di Don Giuseppe Rottoli
Mercoledì 3 settembre 2008, sul quotidiano L’Osservatore
Romano apparve un articolo di Lucetta Scaraffia, professoressa, Membro del
Comitato nazionale di bioetica dal titolo: “A quarant’anni dal rapporto di
Harvard - I segni della morte”. Leggiamo all’inizio di questo articolo:
«Quarant’anni fa verso la fine dell’estate del 1968, il cosiddetto rapporto di
Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull’arresto
cardiocircolatorio, ma sull’encefalogramma piatto: da allora l’organo
indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello.
Si tratta di un mutamento radicale della concezione della
morte – che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale,
ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organi – accettato da quasi
tutti i paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti) […]. La
giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare
definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche,
che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la
disintegrazione del corpo […]. Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo
scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de
Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (ed. Rubbettino), i
cui contributi - di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei –
sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell’essere
umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte
cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al
concistoro straordinario del 1991 dal Cardinal Ratzinger nella sua relazione
sul problema delle minacce alla vita umana: “Più tardi, quelli che la malattia
o un incidente faranno cadere in un coma ‘irreversibile’, saranno spesso messi
a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno,
anch’essi, alla sperimentazione medica (‘cadaveri caldi’)” […]. La Ponficia
Accademia delle scienze – che negli anni Ottanta si era espressa a favore del
rapporto di Harvard – nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su ‘I segni
della morte’».
Questo articolo è stato stimolato anche dal libro del
professor Paolo Becchi pubblicato recentemente, Morte cerebrale e
trapianto di organi, (ed. Morcelliana) (1). Nel presente articolo non potremo
trattare tutto l’argomento, ci limitiamo a dare alcune citazioni per
permettere, a chi ne è interessato, un approfondimento.
IL NOCCIOLO DEL PROBLEMA
Il prof. Evers, nel già citato libro Finis Vitae (2)
afferma: «Dire che un paziente collegato alla ventilazione artificiale e
dichiarato “cerebralmente morto” è un corpo che sicuramente morirà e pertanto
non è più una persona, contrasta con la realtà. Si deve usare la massima
attenzione a non dichiarare morta una persona, anche un momento prima del
fatto, in quanto sarebbe una fondamentale ingiustizia. Una persona che sta
morendo è ancora viva, anche un momento prima della morte, e deve essere
trattata come tale. Per concludere, crediamo che ci possa essere la distruzione
dell’intero encefalo, ma non sono stati individuati criteri che siano stati
stabiliti per determinarla in modo affidabile. Una cessazione della funzione
cerebrale non è la stessa cosa della distruzione. Nella situazione attuale
della medicina, un paziente con distruzione dell’intero encefalo è, al massimo,
soltanto ferito mortalmente, ma non ancora morto. La morte non dovrebbe essere
dichiarata a meno che non ci sia la distruzione dei sistemi respiratorio,
circolatorio e dell’intero encefalo».
Alle stesse conclusioni arrivano altri esperti, ad es. il
prof. Wanatabe (3) scrive: «Lo stato della morte cerebrale al massimo
rappresenta la “predizione della imminente morte di una persona”, ma
assolutamente non la “conferma della morte”, cosa che anche i suoi sostenitori
peraltro ammettono».
A pagina 107 del suo libro, il prof. Becchi cita un famoso
neurologo: «Ciò che in tal modo Shewmon(4) mette radicalmente in discussione è
la tesi secondo cui l’encefalo è l’organo responsabile dell’integrazione delle
parti corporee che rendono l’organismo un tutto organizzato e funzionante. Su
questa tesi si è costruita la giustificazione della morte cerebrale: la
cessazione delle funzioni dell’encefalo determinerebbe la disintegrazione
dell’organismo che abbandonato a se stesso, diverrebbe una mera collezione di organi.
Contro questa teoria Shewmon avanza la propria tesi: “il sistema critico” del
corpo non è localizzabile in un singolo organo sia pure importante come
l’encefalo».
ORGANI FRESCHI
Per poter effettuare i trapianti di organi dispari,
occorrono organi freschi che non si possono ottenere da chi è già cadavere,
altrimenti falliscono subito. Questa verità ce la confermano tutti gli esperti;
per es. il dott. Hill (5) scrive: «Dopo la morte, e talvolta persino prima, gli
organi e i tessuti cominciano a degenerare. Alcuni di essi, come le cornee,
possono rimanere vitali per molte ore dopo la morte determinata dall’arresto
cardiopolmonare. Altri, come il cuore, i polmoni ed il fegato si deteriorano
così rapidamente che devono essere espiantati da corpi vivi… I primi tentativi
di impiegare organi oltre alle cornee ed ai reni, prelevati dai cadaveri
fallivano, perché tali organi non ricuperavano le funzioni dopo il periodo di
ischemia calda (cioè dopo la cessazione della circolazione, n.d.r.). Il
cambiamento nella certificazione della morte attraverso il test del tronco
encefalico, consentito nel 1979, facilitò i trapianti di cuore, polmone e
fegato rendendo possibile la rimozione di organi vitali prima che venissero
spente le macchine per il supporto artificiale – senza il rischio di
conseguenze legali che avrebbero altrimenti accompagnato tale procedura».
Lo stesso discorso vale per le altre certificazioni di
“morte cerebrale” accertate con altri sistemi clinici (EEG, angiografia, ecc.)
come vedremo in seguito citando altri dottori o professori.
Anche il prof Weaver (6) conferma: «Dal momento che gli
organi prelevati da un paziente non sono più adatti all’impianto in un altro
soggetto appena qualche minuto dopo la “vera” morte, questi organi devono
essere ottenuti da un paziente in vita (“donatore”), il cui cuore e polmoni
intatti continuano a nutrire e quindi a proteggere gli organi vitali dalla
disintegrazione che li renderebbe inutilizzabili per il trapianto. Ovviamente
rimuovere gli organi vitali (quali il cuore, entrambi i polmoni, il fegato,
entrambi i reni, il pancreas, l’intestino tenue ecc.) causerà la morte del
‘donatore’».
LA VITA, L’ANIMA E LA MORTE
Quando san Tommaso definisce la vita e dunque
correlativamente la morte, riprende la definizione (analogica) di Aristotele:
«La vita è un movimento che viene dall’interno - Vita est motus ab intrinseco»
(7). Ciò che distingue gli esseri inanimati dagli esseri animati (vegetali,
animali e uomo, n.d.r.) è che il principio del loro movimento viene
dall’interno e non è imposto loro dall’esterno. Quando una pietra si muove è
perché essa è stata mossa da qualcuno o da qualcosa. Invece, il vivente ha in
se stesso la sorgente del suo movimento (spostamento, nutrizione, crescita,
riproduzione) (cfr. Courrier de Rome, giugno 2008).
Il principio che dà la vita agli esseri animati è l’anima e,
come ci conferma il prof. Byrne, non è il cervello a rendere viva una persona
ma l’anima (8).
