Introduzione
●
Nell’antichità pagana la storia del concetto di analogia come
“proporzione matematica” o “rapporto di rapporti” (analogia di
proporzionalità) ha avuto in Eraclito (+ 480 a. C.) e Parmenide (V
sec. a. C.) i suoi precursori. Mentre bisogna attendere Proclo (+
485 d. C.) per avere la nozione di “un termine con un termine o
capacità di recepire l’essere partecipato” (analogia di
attribuzione).
● La questione
dell’analogia è stata ed è ancor oggi molto dibattuta anche in
ambiente tomistico. L’Angelico l’ha utilizzata ampiamente senza
darne una definizione e una divisone esplicita, ma se ne è servito -
tramite esempi - soprattutto per poter parlare di Dio senza
equivocare (nichilismo teologico o apofatismo) o univocizzare
(panteismo). Vi sono sostanzialmente due scuole tomistiche che hanno
una diversa concezione dell’analogia: a) quella che va dal Gaetano
(+ 1534) sino al p. Reginaldo Garrigou-Lagrange (+ 1964) e al p.
Tomas Tyn (+ 1990), e b) quella che va dal Ferrerese (+ 1528) sino
al p. Cornelio Fabro (+ 1995), al p. Tito Sante Centi (+ 2011) e al
p. Battista Mondin. Inoltre nella IV delle XXIV Tesi del Tomismo
(DS, 3604) commissionate il 29 luglio 1914 da S. Pio X al p. Guido
Mattiussi, approvate il 27 luglio del 1914 e promulgate il 7 marzo
1916 da Benedetto XV si parla esplicitamente di “analogia di
attribuzione” e di “proporzionalità”.
*
S. Tommaso e le due scuole
tomistiche
● S. Tommaso (+ 1274)
insegna e dimostra che Dio è Causa prima del mondo. Quindi tra Dio e
il mondo vi è un rapporto di somiglianza (omne agens agit sibi
simile), ma essa è una “somiglianza dissomigliante” o analogica.
L’analogia che si fonda sulla causalità efficiente ed accentua
primariamente la dipendenza causale, o creaturale, degli enti da Dio
è quella di attribuzione intrinseca. Quindi mi sembra che l’analogia
più atta a farci discorrere su Dio sia quella di attribuzione
intrinseca (Ferrarese, Fabro, Mondin), anche se l’analogia di
proporzionalità serve a rimarcare la diversità infinita o
sostanziale tra l’essenza degli enti creati e quella dell’Ens a se.
Perciò lungi dal vedere le due scuole come due eserciti “l’un contro
l’altro armati”, occorre, dopo aver distinto le due diverse
interpretazioni dell’analogia, unificarle per gli scopi
accidentalmente diversi che si prefiggono: mettere in luce la
distanza infinita tra essenza creata e increata e la dipendenza di
causa/effetto più l’anteriorità/posteriorità tra Dio e creature.
● Infatti l’analogia di proporzionalità[1]
accentua specialmente l’infinita distanza metafisica della natura
degli enti da Dio (le loro essenze sono infinitamente lontane da
quella divina). Invece l’analogia di attribuzione intrinseca
(l’essere appartiene per prius, come causa, a Dio e solo come
effetto e per posterius alle creature, anche se intrinsecamente)
accentua primariamente la dipendenza causale, o creaturale, degli
enti da Dio (Cf. S. Th., I, q.3, a. 7, ad 1; ivi, I, q. 13, a. 5;
Comp. Th., c. 130, n. 261; I Sent., d. 8, q. 4, a. 2; ivi, d. 19, q.
5, a. 2, ad 1; In II Sent., d. 19, q. 9°. 5; Comm Ethica, I, lectio
7, n. 95-96; De pot., q. 7, a. 1, ad 8; De Ver., q. 2, a. 11; S.
Th., I, q. 105, a. 1, ad 1; Commento ai Nomi divini a cura di p.
Battista Mondin, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004, 2
voll.).
*
Obiezioni gaetaniane di p.
Tomas Tyn ai neotomisti “revisionisti”
● Secondo il filosofo
domenicano ceco Tomas Tyn morto a Bologna nel 1990 l’analogia di
attribuzione intrinseca (che “rapporta solo soggetto a soggetto”)
risale a Francisco Suarez (+ 1617), che in questo sfugge di poco al
panteismo.
● Inoltre il carattere
intrinseco dell’analogia di attribuzione le viene dalla
proporzionalità (“rapporto di rapporti tra soggetti diversi”) che
essa riveste e non in quanto attribuzione. Perciò l’analogia di
attribuzione aprirebbe le porte al panteismo.
