando il card. Willebrands
e tutta l’ambasceria papale ascoltarono senza motto o atto di rimostranza le
accuse mosse alla Chiesa romana. E alludiamo alla dimostrazione di simpatia di
Paolo VI verso la Chiesa cattolica scismatica cinese e più in generale
l’atteggiamento desistente della Chiesa verso lo Stato moderno.
La revisione del concordato italiano del ’29 esprime la
variazione della Chiesa nella sua filosofia e nella sua teologia. I nuovi Patti
restringono in 14 articoli i 40 del recente concordato. Questo assottigliamento
arguisce che molte materie miste sono abbandonate alla potestà civile. Si
considera come non più in vigore l’articolo secondo cui la religione cattolica
come sola religione dello Stato italiano, dispositivo che implica l’abbandono
del principio cattolico secondo cui dell’uomo oltrepassa l’ambito individuale e
investe la comunità civile. Il riconoscimento di Dio è un dovere non solo
individuale, ma sociale. Anche se si vuol respingere l’antico dettato come non
consentaneo all’indole dei tempi restava la sua assunzione almeno in linea
storica, cioè prescindendo dal valore ultrastorico della religione e parte
integrante e informante della vita storica della nazione italiana. Si
poteva considerare, attraverso una maggiore finezza dell’azione
diplomatica, che quel principio non già si considera “non più in vigore” bensì
che la Santa Sede prende atto che lo “Stato italiano dichiara di non
considerarlo più in vigore”. La variazione è evidente: la Chiesa oggi chiama
laicità ci che ieri chiamava laicismo.
La seconda variazione concerne il regime matrimoniale. Col
Concordato del ’29 l’Italia riconosceva gli effetti civili al matrimonio
canonico obbligatoriamente trascritto nell’anagrafe civile. Coll’introduzione
del divorzio il regime fu unilateralmente variato: al coniuge di una persona
divorziata lo Stato ritira lo status di coniuge che la Chiesa le riserva in
perpetuo. L’art. 8 del codice dell’84 riconosce gli effetti civili al
matrimonio canonico ma dà allo Stato la facoltà di negarlo quando le condizioni
del diritto canonico non rispondono in casu alle norme del diritto civile.
La terza variazione tocca il regime scolastico. In luogo
dell’obbligo sancito da Concordato del ’29 di seguire l’insegnamento della
religione cattolica l’art. 9 del nuovo stabilisce che la Repubblica
“riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principii
del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano,
continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.
E’ riconosciuto a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi
di tale insegnamento” diritto che spetta a studenti e genitori. La religione
cattolica non fa più parte dell’assiologia (dell’universo dei valori) della
società italiana e non obbliga più. Non tanto la religione cattolica in quanto
cattolica che lo Stato riconosce, bensì la religione cattolica in quanto forma
storicamente rilevante della religiosità.
Neppure su un punto vitale della politica scolastica i
negoziatori vaticano abbandonarono la linea della condiscendenza e della
rinunzia. La richiesta di sovvenzioni dello Stato alle scuole private o alle
famiglie che si avvalgono delle scuole non statali non fu difesa né divenne un
punto cardinale della trattativa.
“Relazioni internazionali”, ricordando la dottrina di Pio XI
circa la superiorità obiettiva dei fini della Chiesa, commentò la revisione del
Concordato come una manifestazione esplicita di ”quanto profondamente la
Chiesa cattolica sia cambiata in questi anni”.
Mentre per l’ “Osservatore Romano” il nuovo Concordato era
“solido e radicato frutto dei Patti del 1929” e si afferma che “restano intatti
i principi della religione cattolica”. Che si faccia questa affermazione è
ovvio, cioè, naturalmente, restano intatti a prescindere dal Concordato, ma non
restano intatti nella legge, nel costume, nella vita sociale dello Stato che
pratica e professa il contrario.
Lo stesso Papa affermò:” La revisione del Concordato è segno
di rinnovata concordia tra Stato e Chiesa in Italia”. Ma il divorzio non
discorda dall’indissolubilità? L’aborto non contravviene al divieto di uccidere
intimato dalla morale naturale? L’indifferentismo della scuola pubblica non
stride contro il dovere cattolico di istruirsi nella propria religione? In
realtà nell’assiologia della repubblica italiana hanno luogo
l’alfabetizzazione, la cultura fisica, la sanità, il lavoro, la sicurezza
sociale, le arti e le lettere, ma quel valore che giusta la dottrina cattolica
è il valore originario e tutti li consuma ne è escluso.