Da parte sua il prof. P. Pasqualucci deduce: «Il permanere
di tanti molteplici “segni di vita” (come rivedremo tra qualche paragrafo,
n.d.r.) nei pazienti “cerebralmente morti”, fa inoltre ritenere che ci sia
una dimensione della coscienza più profonda di quella lesa gravemente dal danno
cerebrale, dimensione che rinvia all’esistenza di ciò che si è sempre chiamato
anima».
“Per san Tommaso d’Aquino che segue Aristotele – spiega il
prof. Potts (9) - l’anima è integralmente legata nel corpo. Egli ritiene che
“l’anima umana è la forma del corpo (Summa Theol. I, q. 76, a. 1). Per
l’Aquinate la forma è il principio dell’essere, dell’attualità, mentre la
materia è il principio della potenzialità. L’anima è il nome della forma delle
cose viventi, incluse le piante e gli animali non umani, che serve come
principio di vita e di ogni attività in ogni organismo. L’anima nell’uomo,
precisa il professore, è la parte spirituale che rende il corpo un corpo umano
e dà forma, vivifica, sviluppa, unifica e fonda le funzioni biologiche del
corpo. Dal momento che essa anima e unifica l’intero corpo, non solo una particolare
parte del corpo, l’anima è nella totalità del corpo”.
Il neurologo Shewmon (10) ci ricorda che: «Nella tradizione
aristotelica-tomistica, l’anima umana non è semplicemente uno spirito, ma la
“forma sostanziale” o principio vitale del corpo. Rispetto alle anime delle
piante e degli animali l’anima dell’uomo possiede una dimensione spirituale che
è il fondamento ultimo degli atti ibridi spirituali/fisici (che implicano
necessariamente l’attività cerebrale ma sono intrinsecamente irriducibili alla
sola attività fisica del cervello), come l’autocoscienza, la formazione di
concetti astratti e di volizione […]. L’anima umana utilizza il cervello come
strumento per le corrette funzioni mentali umane, ma è essa stessa il
fondamento per quegli aspetti spirituali immateriali del funzionamento mentale
che sono intrinsecamente irriducibili all’attività elettrochimica o ad altre
attività fisiche del cervello».
«La morte non può identificarsi con il venir meno delle
funzioni cerebrali – ha affermato il prof. Byrne – devono cessare anche quelle
respiratorie e circolatorie perché un paziente possa qualificarsi come morto.
Infatti non è il cervello a rendere viva una persona bensì l’anima. Se la
scienza giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la
morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione dell’attività
cardiocircolatoria e respiratoria è perché l’esperienza dimostra che
all’arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis (rigidità
cadaverica) e quindi l’inizio della disgregazione del corpo» (11).
Il prof. Seifert riassume bene: «La più sorprendente prova
empirica a sostegno della tesi che la mente non può essere incarnata
esclusivamente negli emisferi cerebrali è fornita da studi intrapresi da David
Alan Shewmon su bambini idroanencefalici, nei quali è stato dimostrato che
anche il tronco encefalico può assumere alcune delle funzioni degli emisferi
cerebrali» (12).
ALCUNE CONTRADDIZIONI
Il prof. R. Weber (13) afferma: «C’è un’evidente
autocontraddizione. Da una parte il concetto di morte cerebrale è basato sulla
cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, che sono viste come la
“condizione fisica insostituibile di tutta la vita emotiva e fisica. Dall’altra
parte, i pazienti in coma manifestamente irreversibile e i bambini anencefalici
vengono ritenuti vivi nonostante abbiano perso in maniera irreversibile, o
forse non abbiano mai avuto, “esperienze coscienti specificatamente umane”. Lo
stato vegetativo persistente viene visto come uno “stato di vita vegetativa”.
Questi pazienti vivono interamente senza le condizioni fisiche per una vita
emotiva o psichica, e malgrado tutto si è concordi sul fatto che essi sono
vivi. Eppure questo rompe completamente con il fondamento del concetto di morte
cerebrale, vale a dire il cervello come condizione dell’intera vita emotiva e
psichica».
Nella sua relazione il giudice Beckmann (14) puntualizza:
«Se la perdita delle funzioni cerebrali implica l’assenza dello spirito umano,
e se tale assenza consente di dichiarare la morte dell’essere umano, allora
anche gli embrioni umani si potrebbero ritenere “morti” fino a che l’encefalo
non si è sviluppato. Ma ciò non è plausibile. L’embrione allo stadio iniziale
non è morto, è decisamente vivo, così da generare un encefalo».
Anche il prof. Shewmon conclude: «Le piante e gli embrioni
non hanno un organo di integrazione centrale; l’integrazione è piuttosto un
fenomeno emergente chiaramente non localizzabile che coinvolge l’interazione
reciproca tra tutte le parti» (15).
OLTRE VENT’ANNI IN STATO DI MORTE CEREBRALE
Il prof. Becchi (16) riporta il caso studiato dal prof.
Shewmon: «Lasciate che vi illustri il caso di TK, colui che detiene il record
di sopravvivenza. All’età di 4 anni egli contrasse la meningite, che causò un
aumento della pressione intracranica al punto che le ossa del cranio del
bambino si divisero. Esami multipli sulle onde cerebrali diedero risultati
negativi e nei successivi 14 anni e mezzo non sono stati osservati né
respirazione spontanea né riflessi del tronco cerebrale. I medici suggerirono
di interrompere il supporto vitale, ma la madre non ne volle sapere. Il decorso
iniziale fu molto variabile, ma alla fine fu trasferito a casa, dove egli resta
collegato ad un ventilatore, assimila il cibo che arriva allo stomaco
attraverso un sondino, urina spontaneamente, e richiede poco più di
un’assistenza infermieristica. In stato di “morte cerebrale” egli è cresciuto,
ha superato infezioni e le sue ferite si sono rimarginate. La madre di TK mi
diede il permesso di esaminare il ragazzo e di documentare fotograficamente
ogni cosa. Mi convinsi che egli non aveva nessuna funzione del tronco
cerebrale. La pelle del suo viso e della parte superiore del torso, tuttavia,
si chiazzò quando pizzicai varie parti del suo corpo, aumentarono la frequenza
cardiaca e la pressione sanguigna. Questa risposta agli stimoli, mediata dal
midollo spinale, non potè essere suscitata a livello del viso, i cui impulsi
sensoriali vengono elaborati nel tronco cerebrale, assente nel ragazzo. Ad ulteriore
conferma della diagnosi, i potenziali evocati non mostrarono risposte corticali
o del tronco, un angiogramma a risonanza magnetica non mostrò flusso sanguigno
intracranico, una risonanza magnetica rivelò che l’intero cervello, incluso il
tronco, era stato sostituito da un’ombra di tessuti e da fluidi proteici
disorganizzati. TK ha molto da insegnare a proposito della necessità del
cervello per l’unità integrativa somatica».
Lo stesso prof. Shewmon (17) riferisce: «TK spirò dopo 20
anni e mezzo in stato di morte cerebrale. Fu eseguita soltanto un’autopsia
dell’encefalo, con dati particolarmente interessanti che confermarono in
maniera definitiva la distruzione dell’intero encefalo e del tronco encefalico.