*
Rispondo
● Gaetano nel suo trattato
De nominum analogia asserisce che l’analogia di attribuzione è solo
estrinseca e nega l’esistenza in S. Tommaso di un’analogia
d’attribuzione intrinseca. Inoltre preferisce l’analogia di
proporzionalità propria a quella di attribuzione. Ora col XX secolo
e la “revisione” della metafisica tomistica come metafisica
dell’esse ut actus ultimus e della partecipazione, la quale non è
semplicemente la metafisica della sostanza (che era propria di
Aristotele); si è rivisitata anche la nozione dell’analogia
tomistica distinguendola da quella di Gaetano, il quale ha
trascurato l’originalità della metafisica dell’essere e della
partecipazione tomistica, restando fermo alla metafisica della
sostanza o essenza aristotelica. Inoltre Gaetano si è basato su un
solo testo di S. Tommaso (Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo,
I, d. 19, q. 5, a. 2) per trattare dell’analogia, mentre l’Angelico
ha scritto sull’analogia in moltissime altre sue opere. Anche p.
Tomas Tyn (Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia
entis, Bologna, 1991) si è basato su un solo testo dell’Angelico
(Commento alla Metafisica di Aristotele, V, lect., 8, n. 879) per
riaffermare la dottrina gaetaniana sull’analogia.
● I neotomisti
“revisionisti” - dietro l’impulso dato magisterialmente da san Pio X
nel 1914 al tomismo come baluardo antimodernistico - asseriscono che
nell’analogia di attribuzione intrinseca vi è un analogato
principale, il quale possiede una perfezione pura (per es.
l’essere/la bontà…) per essenza o infinitamente e vi sono degli
analogati secondari, i quali hanno la suddetta perfezione per
partecipationem et non per essentiam, ossia ricevono o partecipano
in maniera limitata e finita la perfezione pura (essere, bontà,
verità…) dall’analogato principale che è Dio. Questa analogia di
attribuzione intrinseca mette bene in risalto l’ordine di priorità e
posteriorità e la dipendenza causale/effettiva tra l’analogato
principale e l’analogato secondario.
● S. Tommaso trattando
l’analogia e impiegandola in teologia per parlare di Dio non si è
preoccupato di definirne il concetto in maniera esplicita e
sistematica; lo ha dato per scontato. Tanto meno ha fornito una
distinzione precisa e definitiva di analogia, ma ne ha presentato di
volta in volta innumerevoli divisioni illustrandole con esempi. Ciò
ha causato una lunga controversia tra tomisti non ancora sopita.
Gaetano, che ha visto in S. Tommaso solo un ripetitore e un
commentatore di Aristotele, ne ha presentate tre (ineguaglianza,
attribuzione e proporzionalità); Suarez (+ 1617) quattro
(attribuzione intrinseca/estrinseca, proporzionalità
propria/metaforica). La posizione di Suarez sull’univocità
dell’essere (mutuata da Duns Scoto, + 1308) non può essere seguita
ed è questa che apre le porte al panteismo, non la quadruplice
divisione di analogia come dice erroneamente il p. Tyn (+ 1990).
Infatti Suarez nega l’analogia, poiché il concetto di essere -
secondo lui - non è univoco, equivoco e analogo, ma assolutamente
uno (Disp. Meth., dist. 2, sez. 2-3). Al contrario San Tommaso
grazie all’analogia riesce a poter discorrere su Dio il quale è
analogo alle creature, ossia sostanzialmente diverso poiché
infinito, ma relativamente simile quanto all’essere, che le creature
hanno limitatamente mentre solo Dio è il suo stesso essere per
essenza. Negando l’analogia si tende al nichilismo teologico o
apofatismo che ritiene del tutto impossibile all’uomo dire qualcosa
su Dio o conoscere qualche suo attributo divino (Contra Gent., l. I,
cc. 32-34; S. Th., I, q. 4, a. 3 ad 3; ivi, q. 13, a. 5).
● La quadruplice divisione
suareziana dell’analogia (malgrado la falsa nozione del concetto
analogo del gesuita spagnolo) è diventata classica in ambiente
tomista ed è oggi ritenuta comunemente. Data la fama del Gaetano
come gran commentatore della Somma Teologica e la scarsa fama di
Suarez in metafisica (come negatore della distinzione reale tra
essere ed essenza nelle creature, che - essa e non la quadruplice
distinzione dell’analogia - apre le porte al panteismo), la teoria o
definizione del Gaetano o Tommaso de Vio (+ 1534) sull’analogia è
stata ritenuta sino al Novecento come la più sicura. Egli nega
l’esistenza dell’analogia di attribuzione intrinseca ed ammette come
funzionale al discorrere su Dio solo quella di proporzionalità
propria. Ma S. Tommaso parla a più riprese di un’analogia per prius
et posterius che è quella di attribuzione. Uno dei primi tomisti che
criticò la teoria del Gaetano fu il Ferrariensis o Francesco de’
Silvestri (+ 1528) nel suo Commento alla Somma contro i Gentili, che
fu letta e lodata dal Gaetano stesso. Il Ferrarese sostiene che
nell’analogia l’elemento essenziale è l’ordo unius ad alterum seu ad
unum e quindi l’esistenza di un analogato principale. Egli, pur non
nominandola esplicitamente, si riferisce all’analogia di
attribuzione.
● L’analogia riguardo alla
teologia o al problema dei ‘Nomi Divini’ per il Dottore Comune (S.