1.16 La Chiesa di Paolo VI. I discorsi di settembre 1974 –
La disposizione di Paolo
VI di dissimulare le difficoltà non poté continuare nella sua mente. Ciò
avvenne coi due discorsi del 11 e 18 settembre ’74. Il dato emergente è da
Occidente e da Oriente: “la massiccia avanzata del secolarismo
scristianizzatore” Dopo aver riconosciuto l’inimicizia teorica e pratica
del mondo moderno con la religione in genere e con la cattolica in particolare,
il Papa abbandonandosi a un moto di spirituale tristezza confessa che non solo
la religione sembra non avere prospera esistenza in un tale mondo ma che “a chi
osserva le cose superficialmente, la Chiesa sembra impensabile ai nostri giorni
e sembra destinata a spegnersi e a lasciarsi sostituire da una più facile e
sperimentabile concezione razionale e scientifica del mondo, senza dogmi,
senza gerarchie, senza limiti al possibile godimento dell’esistenza, senza la
Croce di Cristo”. La Chiesa prosegue rimane una grande istituzione ma “essa è
ora, per certi riguardi, in gravi sofferenze, in radicali opposizioni, in
corrosive contraddizioni”. Il Papa mette in dubbio se il mondo ha ancora
bisogno della Chiesa per apprendere i valori di carità, di rispetto dei
diritti, di solidarietà, dal momento che “tutto questo, e apre assai meglio, lo
fa il mondo” e che al riuscita del mondo in questi valori sembra giustificare
l’abbandono delle osservanze religiose da parte di intere popolazioni,
l’irreligiosità del laicismo, l’emancipazione della legge morale, la defezione
dei preti.
Importante il riconoscimento del vacillare della Chiesa
dovuto a forze interne: ”Grande parte di essi mali non assale la Chiesa dal di
fuori, ma l’indebolisce, la snerva da di dentro”. La novità non consiste del
sorgere dei mali dal ceto clericale, sempre in passato i mali ebbero origine di
lì, ma dal fenomeno dell’ “autodemolizione”.
1.17 Irrealismo intermittente di Paolo VI –
Il superamento della tristezza in Paolo
VI avviene in due maniere. Quella legittima, necessaria e tradizionale consiste
nell’introdurre l’interpretazione filosofica e teologica propria del
cattolicesimo riguardando i fatti sotto quel lume. Quella illegittima è fondata
sulla gran legge psicologica del gravissimus mentis error, per cui lo spirito
ripugna a riconoscere quel che pur conosce, perché gli è spiacente. Lo sente
nel contatto col reale ma non lo dice né agli altri né a se.
Nonostante la gravità della situazione denunciata il Papa
vede anche un qualcosa di positivo anzi “meravigliosi segni di vitalità, di
spiritualità, di santità” li vede ma indistintamente e li annuncia, trasportato
com’è dalla sua immaginatività ideativa. Persino nell’eresia stessa della
Presenza reale, trapassata vigorosamente nella Mysterium fidei il Papa trova
ragioni di relativo plauso, giacché gli appare “il desiderio lodevole di
scrutare così gran mistero ed esplorarne le inesauribili ricchezze”.
Ma anche in altre allocuzioni la propensione fa che
Paolo VI prenda il figurato del suo pensiero per il consistente dei fatti. Per
una sorta di generale sineddoche qualche parcella, anche minuta e irrilevante,
è affetta da un valore esponenziale illusorio e viene riportata a una scala
maggiore divenendo indizio di fatti generali.
Il 23 giugno 1975 il Papa esaltò “la grandissima consonanza
di tutta la Chiesa col suo supremo pastore e con i propri vescovi” proprio
mentre tutti gli episcopati del mondo giudicano le encicliche papali e hanno
dottrine particolari. Tre settimane dopo però ingiungeva: ”Basta con il
dissenso interno alla Chiesa, basta con una disgregratrice interpretazione del
pluralismo, basta con l’autolesione dei cattolici alla loro indispensabile coesione”.
Similmente il dire che “il Concilio ha fatto comprendere la
dimensione verticale della vita” suppone che la Chiesa preconciliare si
volgesse al mondo piuttosto che al vertice contraddicendo l’intento precipuo
professato dal Concilio di correggere semmai l’indirizzo del cattolicesimo
attemperandolo all’orizzonte della storia.
Dice ancora il Papa:”i frutti della riforma liturgica
appaiono oggi nel loro splendore a poche settimane avanti la cattedrale di
Reims, consenziente il vescovo, subiva una profanazione tale che ne venne
richiesta la riconsacrazione e in Francia si moltiplicavano le liturgie
arbitrarie nel disprezzo delle norme romane e la Missa cum pueris eccitava vive
rimostranze.
Ancora dichiarava che “gli insegnamenti del Concilio sono
entrati nella vita quotidiana e son divenuti sostanza corroborante del pensiero
e della vita cristiana”
Se per vita cristiana il Papa intende quei ristretti circoli
in cui si è ritratta l’asserto regge, ma se la diagnosi papale riguarda il
mondo intero allora troppo si oppongono a quelle parole il degrado del costume,
la violenza civile, la costituzionalizzazione dell’ateismo (fenomeno novissimo
nell’umanità), divorzio, aborto, eutanasia e il cinico disprezzo del diritto
delle nazioni.
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