Sono contento che l’autopsia e le pubblicazioni siano stati opera di medici con
cui non ho avuto alcun rapporto e che non avevano uno speciale interesse per la
morte cerebrale. E’ chiaro dalle loro scelte di parole ciò che tutti e quattro
i coautori consideravano fosse lo stato di vita/morte di TK. E’ morto all’età
di 24 anni per complicanze della meningite tipo B dell’H. Influenzae contratta
a quattro anni e mezzo […]. I reperti patologici dell’autopsia
confermarono che il suo encefalo era stato distrutto dagli eventi associati
all’episodio della meningite di tipo B e dell’H. Influenzae, mentre il corpo
era rimasto vivo (morte cerebrale con un corpo vivente) per altri due decenni,
una durata di sopravvivenza successiva alla morte cerebrale che supera di molto
quella di ogni altro rapporto» (18).
«Anche se l’encefalo è distrutto – conclude il prof. Shewmon
– rimane ancora il resto del sistema nervoso: il midollo spinale con le sue
funzioni integrative intrinseche e la sua rete di comunicazione a doppio senso
con quasi tutte le altre parti del corpo attraverso i nervi periferici e
autonomi. Per il semplice fatto che queste parti del sistema nervoso non sono
associate direttamente alle funzioni mentali, non dovrebbero essere
sottovalutate in merito al loro ruolo nel mantenimento di un “organismo come un
tutto» (19).
COMA CEREBRALE E CORPO VIVO
Citiamo le relazioni di alcuni professori riguardo al fatto
che la vita nei cosiddetti “morti cerebrali”, nonostante le apparenze,
continua.
Scrive il prof. P. Byrne (20): «Quando un paziente ha una
lesione o una patologia cerebrale, per la quale è richiesto il trattamento con
il ventilatore (comunemente anche detto, in modo non esatto, respiratore), il
ventilatore muove l’aria, l’ossigeno e l’anidride carbonica. Lo scambio di
ossigeno e anidride carbonica è intrinseco al sistema respiratorio. La
circolazione è intrinseca al cuore e al sistema circolatorio. Perché la vita
della persona sia supportata da un ventilatore, molti organi e sistemi,
compresi fegato e reni, devono essere integri e normalmente funzionati. Il
medico ha il privilegio di esaminare e trattare quel paziente e di prenderne
cura. Il medico non deve uccidere, non deve fare del male e non deve accelerare
la morte.
La guarigione si verifica soltanto nei viventi. Appena si
crea una lesione esogena o endogena in un tessuto, nel tessuto connettivo
vascolarizzato avviene una complessa reazione di guarigione chiamata
infiammazione. La guarigione comincia immediatamente nel sito della lesione.
Occorrono neutrofili, eosinofili, linfociti, basofili e piastrine. Gli ormoni
prodotti come parti del sistema endocrino sono portati sul sito della lesione
dal sistema circolatorio. I prodotti originatisi con la lesione vengono
raccolti e trasportati dalla circolazione al fegato, milza e reni per la
disintossicazione ed escrezione. L’infiammazione è seguita dalla rigenerazione.
La guarigione avviene soltanto nei vivi con un sistema circolatorio integro e
funzionate. Non ci può essere vera guarigione dopo la vera morte. La guarigione
è riscontrabile nei pazienti dopo la dichiarazione di “morte cerebrale”, ma
prima dell’asportazione degli organi vitali. Ad esempio, se un taglio venisse
eseguito attraverso la pelle nei tessuti sottocutanei di un paziente
“cerebralmente morto” prima dell’asportazione degli organi vitali, si avrebbe sanguinamento
dalla ferita e la guarigione inizierebbe immediatamente, perché quel paziente
non sarebbe veramente morto. Se fosse veramente morto e se gli fosse fatto un
taglio attraverso la pelle fino al tessuto sottocutaneo, ci sarebbe
trasudazione di fluido, ma non sanguinamento attivo. Il processo di guarigione
non avverrebbe mai, perché non ci sarebbe la circolazione a condurre le cellule
guaritrici dei globuli bianchi e gli ormoni sul luogo della lesione e né alcun
modo per eliminare i prodotti di scarto per la disintossicazione ed escrezione.
Non ci sarebbero cellule vive a riunire insieme i tessuti. La guarigione
avviene nelle persone dichiarate “cerebralmente morte”, ma non si verifica mai
dopo la vera morte».
Il neurologo statunitense Shewmon afferma (21): «Ma i corpi
di TK e di altri sopravissuti di lunga durata in condizioni di morte cerebrale
mostrano molte proprietà olistiche (Olismo: teoria secondo cui l’organismo
costituisce una totalità organizzata non riconducibile alla semplice somma delle
parti componenti), come ad esempio una complessa omeostasi di centinaia, se non
di migliaia, di sostanze chimiche interagenti ed enzimi, assimilazione di
elementi nutritivi ed eliminazione degli scarti, crescita proporzionata,
mantenimento della temperatura corporea (benché inferiore al normale e con
l’aiuto di coperte), guarigione delle ferite, superamento delle infezioni,
capacità di ricupero da malattie serie abbastanza da richiedere ricovero
ospedaliero e successive dimissioni, risposte sistemiche allo stress e a
stimoli nocivi, equilibrio di risposta delle varie funzioni endocrine e così di
seguito. Tra i casi oggetto del mio studio un ragazzo di 13 anni, da me
personalmente visitato in una struttura infermieristica specializzata,
raggiunse la pubertà durante la morte cerebrale».
LA QUESTIONE DELL’ANESTESIA
Il Dr. Hill afferma: «È sempre necessario paralizzare il
donatore a cuore battente per evitare movimenti e rendere possibile
l’intervento chirurgico, e la maggior parte (ma non la totalità) degli anestesisti
somministra la stessa anestesia generale che impiega per qualsiasi altra
operazione importante su un paziente vivo. Altri, a causa del paradosso di
anestetizzare un paziente ormai certificato come morto, evitano l’anestesia ma
controllano le risposte con altri farmaci non anestetizzanti. Anche Pallis e
Harley, i quali ritengono che la morte del tronco encefalico sia la vera morte
scrivono: “I donatori di organi dovrebbero ricevere l’anestesia esattamente
nello stesso modo di un paziente sensibile… Un’anestesia adeguata dovrebbe
anche placare qualunque paura di sensibilità residua”.
Non dovrebbe di certo esserci bisogno di placare simili
paure, ma esse chiaramente esistono nella mente di alcuni anestesisti e del
personale della sala operatoria così come dei parenti dei pazienti. Non è
naturale osservare così tanti segni di vita in qualcuno che si presuppone
essere morto. Come è stato osservato da altri, nessun patologo eseguirebbe
subito un esame post mortem su un corpo così reattivo; nessun
impresario di pompe funebri lo seppellirebbe o cremerebbe» (22).
Il neurologo C. Coimbra nella sua relazione (23), dopo
diverse considerazioni è giunto a dire: «Questo fatto ci ha portato alla
conclusione che una qualche vitalità può essere sempre nascosta e conservata
nelle profonde strutture cerebrali nel momento in cui il cerebro è morto.