Th., I, qq. 12-13, Commento ai Nomi Divini di Dionigi l’Areopagita)
è una predicazione unius ad alterum per prius et posterius (per es.
l’essere si attribuisce a Dio e alle creature); questa è
un’attribuzione intrinseca in quanto l’essere è intrinseco a Dio e
alle creature, ma per prius et per essentiam al Creatore e per
posterius et per partecipationem alle creature. Non è pertanto la
predicazione di duorum vel plurium ad unum (per es. la salute è
attribuita all’uomo, alla medicina, alla bistecca, all’aria…);
quest’ultima è un’attribuzione estrinseca e la salute si trova
intrinsecamente solo nell’analogato principale (l’uomo) mentre è
estrinseca agli analogati secondari e non specifica alcuna
priorità/posteriorità tra di loro. Mi pare allora evidente che in
teologia sia più consono l’uso dell’analogia di attribuzione
intrinseca che quello dell’analogia di proporzionalità. Infatti Dio
è buono e l’uomo è buono, ma prima di tutto (per prius) è buono Dio
e poi anche l’uomo (per posterius) e lo è grazie alla bontà (per
essentiam o infinita) di Dio, che è ricevuta dall’uomo (per
partecipationem o limitatamente), ossia ha un po’ di bontà. Come si
vede l’analogia di attribuzione intrinseca esprime la presenza di
Dio nelle creature come loro causa efficiente e la sua infinita
trascendenza, come Esse per essentiam. Nell’analogia di
proporzionalità, invece, non vi è un primo e un secondo analogato,
ma tutti sono analogati senza una priorità e posteriorità.
● P. Fabro (+ 1995) nega
che l’interpretazione sull’analogia del Gaetano sia quella più
esatta per far teologia ossia per parlare di Dio dopo averne
dimostrato l’esistenza. Egli preferisce l’analogia di attribuzione
intrinseca soprattutto per quanto riguarda il discorso teologico su
Dio per evitare lo scoglio del nichilismo teologico (equivocità
dell’essere, Mosè Maimonide) e il pericolo del panteismo (univocità
dell’essere, Scoto/Suarez). Secondo Fabro, San Tommaso quando spiega
il significato del linguaggio teologico, si richiama pochissime
volte all’analogia di proporzionalità, mentre parla spesso di
un’analogia secundum prius et posterius, che è quella di
attribuzione e precisamente intrinseca, la quale viene fatta secondo
un rapporto di priorità (dell’analogato principale su quello
secondario) e dipendenza (dell’analogato secondario o ens ab alio
dall’analogato principale o Ens a se); inoltre l’analogia estrinseca
non è atta a condurci a parlare di Dio e si applica piuttosto agli
enti creati (la salute attribuita all’uomo, alla passeggiata, alla
bistecca, al sole).
● L’analogia si fonda sulla causalità
efficiente. Ora il rapporto tra causa ed effetto comporta
necessariamente una certa somiglianza tra di loro. Omne agens agit
sibi simile. Quando la causa è Dio, l’effetto, essendo una creatura
finita, non può essere eguale a Dio, ma vi è solo una lieve
somiglianza assieme ad una grandissima dissomiglianza, e questa è
una somiglianza analogica. Tutte le perfezioni che Dio comunica alle
creature (anche le perfezioni pure) non hanno mai parità di
possesso, esse sono possedute per essentiam o per partecipationem.
Inoltre tale possesso avviene secondo un prius et posterius ossia
una priorità e una dipendenza. Soprattutto per capire il significato
di essere/essenza/ente (che è il cuore della metafisica tomistica
ascendente a Dio e discendente da Dio) l’analogia più consona è
quella di attribuzione intrinseca. Il concetto forte di essere come
atto ultimo di ogni essenza (che era sfuggito al Gaetano il quale
confondeva essere ed esistenza[2])
si capisce meglio ricorrendo all’analogia di attribuzione
intrinseca, la quale considera i rapporti tra gli analogati
(rapporto di soggetto a soggetto e non rapporto di rapporti o
proporzioni) secondo priorità e posteriorità. Ora l’essere come atto
ha un analogato principale a cui l’esse appartiene in tutta la sua
pienezza e perfezione, senza nessun limite, mentre l’esse si dice
secondariamente degli analogati secondari o per partecipationem,
dove si realizza solo parzialmente e finitamente, grazie al loro
rapporto con l’analogato principale da cui derivano la loro parte di
essere. Non si può dire - come fa Tomas Tyn - che l’intrinsecità
dell’analogia di attribuzione le derivi dalla proporzionalità.
Invece le viene dal rapporto tra analogato principale e analogato
secondario, che è di causalità/effetto e di priorità/posteriorità.
