giovedì 18 novembre 2010

Invettiva anti-Hitler di Pio XII censurata dai vescovi tedeschi (Galeazzi)



GIACOMO GALEAZZI

«Proviamo una profonda tristezza per tutti quelli che sono venuti a mancare al giuramento di fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. È scoccata l'ora, in cui essi, che il nostro amore e le nostre preghiere seguono anche sulla loro strada falsa e sbagliata, capiscano che cosa li chiama, perchè hanno sacrificato il timor di Dio per timore degli uomini, l'Eterno per le cose temporali». Sono parole di Pio XII in una lettera ai cattolici tedeschi scritta nel momento della massima tensione tra Santa Sede e Governo del Terzo Reich a motivo del radiomessaggio natalizio del 1942. Papa Pacelli cheise, sottolinea oggi Civiltà Cattolica che ne pubblica il testo, che fossero i vescovi del Paese «a decidere se e quando farla conoscere ai fedeli considerando le difficoltà e i pericoli del tempo presente» perchè, come precisava una nota di accompagnamento al testo, «nessuno possa in alcun modo sospettare che l'Augusto Pontefice, mentre infuria la guerra, intenda fare qualche cosa che possa nuocere al popolo tedesco». «Ma questo - commenta padre Giovanni Sale, autore dell'articolo - significò rimandare di quasi un anno la diffusione della lettera papale: il che equivaleva a renderne inefficace la portata e vanificare il fine per cui era stata scritta». «Il cardinale Bertram, che diede notizia in Vaticano dell'avvenuta recezione della lettera non tenne però informata la Santa Sede sulla sua decisione di non diffondere, almeno per il momento, il documento pontificio; tanto che la Segreteria di Stato nel mese di marzo dovette rivolgersi al nunzio, per chiedere notizie circa il destino di tale lettera. Il modo in cui era stata gestita l'intera questione - conclude padre Sale - creò qualche imbarazzo in Vaticano; il Papa però non volle in nulla modificare l'indirizzo da lui stesso dettato in tale materia: dovevano essere i vescovi a decidere in loco ciò che doveva o non doveva essere fatto per il maggior bene della Chiesa».

La Stampa

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