Perciò, la definizione di “morte cerebrale” dovrebbe essere forse applicata
alla morte del cerebro piuttosto che all’intero sistema nervoso centrale».
I SEGNI DI LAZZARO
Come abbiamo appena citato i cosiddetti “morti cerebrali”
durante le incisioni per gli espianti se non sono anestetizzati e curarizzati
muovono gli arti, questi movimenti, come testé ricordato, sono chiamati segni
di Lazzaro, le reazioni dei presenti sono impressionanti, ne citiamo qualcuna.
Per esempio il prof. Spaemann (24) riporta: «Quando
un’anestesista tedesca scrive: “Le persone con cervello lesionato non sono
morte ma morenti” e che dopo trent’anni di professione non si è potuta
convincere del contrario di ciò che effettivamente vedeva, la sua dichiarazione
vale per molti altri… Una di questa infermiere scrive: “Quando sei lì e un
braccio si alza e tocca il tuo corpo o lo abbraccia, è terribile”».
Il dott. Beckmann (25) scrive: «Un organismo cerebralmente
morto reagisce in modi limitati agli stimoli esterni. Ad esempio, la pressione
del sangue aumenta dopo la prima incisione del chirurgo, che inizia l’espianto
di un organo. Per questo motivo ai donatori di organi, prima dell’espianto
vengono somministrati farmaci per il rilassamento muscolare. Altre reazioni di
persone cerebralmente morte sono la cosiddetta “sindrome di Lazzaro” (movimenti
degli arti) o l’afferrare le infermiere quando sollevano la testa dei pazienti
per sistemare i cuscini».
Anche il prof. Weaver non può negare la realtà (26): «In
tale situazione non ero l’unico operatore sanitario costretto a considerare ed
analizzare la condizione del “donatore”. Un’infermiera dell’unità, in forma
privata e in lacrime, si lamentò con me: “Ma è ancora vivo!” Molti dei miei
colleghi cardiologi col tempo sono divenuti abbastanza perplessi a proposito
della rimozione di organi vitali e non credono che il fine giustifichi i mezzi.
Uno di essi mi comunicò la propria opinione. “Il conseguimento di un “bene” non
giustifica l’uccidere”».
TESTIMONIANZE
La verità è come l’olio posto nell’acqua viene sempre a
galla, non possiamo nasconderla, ci sarà sempre qualcuno che ce la ricorderà;
questa realtà ce lo prova il fatto che in tutto il mondo ci sono persone che
non possono far tacere la loro coscienza riguardo alla cosiddetta “morte
cerebrale”.
Riportiamo parte della conferenza del dott. Joseph Evers
(27) all’Istituto Pontificio: «Quindici anni or sono mi fu chiesto di
presiedere, presso il nostro ospedale locale, “un Sottocomitato di Terapia
Intensiva Pediatrica per la revisione del protocollo da noi impiegato per la
diagnosi della morte cerebrale nei bambini, in vista della rimozione degli
organi vitali e del successivo trapianto. È stata la prima volta in cui sono
stato costretto ad affrontare le questioni scientifiche, legali e morali che
riguardavano la “morte cerebrale”. Se avessi approvato una raccomandazione del
protocollo per autorizzare la rimozione di organi ai fini del trapianto, avrei
saputo che con la mia approvazione avrei in effetti affermato di essere certo
al di là di ogni (ragionevole) dubbio che una persona dichiarata “cerebralmente
morta” era, di fatto, morta e che il principio vitale (l’anima immortale) si
era separata dal corpo. Se così stavano le cose, allora sarebbe stato
moralmente permissibile rimuovere dal deceduto organi vitali, per esempio il
cuore, a scopo di trapianto.
Votare l’approvazione mentre rimaneva il dubbio sarebbe
stato moralmente reprensibile da parte mia, in quanto avrebbe significato
sancire la possibile uccisione di una persona per il potenziale bene di
un’altra. A prescindere da quanto sarebbe stato apprezzabile il fine inteso, i
mezzi adottati sarebbero stati una violazione del quinto comandamento, “non
uccidere”.
Per sciogliere ogni dubbio sulla questione iniziai una
ricerca nella letteratura e un dialogo con colleghi stimati…
In merito sull’argomento, sul “Journal of the American
Medical Association” del 1982 era uscito un articolo che riportava il caso di
una ventiquattrenne incinta che era stata dichiarata “cerebralmente morta” il
diciannovesimo giorno di ricovero in ospedale. Era poi stata mantenuta
collegata alle apparecchiature per la ventilazione artificiale per altri cinque
giorni e proprio prima della vera morte, mediante taglio cesareo diede alla
luce un bimbo sano alla ventinovesima settimana di gestazione. Dopo aver letto
questo articolo mi dovetti domandare se, in caso ciò fosse stato vero, non
avrei forse dovuto anche sostenere la possibilità per un “cadavere” di nutrire
il bambino ancora ospitato in grembo e poi di farlo nascere sano molti giorni
dopo. Commentando il fatto, i dottori Siegler e Wikler dissero: “La morte
dell’encefalo non sembra servire come confine; è una perdita tragica e infine
fatale, ma non è per se stessa la morte. La morte corporea avviene
successivamente, quando cessa il funzionamento integrato”…
Non potevo più evitare la verità: o collegato alle macchine
per la ventilazione artificiale c’era un cadavere, o c’era una persona ancora
viva, sebbene “cerebralmente morta”. Se era un cadavere, ci si sarebbe dovuti
riferire a lui come a un cadavere vivente? Ma come il cerchio quadrato, è una
contraddizione in termini. Si può avere l’uno o l’altro, ma non entrambi. La
conclusione è ovvia; una persona viva mortalmente ferita non equivale a una
persona morta. Se la dichiarazione di “morte cerebrale” diventa un segnale per
la rimozione di un cuore che ancora batte, allora senza ombra di dubbio il
paziente morirà.
Per consolidare ulteriormente il mio ragionamento ci volle
una tragedia, capitata ad una mia cara amica; uno dei suoi due figli adulti
ebbe un incidente automobilistico quasi mortale e venne portato di urgenza al
più vicino pronto soccorso. I medici fecero di tutto per rianimarlo, ma
inutilmente, ed egli fu dichiarato “cerebralmente morto”. Per come mi ricordo,
da diverso tempo era lontano dai Sacramenti della Chiesa, ma l’altro figlio
della donna, un sacerdote, si precipitò al capezzale del fratello e gli impartì
il Sacramento dell’Estrema Unzione. Poco dopo questo segno della misericordia
di Dio, il supporto vitale venne staccato e l’uomo spirò.
Non molto tempo dopo questo evento dovetti riflettere su una
richiesta per il trapianto degli organi vitali fatta dopo l’Estrema Unzione. Mi
chiesi allora: come si potrebbe fare una cosa del genere? Per impartire in
maniera valida e ricevere in modo efficace questo sacramento si deve presumere
che la persona sia viva. Per rimuovere un organo vitale, per esempio un cuore
che batte, deve invece essere certamente morta. La conclusione era ovvia, non
c’era una cartina di tornasole per il momento esatto di separazione dell’anima
immortale dal corpo. Né un medico né un teologo lo possono stabilire. Detti le
dimissioni dal Sottocomitato per il protocollo. Votai contro l’adozione del
protocollo e quindi, davanti a tutto il personale medico, dissi ai miei
colleghi perché lo avevo fatto e perché mi auguravo che anche loro votassero
contro. Alcuni lo fecero, ma non in numero sufficiente ed il protocollo venne
adottato.