Quindi l’attribuzione è intrinseca proprio perché l’essere è
attribuito per prius et causaliter all’Esse per essentiam e per
posterius et effectualiter all’ens per partecipationem. L’atto di
essere appartiene a tutti gli analogati, ma a pieno titolo solo
all’Esse per essentiam dal quale ogni altro analogato secondario
riceve l’esse per partecipationem. Solo Dio è il suo stesso essere
(Ego sum qui sum, Javèh), mentre tutte le creature hanno solo una
parte finita di essere dato loro da Dio. Così il rapporto di
priorità e posteriorità non è soltanto estrinseco o nominale, ma
intrinseco e reale, come quello che intercorre tra la causa
efficiente e il suo effetto: un rapporto di partecipazione. Gli enti
finiti hanno l’atto di essere perché l’hanno ricevuto dall’Esse per
essentiam, che non ha l’essere, ma è l’Essere stesso sussistente,
l’Esse ipsum subsistens. L’analogia di attribuzione intrinseca mette
bene in luce il nesso di causa/effetto e l’ordine di
priorità/posteriorità tra Dio e gli enti creati. Quindi è la
sentinella più valida contro il panteismo, il quale si trova
virtualmente in Scoto e Suarez per la loro concezione dell’essere
come univoco e non per la buona sistematizzazione suareziana della
divisione del concetto di analogia, anche se la sua concezione o
definizione di analogia non può essere seguita.
● L’analogia di
attribuzione intrinseca non è solo una somiglianza di rapporti o di
proporzionalità, ma è una somiglianza diretta tra gli analogati. Si
badi bene: questo non è un difetto ma un pregio. Ora S. Tommaso
insiste specialmente nel Commento al De Divinis Nominibus di Dionigi
il Mistico nell’insegnare che l’analogia più atta a parlare di Dio è
l’analogia di unius ad alterum ossia quella di attribuzione
intrinseca, la quale comporta tre elementi: 1°) ordine di priorità
(Dio) e posteriorità (creature); 2°) dipendenza dell’analogato
secondario (creatura) da quello principale (Dio); 3°) somiglianza
tra analogati (Dio/creature; altrimenti non si potrebbe dire nulla
su Dio e si scivolerebbe nell’apofatismo o nichilismo teologico di
Mosè Maimonide + 1204).
● P. Fabro ribalta la
teoria del card. Gaetano seguita dal p. Tyn. La questione è assai
lunga (dura da circa 500 anni) e dibattuta. Non mi sento in grado di
poterla risolvere io con assoluta certezza. Ma non getterei a mare
la rivalutazione dell’analogia di attribuzione del p. Fabro e
ritengo che certe accuse del p. Tyn all’analogia di attribuzione
intrinseca (inesistente in S. Tommaso, inventata da Suarez e
tendenzialmente panteista) siano sinceramente esagerate ed
infondate. Soprattutto dobbiamo sempre ricordarci che il rapporto
sussistente tra S. Tommaso e i tomisti è quello di analogia, ove vi
è una piccola somiglianza e una grandissima differenza. I Domenicani
sono soliti dire: “si vis intelligere Cajetanum, lege Thomam”. In
fatto di tomismo l’Angelico è l’analogato principale e noi siamo
solo analogati secondari.
*
L’analogia tomistica
contro l’apofatismo
● Dionigi il Mistico ha scritto tra le
altre un’opera famosissima il De Divinis Nominibus, commentato e
perfezionato da san Tommaso d’Aquino e ultimamente dal p. Ceslao
Pera (1950[3]
- 1972)[4]
e infine dal p. Battista Mondin (2004)[5].
Questo scritto di Dionigi e il commento-perfezione di s. Tommaso
rappresentano il bastione e la confutazione più lucida di ogni forma
sia di panteismo o monismo-univocista (Parmenide) sia di nichilismo
teologico o apofatismo (Maimonide). In essa Dionigi insegna (e il
Concilio Vaticano I ha definito infallibilmente, sessione III,
canone 2) che l’uomo, con la sola ragione naturale, può dimostrare
con certezza, a partire dalle creature, l’esistenza del Creatore e
può conoscere anche qualche attributo o perfezione (“Nomi”)
dell’Essere stesso per se sussistente. Ciò può avvenire in diversi
modi:
1°) per causalità: le
perfezioni miste a qualche limite (l’ente per partecipazione o le
creature) si trovano in Dio causalmente, in quanto Dio è la loro
Causa prima incausata;
2°) per affermazione: le
perfezioni pure, senza alcun limite (essere, unità, verità, bontà e
bellezza) si trovano formalmente o intrinsecamente in Dio e quindi
si può affermare che Dio è l’Essere, l’Uno, il Vero, il Bene, il
Bello per essenza o per se stesso sussistente, contrariamente alla
in-esprimibilità di cui parla Maimonide; infine
3°) per negazione: si
esclude ogni limite (corpo, morte, male) e si giunge così al
4°) momento di eminenza: le perfezioni
pure si trovano in Dio in maniera eminente o superlativa (Dio è
l’Essere/la Bontà/la Verità/la Bellezza per se stessa sussistente o
per sua natura), che trascende ogni limite umano, mentre si trovano
nelle creature in maniera limitata e per partecipazione (l’uomo ha
un po’ di essere, verità, bontà finitamente e in maniera
partecipatagli da Dio)[6].
Onde Dionigi premette ad ogni nome o attributo divino il “super”:
Dio è super-Ente/Bello/Vero/Buono.
● Attenzione! le quattro
tappe vanno prese assieme e non disgiuntamente, per non cadere
nell’errore per difetto o nell’errore per eccesso.
Errore per difetto è
l’“apofatismo o agnosticismo teologico”, che nega all’uomo ogni
possibilità di conoscere e parlare di Dio; questa è la via della
“equivocità” teologica, ossia, quando si vuol parlare di Dio o far
teologia, si dicono solo cose equivoche o contraddittorie su di Lui
ed allora sarebbe meglio tacere, dacché Dio è ineffabile, indicibile
e inesprimibile.
L’errore per eccesso è la
“univocità”, che rende la creatura della stessa sostanza di Dio
(monismo panteista ascendente o discendente), che nulla ha a che
vedere con il tomismo strettamente originario e anti-modernista.
● Invece secondo Dionigi, san Tommaso e la
sana ragione sublimata dalla prima (S. Tommaso), seconda (Gaetano e
Ferrariensis) e terza scolastica (Sanseverino, Liberatore, Zigliara,
Gredt, Hugon, Garrigou-Lagrange, Tyn, Fabro e Mondin), i nomi di
Dio, se sono “perfezioni pure”, si predicano di Lui per “analogia”[7],
ossia in maniera sostanzialmente diversa e accidentalmente simile,
vale a dire l’essere si trova in Dio in maniera formale ed eminente
(Dio è realmente e infinitamente Essere), mentre l’essere si trova
nelle creature in maniera formale o intrinseca e reale, ma
imperfettamente e limitatamente (l’angelo, l’uomo, il cane, la
pianta, il sasso esistono o hanno l’essere, ma in maniera limitata e
imperfetta). Questa è la vera analogia tomistica.
Inoltre creature e Creatore si
assomigliano solo relativamente al fatto di esistere
(accidentalmente), mentre si diversificano sostanzialmente dacché
l’Essere di Dio è infinito e incausato, mentre l’essere delle
creature è causato e finito. Come si vede l’opposizione tra i due
errori per eccesso e difetto (panteismo “univocista” o nichilismo
teologico), che giacciono come due burroni, a destra e a sinistra,
di un’altissima montagna, la quale si erge tra loro in medio et ad
summum (nel giusto mezzo di altezza o “profondità” e non di
mediocrità) e la verità (analogia in maniera formale ed eminente) è
totale e irreconciliabile[8].
● Infatti l’errore
panteista o della “univocità” tra Dio e creato, asserisce che la
conoscenza e l’unione piena con Dio si raggiunge solo attraverso la
natura umana, in virtù di una conoscenza intuitiva (ontologismo) e
anche magica (gnosis, teurgia).
● Il teologo nichilista o
agnostico dice che l’uomo non è assolutamente capace di nulla
riguardo alla conoscenza dell’esistenza di Dio (“equivocità”) e a
fortiori dei suoi attributi o nomi.
● La’“analogia” dell’ente e della fede
(Dionigi e san Tommaso e il Concilio Vaticano I), insegnano che si
può conoscere l’esistenza e anche qualche attributo o nome di Dio.
Invece l’essenza (o “volto di Dio”) potrà essere conosciuta o vista
intuitivamente solo in Paradiso grazie al ‘Lumen gloriae’ che ci dà
la ‘Visio beatifica’. Onde il desiderio naturale di Dio è inefficace
da parte dell’uomo e condizionato alla libera volontà divina,
contrariamente a quanto insegnava Henry De Lubac nel Soprannaturale
del 1946, insegnamento condannato da Pio XII nella Humani generis
del 1950. Quindi il tomismo verace (e non quello trascendentale di
Maréchal e Rahner o quello decadente-suareziano di de Lubac)[9]
è il migliore antidoto per combattere ogni forma di apofatismo,
estremo o mitigato.
*
L’analogia come miglior
critica del panteismo
● San Tommaso d’Aquino nel
Commento alle Sentenze (I, d. 8, q. 1, a. 2) si pone la questione
“se Dio sia l’essere di tutte le cose” e risponde che “Dio è
l’essere di tutte le cose non essenzialmente ma causativamente”.
Ossia Dio non è coessenziale al mondo, ma ne è la causa efficiente e
realmente distinta pur essendo onnipresente. Poi lo prova,
distinguendo tre tipi di causalità efficiente: a) causa univoca:
causa ed effetto sono identiche o della stessa specie (padre e
figlio); b) causa equivoca: non vi è nessuna identità reale ma solo
una certa vaga somiglianza qualitativa nominale (il sole che scalda
e le pietre scaldate si somigliano quanto alla qualità del calore,
ma non sono della stessa specie); c) causa analoga: vi è una certa
somiglianza accidentale tra causa ed effetto (omne agens agit simile
sibi) mista ad una dissomiglianza sostanziale più marcata: per
esempio tra Dio e l’uomo vi è una certa somiglianza relativa al
rapporto di causa/effetto, ma essi sono sostanzialmente diversi
poiché Dio è ‘a Se’, le creature ‘ab Alio’. Da ciò risulta che Dio
produce l’essere del mondo secondo una debole ed imperfetta
somiglianza per rapporto alla sostanziale diversità tra loro due.