Subito dopo questa riunione un mio collega, un neurologo di
cui ho molto rispetto e che veniva spesso consultato per le diagnosi cliniche
di “morte cerebrale” in casi di bambini donatori dai quali prelevare gli organi
per il successivo trapianto, mi si avvicinò e mi disse, “Sai Joe, hai ragione, noi facciamo
solo finta di non vedere”».
Il neonatologo prof. Paul Byrne (28) racconta: «Nel 1975
prestai assistenza ad un neonato nel reparto di terapia intensiva neonatale al Cardinal
Glennon Memorial Hospital for Children di St Louis in Missouri. Joseph era
collegato al ventilatore da sei settimane. Erano stati fatti molti tentativi
per disabituarlo al ventilatore. Non respirava spontaneamente. Fu eseguita una
registrazione dell’attività elettrica (EEG). Fu interpretata come “coerente con
la morte cerebrale”. Due giorni dopo l’EEG non era cambiato. Fu suggerito di
scollegare il bambino dall’apparecchiatura. Tuttavia continuai a mantenerlo collegato
al ventilatore. In seguito egli è stato in grado di disabituarsi al ventilatore
ed è stato anche dimesso dall’ospedale. È cresciuto e si è sviluppato in modo
normale, è andato a scuola, con eccellente rendimento; ha praticato la corsa su
pista ed il baseball. Da adulto ha lavorato dieci anni come paramedico ed ora
fa il vigile del fuoco a St Louis in Missouri. Oggi ha circa trent’anni».
CANDIDATI ALLA DONAZIONE E… ALLA VIVISEZIONE?
Il prof. Weaver (29) ebbe questa esperienza: «Un esempio di
urgenza e fretta è meglio illustrato da una telefonata che ho ricevuto da un
sacerdote del Nebraska occidentale nel dicembre 2004: nel tardo pomeriggio del
martedì un abitante di una piccola cittadina era caduto da una scala ed aveva
subìto una lesione cerebrale. Fu rapidamente trasferito in un ospedale
cattolico di Omaha per ulteriori cure avanzate, ma 18 ore dopo la caduta (le
14.00 del giorno seguente) fu sottoposto a prelievo degli organi dopo la
dichiarazione di “morte cerebrale”. Il sacerdote mi pose una domanda
problematica: “Perché non gli è stato dato più tempo per valutare possibili
segni di ripresa?”
La mia risposta fu: “I sostenitori dei trapianti
risponderebbero che prima si prelevano gli organi, maggiore possibilità hanno
gli organi di essere in buone condizioni”. Un esponente del movimento per la
vita affermerebbe che un supporto vitale aggressivo potrebbe portare ad
ulteriori segni di recupero, che fermerebbero il processo di donazione, ma in
alcuni casi potrebbe tradursi nella ripresa del paziente “donatore”. Ci sono
stati anche tragici errori nella dichiarazione di morte causati dallo zelo e
dall’urgenza di ottenere organi. Alcuni non sono riportati per cause legali in
corso che riguardano imputazioni quali omicidio e negligenza».
Nell’esposizione della sua relazione, il prof. Wanatabe (30)
col sottotitolo: “I nostri 7 anni di esperienza (in Giappone, n.d.r) dopo
l’applicazione della legge sui trapianti degli organi”, scrive: «Come è stato
brevemente discusso nell’addendum al mio precedente articolo, un espianto
multiplo di organi da una donna di mezza età con emorragia subaracnoidea (e
cerebrale) eseguito nel febbraio 1999 è stato il primo caso dopo l’entrata in
vigore della legge. In questo caso, sembra che i medici dell’Ospedale della
Croce Rossa a Kochi avessero visto nella paziente una possibile candidata
donatrice fin dall’inizio, in quanto la donna possedeva unadonor card. Allora
invece di adottare certe precauzioni per salvarle la vita, tra cui abbassare la
pressione sanguigna che era estremamente alta, dissero immediatamente alla
famiglia che la donna si trovava in uno stato di “incombente morte cerebrale”,
e non accennarono alla possibilità di salvarle la vita mediante rimozione
chirurgica dell’enorme ematoma. Inoltre, sebbene la legge stabilisca
chiaramente che il test di apnea deve essere eseguito come l’ultimo della serie
delle procedure diagnostiche, questo test venne ripetuto molte volte, alcune
anche prima che l’elettroencefalogramma diventasse piatto. Quel test deve aver
accelerato la progressione della morte cerebrale e allo stesso tempo inflitto
un dolore insopportabile alla paziente. Infine, con l’incisione
chirurgica per il prelievo degli organi, la pressione sanguigna della paziente
salì improvvisamente ed i suoi arti mostrarono movimenti
eccessivi al punto da richiedere l’anestesia. Questi
fenomeni mostrano chiaramente che la donna sentiva dolore e che il tronco
encefalico era funzionante, chiari segni che negavano lo stato di morte
cerebrale».
Non è lecito pensare che questi poveri pazienti, se non sono
trattati con farmaci anestetizzanti, ma curarizzanti subiscano la “vivisezione”, soffrendo
in modo terribile?
«Il terzo caso di espianto – racconta il prof. Wanatabe - ha
riguardato un ragazzo coinvolto in un incidente stradale. Era stato portato al
pronto soccorso del Municipal Hospital di Furukawa una sera, dove si
scoprì che aveva firmato una donor card. Quando il primario di
neurochirurgia, già andato a casa propria, due ore e mezzo più tardi fu
informato di questo caso, disse al personale di osservare soltanto il decorso
affermando che non c’erano indicazioni per l’intervento chirurgico. Non arrivò
in ospedale se non quattro ore più tardi, e per più di dieci ore il ragazzo non
ricevette trattamenti intensivi per prevenire la progressione del danno
cerebrale, come la somministrazione di medicinali per abbassare la pressione
intracranica. Quindi, di nuovo in questo caso, la vittima di incidente non è
stata considerata una persona con urgente bisogno di cure salvavita, ma invece
è stata trattata come candidato alla donazione».
LA GRAVIDANZA
Diverse donne incinte in stato di “morte cerebrale” hanno
portato avanti la gravidanza. Ad esempio il dott. Hill narra: «È stato
registrato un nuovo caso di una donna, ritenuta morta secondo i test del tronco
encefalico, la quale è stata assistita per 11 settimane fino al parto di un
neonato vivo, prima di essere scollegata dal supporto vitale. Ciò dimostra
ancora una volta che i test di funzionalità del tronco encefalico non sempre,
come spesso si pretende, garantiscono una rapida morte per arresto
cardiocircolatorio, e che una complessa fisiologia tipica della vita può
continuare per favorire la gestazione» (31).