Quindi “l’Essere divino produce l’essere del mondo in quanto
dall’Essere infinito procede o è causato efficientemente l’essere di
tutte le creature” (I Sent., d. 8, q. 1, a. 2). Nella Summa contra
Gentiles (Lib. III, cap. 68) l’Angelico precisa che Dio è
onnipresente, ma “non si trova mescolato al mondo: Egli non è né
forma né tanto meno materia di alcuna cosa, ma si trova nelle sue
creature come causa agente efficiente”. Quindi il mondo e le
creature possono essere chiamati “divini” solo per partecipazione e
imitazione in quanto creati da Dio (S. Th., I, q. 45, a. 7; I, q.
91, a. 4). L’Aquinate elimina così anche ogni possibile equivoco
immanentistico, distinguendo presenza, inerenza o immanenza da
immanentismo. Così Dio non solo è l’ “Ens a Se”, ma è anche “Ens a
quo omnia alia derivantur”. Come dice ancora S. Tommaso: “quod
dicitur maxime tale in aliquo genere, est causa omnium quae sunt
illius generis” (S. Th., I, q. 2, a. 3) ossia Dio, che è l’Essere
massimo è causa di tutti gli enti; come pure “omnia quae sunt in
aliquo genere, derivantur a principio illius generis” (S. Th., I-II,
q. 1, a. 1, sed contra), cioè tutti gli enti, derivano o partecipano
dal Principio dell’ente. Perciò Dio è Ens a se a quo omnia alia
sunt; mentre la creatura è ens ab alio derivans et participans.
● La Filosofia Tomistica ha compendiato il
pensiero del Dottore Comune così: il vero problema è quello della
coesistenza e conciliazione del finito coll’Infinito. Posto ciò, vi
sono diverse scuole filosofiche: a) o si dice che Dio assorbe in Sé
tutto e che non vi sono enti finiti all’infuori dell’Essere Infinito
di Dio (panteismo monista); b) o, se esistono altri enti, essi si
aggiungerebbero a Dio formando assieme a Lui una perfezione ancora
più grande, ma questa è una falsa nozione di Dio ed equivale a
negare il vero concetto di Dio (ateismo); c) tuttavia vi è una terza
possibilità: l’ente finito esiste, è un fatto, ora esso suppone una
Causa incausata e Infinita, poiché una serie infinita di cause
finite e causate non spiega se stessa. Infatti si resta nel campo
dell’effetto e non si giunge alla causa prima o spiegazione della
realtà creata e causata. Se un cieco ha bisogno di una guida per
camminare bene, la guida non può essere cieca: anche se la serie dei
ciechi è infinita, essa non riesce a guidare o far camminare bene il
cieco ultimo, anzi aumenterebbe la difficoltà e il caos; così, se
l’ignorante ha bisogno di un maestro, questi non deve essere
ignorante, altrimenti non si arriverà mai all’istruzione, anche se
la serie dei maestri ignoranti è infinita. Così si deve risalire
dall’effetto alla causa, dal creato all’Increato, dal finito
all’Infinito e non si può restare al livello degli effetti. La serie
infinita di enti finiti ci farebbe restare nell’effetto causato e
non ci fa risalire alla Causa incausata. Non si deve badare alla
quantità o lunghezza della serie degli anelli di una catena, per
spiegarne l’esistenza, ma occorre rimontare alla qualità degli
anelli che compongono la catena e dall’effetto finito o causato
risalire ad una Causa incausata e Infinita. La creatura è distinta
da Dio perché essa è finita, però tutto ciò che ha lo ha o lo
partecipa da Dio, che è l’Essere per essenza e non ha l’essere da
nessuno[10].
Onde, tutto quel che c’è di perfezione nella creatura è in maniera
sovra-eminente ed infinita in Dio. Così la perfezione della creatura
non aggiunge nulla a Dio. Dio e creature non formano “più-Essere” o
un “Super-Essere”, ma solo più enti, poiché l’essere della creatura
è partecipato o dato da Dio, così come, se un allievo sa qualcosa in
quanto glielo ha insegnato, dato o partecipato il maestro, maestro e
scolaro non fanno più scienza ma solo più scienti.
● Così a) tra panteismo (l’essere finito
assorbito in Dio) e b) dualismo reale o Deismo (essere finito
estraneo a Dio) vi è un a terza posizione: c) l’essere finito delle
creature, che è partecipato o derivato da Dio (Essere Infinito),
contiene in grado limitato quella perfezione che in Dio è Infinita.
Vi sono più enti, ma non cresce l’Essere divino (contro il monismo
panteista). Perciò se si esclude a) l’identità o univocità tra Dio e
mondo, come pure b) la separazione assoluta o equivocità dualistica
(specialmente del Deismo moderno), resta c) la partecipazione
causale e analogica. Dio è distinto dagli altri enti, ma non ne è
separato: in quanto Infinito è distinto dagli enti finiti, ma è
anche presente dappertutto come Causa efficiente ed anche finale ed
esemplare. Onde «l’ente e l’essere si dice di Dio e degli altri enti
secondo l’analogia di proporzionalità propria e di attribuzione
intrinseca. Dio sta al suo Essere in modo simile a come ogni altro
ente sta al suo essere. Tuttavia l’Essere di Dio è essenzialmente
diverso da quello degli altri enti: Dio è lo stesso Essere per sua
essenza, mentre ogni altro ente riceve, ha o partecipa dell’essere.