Il dott. Beckmann (32) scrive: «Il processo biologico del
morire può essere “fermato” per qualche giorno mentre le funzioni dei polmoni e
del cuore vengono artificialmente sostenute. Nel caso in cui la paziente sia
una donna incinta, può essere “tenuta in vita” fino alla nascita del bambino.
In Germania, gli eventi che hanno accompagnato il caso del cosiddetto “bebè di
Erlangen” (Erlanger Baby) nel 1992 hanno portato il problema della morte
cerebrale all’attenzione del pubblico. Molte persone non potevano credere che
un gruppo di medici volesse far proseguire la gravidanza per far sviluppare un
feto vivo all’interno di un “cadavere”, altre chiedevano di lasciare che la
madre “spirasse in pace”».
Sono veramente morte le madri in condizione di morte
cerebrale che portano a compimento la gravidanza di bambini non ancora nati?
Mercedes Arzù Wilson (33) si chiede: «Come può una mamma così detta
“cerebralmente morta”, dopo aver dato alla luce un bambino vivo, produrre latte
materno quando invece il chirurgo ha assicurato la sua famiglia che il suo
cervello è morto?
In quest’ultimo caso se si riscontra una pur minima attività
cerebrale, è ovvio che la tecnologia esistente, allo stato attuale, è incapace
di individuare una nascosta attività del cervello, così come le complesse
funzioni della ghiandola pituitaria…
La società dei trapianti ignora forse che il latte materno è
il risultato dell’attività della ghiandola pituitaria nel cervello che invia i
segnali per la produzione della prolattina, i cui livelli aumentano in vista
della produzione di latte per il bambino?
È interessante notare come quest’ultima domanda fu posta, su
richiesta personale di sua Santità Giovanni Paolo II, ai medici favorevoli alla
“morte cerebrale” che frequentavano, nel febbraio 2005, un convegno della
Pontificia Accademia delle Scienze.
Nessuno di loro negò che una madre incinta, dichiarata
“cerebralmente morta” potesse produrre latte dalle proprie mammelle dopo la
nascita del figlio. Tali ammissioni incrinarono la loro sicurezza che nei
pazienti con commozione cerebrale non ci fosse attività del cervello».
GUARIGIONI SPECIALMENTE CON L’IPOTERMIA
Il professore giapponese Wanatabe (34) ci delucida
sull’ipotermia: «Ho citato la notevole efficacia della terapia dell’ipotermia
cerebrale nel salvare pazienti con grave danno cerebrale e nel prevenire
l’insorgere della morte cerebrale. Questa terapia fu sviluppata dal
Dipartimento di terapia d’emergenza del Nihon University Hospital a
Tokio. Nel loro primo rapporto, questa terapia fu adottata in venti casi in
ematoma subdurale acuto con lesione cerebrale diffusa e dodici casi di ischemia
cerebrale globale dovuta ad arresto cardiaco protratto per 30-40 minuti, tutti
pazienti al livello 3-4 della scala di coma di Glasgow, dilatazione bilaterale
delle pupille e assenza di reazione alla luce. Con l’ipotermia cerebrale
controllata dal computer e il mantenimento di una pressione intracranica
adeguata, quattordici pazienti su venti nel primo gruppo e sei su dodici
pazienti nel secondo gruppo sono ritornati alla normale vita quotidiana, con il
recupero della capacità di comunicazione verbale eccetto in un paziente.
Sebbene i sostenitori della morte cerebrale possano ben argomentare che dal
momento che i medici del pronto soccorso non hanno eseguito il test di apnea
per paura di aggravare il danno cerebrale, quei trentadue casi potrebbero non
essersi trovati in condizioni di morte cerebrale, un tale notevole successo
della terapia implica un chiaro spostamento del punto di non ritorno verso o
entro lo stadio di morte cerebrale. Gli studi di Coimbra sugli animali che
avevano subìto un grave trauma alla testa presentano chiaramente un’evidenza
sperimentale a sostegno della notevole efficacia clinica del trattamento
dell’ipotermia cerebrale. Egli ha dimostrato che l’abbassamento della
temperatura corporea a 33° in quegli animali diminuiva l’edema cerebrale ed
abbassava la pressione intracranica, quindi aumentava il flusso sanguigno
cerebrale al di sopra del livello critico. Tale effetto, insieme alla
prevenzione dello sviluppo di ipertermia cerebrale, la quale accelera il danno
alle cellule nervose, era in grado di ripristinare la funzione cerebrale
normale, mentre un test di apnea condotto su quegli animali provocava
ipotensione grave e riduceva ulteriormente il flusso sanguigno cerebrale
distruggendo l’intero encefalo. Quindi, lo stato di morte cerebrale nel senso
di danno veramente irreversibile dell’encefalo può essere diagnosticato solo
dopo l’applicazione della terapia dell’ipotermia cerebrale, ed il test di apnea
dovrebbe essere immediatamente cancellato dalla serie di procedure diagnostiche
elencate nell’attuale legge sul trapianto di organi».
Leggiamo dalla relazione del prof. Weaver: «Il neurologo C.
G. Coimbra ha anche mostrato che uno dei test diagnostici universalmente usati,
noto come test di apnea, per determinare l’abilità cerebrale di generare il
processo di respirazione, può in realtà causare ulteriore danno all’encefalo.
Spiegato in modo semplice il test di apnea viene eseguito spegnendo il
ventilatore, e ciò arresta l’apporto di ossigeno ai polmoni, i quali non
espellono l’anidride carbonica, un prodotto standard di scarto. Tuttavia il
graduale incremento della quantità di anidride carbonica crea un ambiente che
danneggia ulteriormente le cellule cerebrali già compromesse e allo stesso
tempo queste cellule non ricevono l’ossigeno necessario per la ripresa”(35).
GLI ATTUALI MEZZI SCIENTIFICI NON SONO INFALLIBILI
Basandosi sulle relazioni di numerosi professori e dottori,
il prof. P. Becchi a pag. 100 del suo libro riferisce: «Gli attuali mezzi
clinici non sono in grado di accertare la cessazione di tutte le funzioni, ma
soltanto di alcune e diagnosticano tutt’al più la morte corticale».
Abbiamo riportato più sopra col sottotitolo: “Una
sopravvivenza di oltre 20 anni in stato di morte cerebrale” il caso di TK,
studiato dal neurologo Shewmon, riguardante un bambino colpito da meningite
all’età di 4 anni; ebbene: «L’angiogramma a risonanza magnetica non mostrò
flusso sanguigno intracranico, una risonanza magnetica rivelò che l’intero
cervello, incluso il tronco era stato sostituito da un’ombra di tessuti e da
fluidi proteici disorganizzati. Ciò che restava dell’encefalo era atrofizzato e
non poteva essere riconosciuto come encefalo». L’angiogramma dunque, in questo
caso certificava che il paziente era in stato di “morte cerebrale”, ma non
permetteva di concludere che il paziente era vivo.
Mons. Bruskewitz (36) fa notare: «TK non soltanto presentava
segni di vita, ma addirittura raggiunse la pubertà e l’età adulta».