C’è quindi una certa relativa somiglianza e una sostanziale
diversità tra l’essere degli enti e quello di Dio»[11].
*
Metafisica e analogia come
rimedio ai mali odierni
● Abbiamo già citato il padre Mondin che
giustamente vede nel nichilismo l’esito ultimo del panteismo: «Non
più Dio, ma l’uomo è contemplato come creatore della realtà. Hegel è
il punto culminante e insuperabile della cultura moderna: epoca che
si consuma nell’ateismo o nichilismo assoluto, come esito
dell’antropocentrismo o umanesimo assoluto; o Dio si identifica
panteisticamente col mondo, oppure è negato [ateisticamente] o
“ucciso” [nichilisticamente] come realtà oggettiva in sé e per sé
esistente»[12].
● Giovanni Reale parla di «nichilismo come
la radice dei mali d’oggi»[13]
e propone la saggezza classica come terapia dei mali dell’uomo
d’oggi. Vediamo quali indicazioni e consigli ci fornisce lo studioso
dell’antichità greco-romana. Innanzitutto parte dalla considerazione
che «il nichilismo si radica in questo tipo di società
[contemporanea, progressista, tecnologico-scientista]. Infatti, gli
ingranaggi del sistema programmato e assolutizzato considerano la
verità, la bellezza e la libera scienza come mali se non come
pericoli pubblici»[14]
e continua: «a mio giudizio, tutti i mali di cui soffre l’uomo di
oggi hanno proprio nel nichilismo la loro radice. Nel XX secolo si è
verificato ciò che Nietzsche aveva predetto»[15].
Onde passa a proporre un rimedio: «la vittoria sul nichilismo
mediante il recupero di ideali e di valori supremi»[16].
L’essere come atto ultimo e l’analogia. Ma, avverte che «non è
un’operazione facile, poiché implica una vera e propria rivoluzione
spirituale»[17]:
il ritorno alla metafisica classica e all’analogia, perfezionata
dalla scolastica tomistica, e «non affatto un ritorno acritico a
certe idee del passato, ma l’assimilazione e la fruizione di alcuni
messaggi della saggezza antica o perenne. […] Seneca illustra a
perfezione l’intento che mi propongo […]: “Se vorrai star bene, cura
soprattutto la salute dell’anima, e poi quella del corpo” (Lettera a
Lucilio, XV, 1-2). “Gli studi sono stati la mia salvezza; è merito
della filosofia se mi sono alzato dal letto e se sono guarito: a lei
sono debitore della vita” (Ibidem, LXXVIII, 3)»[18].
La cultura contemporanea, secondo il Reale, ha «perduto il senso di
quei grandi valori che, nell’età antica e medievale […] costituivano
i punti di riferimento essenziali, e in larga misura irrinunciabili,
nel pensare e nel vivere»[19].
Alla filosofia attuale o post-moderna, manca la ragion d’essere, il
fine e lo scopo di vivere, la risposta al “perché?”. Questo è il
nichilismo filosofico, ove i valori supremi (essere, conoscere,
morale, finalità) si “s-valorizzano”, infatti non restano più
l’essere per partecipazione e per essenza, la realtà, la verità, il
bene, resta solo il “nulla”. È l’antropocentrismo della modernità,
che dopo essersi auto-deificato in un delirio di onnipotenza, si è
rivoltato contro se stesso in un impeto di follia auto-lesionista.
Dopo aver negato la trascendenza, la si vorrebbe uccidere assieme a
Dio e a tutti i valori ad esso connessi. Per non restare solo alla
pars destruens, Nietzsche e il nichilismo vorrebbero uscire
dall’annichilazione totale dei valori tramite la volontà di potenza,
come oltrepassamento del nichilismo: «Il traslocamento dei valori
dalla sfera dell’essere e della trascendenza alla sfera immanente
della volontà di potenza, costituiscono la tappa conclusiva e
compiuta [pars construens] del nichilismo»[20].
L’uomo ha cercato, così, di dare a se stesso gli attributi che prima
conferiva a Dio. Ma, “l’uccisione di Dio” comporta anche
l’eliminazione di tutte le proprietà e gli attributi divini, per cui
dopo aver “ucciso Dio” l’uomo resta senza Dio e senza potersi
appropriare delle sue qualità; mentre il Dio tradizionale,
trascendente e personale, lo aveva reso “partecipe della sua natura
divina” (II Petri), in maniera limitata e finita, tramite la Morte e
Resurrezione di Cristo, fonte della grazia santificante. “Chi troppo
vuole nulla stringe”: prima (con la modernità idealista) l’uomo o
l’Idea ha preteso di prendere il posto del Dio reale e oggettivo;
poi con la post-modernità nichilistica l’uomo ha voluto “uccidere
Dio” e ogni “Idea” di Dio, pur soltanto soggettiva, per fare il
super-uomo. Ma, è rimasto solo con se stesso, disperato e votato
sartrianamente al suicidio. Il deicidio nichilistico dell’Essere
immutabile e trascendente, si fonda sulla volontà di potenza
creatrice e sul divenire o evoluzione parimenti creatrice.