Riguardo all’elettroencefalogramma il prof. Bondì scriveva
che la presenza di forti addensamenti emorragici endocranici (tipica dei
traumatizzati da incidenti) può eliminare il “segnale” della penna scrivente (dell’elettroencefalogramma,
n.d.r.) o diminuire di molto l’ampiezza dei segnali rilevati dalla macchina
operante con elettrodi applicati sopra il tavolato osseo; data l’esiguità della
traccia scritta è sempre problematico e grossolano l’apprezzamento obiettivo di
questi segni di vita, la cui importanza è capitale, se possono sottrarre un
paziente alla sentenza medico legale di morte e all’irremediabile svuotamento
del suo corpo con l’espianto; in questo caso gli elettrodi dovrebbero essere
posti sotto il tavolato osseo. Quindi l’EEG non dimostra affatto che l’attività
cerebrale sia assente in tutto l’encefalo» (37).
Il dott. Hill da parte sua ci ricorda che: “Accertamenti
mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno mostrato che un paziente
in stato vegetativo persistente incapace di risposte agli stimoli può ricevere,
elaborare, rispondere e comunicare col pensiero. Sebbene lo stato vegetativo
persistente non sia la morte del tronco encefalico, la risonanza indica che quel
paziente, a differenza di quanto sino ad ora creduto, può non essere
completamente irrangiungibile e incapace di risposte agli stimoli, e dimostra
quanto poco sappiamo del significato delle attività cerebrali residue in coloro
che sono ritenuti morti secondo i test di funzionalità del tronco encefalico
(38).
STRANI CONCETTI DI PERSONA
Molti filosofi e laureati hanno uno strano concetto della
persona, al di fuori del senso comune, e così arrivano a giustificare gli
espianti. Il prof Shewmon riferisce che al III International Symposium on
Coma and death, tenutosi a l’Avana, Cuba, dal 22 al 25 febbraio 2000, il Dr.
Fred Plum, esperto di morte cerebrale e primo autore dell’importante manuale The
diagnosis of Stupor and coma, si alzò e disse: «Va bene, ti concedo che il
corpo in condizioni di morte cerebrale è un organismo umano vivente, ma è una
persona umana?» (39).
Da parte sua il prof. Spaemann spiega che: «La concezione di
Furton coincide con la concezione di Peter Singer e di Dereck Parfit, per i
quali le persone esistono finchè sono capaci di atti personali, posizione da
cui deriva che ad esempio durante il sonno gli individui non sono persone»
(40).
«Warren – riporta il prof. Potts - segue Locke nel ritenere
che “alcuni esseri umani non sono persone”. Ciò include che un “uomo o una
donna la cui coscienza sia stata permanentemente cancellata ma che rimanga in
vita (…); esseri umani anormali, privi di apprezzabili capacità mentali (…); un
feto. Tali individui mancano di pieni diritti morali» (41).
E IL FUTURO?
Stiamo tornando ad un concetto pagano della vita, si vuole
il benessere a tutti i costi, anche a scapito del prossimo, ciò è veramente
inquietante e questo non possiamo non constatarlo.
«La nostra preoccupazione - riferisce il prof. Wanatabe - è
che a causa della scarsità di organi donati, chi propone i trapianti possa
tentare di espandere la categoria dei donatori dai morti cerebrali alle persone
in stato vegetativo, ai soggetti con handicap mentali e a membri deboli della
nostra società. L’utilizzo di bambini anencefalici come donatori, già praticato
in certi paesi, dà fondamento a tale preoccupazione» (42).
La situazione dell’uomo moderno arriva al paradosso, ecco la
costatazione del dott. Hill: «Ci sono stati alcuni progressi nella esecuzione
degli xenotrapianti, ossia di tessuti e organi prelevati da animali. I problemi
del rigetto sono enormi e l’opinione pubblica britannica e le organizzazioni
per i diritti degli animali sembrano più preoccupate per il destino degli
animali che potrebbero fornire gli organi che per i donatori umani» (43).
«Le società per millenni – riporta il prof. Weaver – hanno
imposto il genocidio di membri vulnerabili selezionati delle loro culture. Ciò
continua ancora oggi con gli utilitaristi che usano principi di proporzionalismo
per giustificare l’uccisione di disabili al fine di migliorare la vita degli
altri» (44).
MORALE
La coscienza, in senso proprio, è un giudizio della ragione
pratica sulla bontà o colpevolezza di un’azione, cioè è un giudizio sulla
liceità o illiceità del proprio atto. È logico che per quanto riguarda la
nostra eternità non dobbiamo fare atti contrari alla volontà di Dio. Ora già
Pio XII aveva scritto che in caso di dubbio sulla morte di una
persona bisogna presumere che sia ancora viva (45). Questa
affermazione riguardava proprio le persone in stato di rianimazione. Il
principio di Teologia morale che riguarda i trapianti di organi afferma che con
un dubbio pratico circa la liceità di un’azione non è mai lecito agire.
Per es. un cacciatore che dubiti se vi sia una bestia o uomo dietro a un
cespuglio e spara lo stesso, pecca di omicidio, anche se poi risulta che ha
freddato un capo di selvaggina (46); chi sorpassa in curva, senza visibilità,
col dubbio che di fronte venga un altro automezzo, anche se non succede nessun
incidente, fa peccato lo stesso perchè mette in pericolo la sua vita e quella
degli altri. Siccome nel caso dei trapianti di organi non vi è affatto la
certezza che le persone espiantate siano morte, coloro che si ritrovano in
questa situazione non devono agire, ma devono chiarire il dubbio e seguire la
parte più sicura. Quindi la norma della nostra condotta (nel nostro caso: dei
medici espiantatori, dei donatori e dei familiari di eventuali donatori) non è
la coscienza libera, ma la coscienza certa che l’uomo ha il dovere di rendere
vera, per cui la coscienza vincibilmente erronea (o falsa) ogni essere umano è
tenuto a correggerla e quella dubbia è obbligato a chiarirsela e questo
massimamente quando si tratta dell’autorità di Dio e della propria salvezza e
della vita degli altri.
CONCLUSIONE
Il Papa Giovanni Paolo II, il 29/08/2000 in occasione del
Congresso internazionale della Società dei trapianti aveva affermato: «Gli
organi vitali e singoli non possono essere prelevati che ex cadavere cioè
da un individuo certamente morto […]. Comportarsi altrimenti significherebbe
causare intenzionalmente la morte del donatore prelevando i suoi organi”.
Il dott. Byrne ribadisce in modo chiaro: «In realtà la morte
cerebrale non è la vera morte. Non ci sono modi per ottenere un cuore per i
trapianti a meno che non sia un cuore sano da un paziente vivo. Sotto il
profilo etico non è accettabile la rimozione di un organo dispari, vitale e
sano adatto ai trapianti da un soggetto dichiarato in modo legale
“cerebralmente morto”, ma non sotto il profilo biologico: non si dovrebbe
compiere il male per il bene che potrebbe derivarne. Si può fare qualcosa per
trasformare in vero ciò che è falso?» (47).
«Anziché riconoscere che il soggetto “cerebralmente morto”
non è realmente morto – riferisce il prof. Coimbra - alcuni hanno già proposto
che la “morte cerebrale” valga come morte ai fini del trapianto. Tuttavia il
morire non è la morte e troppe vite sono state perdute per la passata cecità,
quando la diagnosi di “morte” è stata applicata al cervello silente che
riceveva livelli critici di apporto sanguigno. Un paziente che sarebbe morto
senza speranza anni fa potrebbe ora essere aiutato a riprendersi mediante nuove
efficaci terapie, sviluppate per il miglioramento delle conoscenze relative
alla fisiopatologia del coma» (48).
Il prof. Seifert conclude: «Quindi dal discorso del Papa e
dal principio etico vero ed evidente in esso affermato (enfatizzato dall’intera
tradizione di insegnamenti morali impartiti dalla Chiesa) secondo cui se
esiste un minimo ragionevole dubbio che le nostre azioni uccidano una persona
dobbiamo astenercene dal compierle, unitamente al fatto della crescente
incertezza nella comunità scientifica, giuridica, psicologica e filosofica mondiale
a proposito della morte cerebrale come morte di fatto della persona» (49).
Articolo apparso su Tradizione Cattolica - n°1 – 2009
Bibliografia:
(1) Paolo Becchi, Professore di filosofia del diritto
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova.
(2) In Finis vitae Is brain death still life? Ed.
Rubettino, p. 140. JOSEPH C. EVERS, M.D., FAAP, pediatra, Fellow dell’American
Academy of Pediatricians (U.S.A.).
(3) In Finis Vitae ib. p. 373. - Yoshio Wanatabe,
M.D., FACC, cardiologo. Professore Emerito di Medicina, Fujita Health
University, Direttore del Toyota Medical Center,Giappone.
(4) D. ALAN SHEWMON, M.D., PH.D., neurologo. Professore di neurologia
e pediatria presso la David Geffen School of Medicine - UCLA;
Direttore del Dipartimento di Neurologia, Olive View Medical Center, Los
Angeles, California (U.S.A.).
(5) In Finis Vitae ib. p. 196 - DAVID J. HILL,
M.A., PH.D., Consulente Emerito in Anestesiologia, Addenbrooke’s Hospital,
Cambridge (U.K.).
(6) In Finis vitae, ib. p. 380. WALT FRANKLIN WEAVER,
Professore associato presso la Facoltà di Medicina, Università del Nebraska,
Omaha, Nebraska (U.S.A.).
(7) Summa Theol. I, Q.18, a.1, c..
(8)
cfr.http:/www.lozuavopontificio.net/osservatorio/2008/04/12/l’inganno-della-morte-cereb…
(9) In Finis vitae, ib. p. 225. (MICHAEL POTTS,
filosofo, Professore presso la Methodist University, Fayetteville, North
Carolina (U.S.A.).
(10) In Finis vitae, ib. p 320.
(11) Byrne ww.lozuavopontificio, ib. Paul A. Byrne, M.D.
FAAP, neonatologo. Professore di neonatologia presso la Facoltà di Medicina,
Università dell’Ohio.
(12) In Finis vitae, ib. p. 263. JOSEF SEIFERT, PH. D.,
filosofo. Rettore della International Academy for Philosophy del
Liechtenstein; membro della Pontificia Accademia per la Vita).
(13) In Finis vitae, ib. p. 436. RALF WEBER,
giurista. Professore all’Università di Rostock, membro della Commissione etica
dell’Ordine dei Medici in Mecklenburg-Vorpommern (Germania).
(14) In Finis vitae, ib. p. 41, RAINER BECKMANN,
giudice, Membro della Academy for Ethics in Medicine… Componente in
qualità di esperto delle Commissioni del Parlamento tedesco Law and Ethics
of Modern Medicine (2000-2002).
(15) In Finis vitae, ib. p. 306.
(16) P.Becchi, Morte cerebrale, ib. p. 104.
(17) In Finis vitae, ib. p. 304.
(18) S. REPERTINGER, W.P. FITZGIBBONS, M.F. OMOJOLA, et
al., “Long survival following bacterial meningitis-associated brain
destructio”, in “Journal of Child Neurology”, 21, 2006, pp. 591-595.
(19) In Finis vitae, ib. p. 326.
(20) In Finis vitae, ib. p. 80.
(21) In Finis Vitae, ib. p. 305.
(22) 203 In Finis vitae, ib. p. 203.
(23) In Finis vitae, ib. p. 173 - CICERO GALLI COIMBRA,
M.D., PH.D., neurologo clinico. Professore presso il Departement of
Neurology and Neurosurgery, Federal University of Sao Paulo – UNIFESP
(Brasile).
(24) In Finis vitae, ib. p. 340. (ROBERT SPAEMANN, filosofo.
Professore Emerito presso le Università di Stoccarda, Heidelberg, Salisburgo;
membro della Pontificia Accademia per la vita (Germania).
(25) In Finis vitae, ib. p. 45.
(26) In Finis vitae, ib. p. 395.
(27) In Finis vitae, ib. p. 135 ss.
(28) In Finis vitae, ib. p. 78.
(29) In Finis vitae, ib. p. 409.
(30) In Finis vitae, ib. p. 371s.
(31) In Finis vitae, ib. p. 208, (Brain dead woman
gives birth, in “British Medical Journal”, 332, 2006. p. 1468).
(32) In Finis vitae ib. p. 28.
(33) Mercedes Arzù Wilson, membro della Pontificia Accademia
per la Vita, (cfr. www.fattisentire.net, 05/09/2008)., ibidem.
(34) In Finis Vitae, ib. 374.
(35) In Finis vitae, ib. p. 410.
(36) Brusk 51 In Finis vitae, ib. p. 51, FABIAN
WENDELIN BRUSKEWITZ, Vescovo della Diocesi di Lincoln, Nebraska (U.S.A).
(37) Prof. Dr. Massimo Bondì L. D. Pat. Chir. e Prop. Clin.
Patologo Generale – General Surgeon M.D. Sydney, Audizione del 29.10.92, testo
presentato al Comitato Ristretto della Commissione Affari Sociali del
Parlamento Italiano, cfr. Lega contro la predazione degli organi a cuore
battente, Via Patti lateranensi, Bergamo.
(38) In Finis vitae, ib. p. 208 A. OWEN, “Detecting
awareness in the persistent vegetative state”, in “Science”, 313, 2006, p.
1402.
(39) In Finis vitae, ib. p. 285.
(40) In Finis vitae, ib. p. 347
(41) In Finis vitae, ib, p. 64.
(42) In Finis vitae, ib. p. 367.
(43) In Finis vitae, ib. p. 206.
(44) In Finis vitae, ib. p. 399.
(45) PioXII, Discorso, Le Dr. Bruno Haid, a numerose
personalità della scienza medica, in risposta ad alcuni quesiti importanti
sulla rianimazione, 24/11/1957.
(46) E. Jone, Compendio di Teologia morale ed.
Marietti, 1964, par. 89.
(47) In Finis vitae, ib. p. 98.
(48) In Finis vitae, ib. p.189.
(49) In Finis vitae, ib. p. 276.
Fonte: www.sanpiox.it
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