● Marx è il maestro di
questo tipo di nichilismo, primato della prassi sulla conoscenza,
oblio della verità rimpiazzata con ciò che fa comodo (pragmatismo) o
con la “disciplina del partito”, che tramite “l’Americanismo”
condannato da Leone XIII in Testem benevolentiae (1889) è penetrato
anche in ambiente cattolico. Nel 68 si diceva: “cercate il potere, e
tutto il resto verrà da sé”. Questo è il vero ideologismo.
L’ideologo non è colui che ricerca la verità come conformazione alla
realtà. No. L’ideologista, sottospecie ammodernata di ideologo
all’ultimo grido, non si cura della verità oggettiva “adequatio rei
et intellecus”, ma si auto-convince o fa finta di credere che “ciò
che conta è quello che è ritenuto per vero o che è fatto ritenere
per vero” con la forza bruta dello Sato di polizia o con la
persuasione allucinogena del mini-Stato di depravazione liberista. I
filosofi si adeguano ed assentono a cose oggettivamente e realmente
vere, gli ideologisti fingono di credere ad una verità e dopo
essersene auto-convinti la propinano ai loro “fedeli”. È la prassi
del tener per vero, anche se non lo è. L’ultima categoria di
“ideolo-sofisti” sono i “chierici” che farisaicamente non si curano
della loro anima e della realtà oggettiva, ma di ciò che fa loro
comodo ed aggravano l’errore filosofico dell’ideologismo, rendendolo
un errore teologico (americanismo modernistico). Se Gesù tornasse
sulla terra lo rimetterebbero in croce, poiché è un pericoloso
guastafeste, così come hanno fatto i loro avi coi profeti
dell’Antico testamento e i loro padri coi santi del Nuovo
Testamento. Il vero filosofo è il contrario dell’ideologista: egli
sa vivere e morire in accordo con il proprio pensiero, che ha
cercato di adeguare alla realtà lungo il corso di tutta la sua
esistenza. L’ideologista è in disaccordo con il retto pensiero o
adeguazione dell’intelletto alla realtà e si vuol auto-convincere
che la prassi è superiore alla teoria, il fare all’essere, il
produrre al conoscere la verità. Egli deve vivere di menzogne,
soprattutto deve mentire a se stesso, poiché verità viene dal greco
aletheia, (alfa privativo più lanthano), che significa
“non-nascosto”. Onde la verità appare chiara se si scruta con onestà
la realtà, mentre la si deve voler nascondere se si vuol vivere
secondo i propri comodi e non secondo la realtà quando è scomoda.
Allora si fa come Ponzio Pilato e ci si domanda senza attendere
risposta: “cos’è la verità?” ovvero: vale la pena farsi metter in
croce per “rendere testimonianza alla verità”? La filosofia
classica, patristica e scolastica rispondono che la contemplazione
(guardare con amore) della verità e della realtà oggettiva è il
supremo valore umano, dacché l’uomo è animale razionale e libero (e
solo lui stesso può rendersi intimamente schiavo allontanandosi
dalla verità per aderire al comodo).
● Inoltre già Platone nella Repubblica
asseriva che la contemplazione ha una dimensione politica o sociale,
poiché la conoscenza della Verità somma e del Bene supremo salva non
solo l’individuo ma la famiglia e l’insieme delle famiglie che
formano la polis o città (= viver assieme in una società perfetta di
ordine temporale). La fobia della politica in un ecclesiastico
equivale alla fobia della Chiesa (Ecclesia = stare assieme in una
società perfetta soprannaturale); essa è una contradictio in
terminis. La vera filosofia, al contrario dell’ideologismo
sofistico/farisaico ossia filosofico/teologico, non ha la
polis-fobia o paura della vera politica, che è la virtù di prudenza
applicata alla società civile: essendo l’uomo socievole per natura,
sarebbe contro-natura non voler fare vera politica. Perciò «non si
tratta di aumentare (con la prassi e la tecnica) le cose che l’uomo
ha, ma di accrescere, con la contemplazione della verità, l’uomo
stesso»[21]
sia come individuo razionale e libero sia come animale socievole,
che realizza nella polis la sua vera natura, poiché da solo non ci
riuscirebbe: “nessun uomo è un’isola”, “tranne gli eremiti e i
folli”. Tuttavia se la filosofia classica greco-romana era arrivata
alla metafisica, alle sostanze e all’essere con la “Seconda
navigazione” filosofica (dal sensibile al meta-sensibile), solo il
Cristianesimo può perfezionare la natura mediante la grazia e farci
giungere con la “Terza navigazione” spirituale dall’essere naturale
al soprannaturale, che è “una partecipazione limitata e finita della
vita di Dio”. «Solo la Croce può fare attraversare il burrascoso
mare della vita. La “Terza navigazione” davvero potrebbe liberare
l’uomo d’oggi dai suoi mali, e comporta il capovolgimento radicale»[22]
di un mondo sottosopra, in cui non c’è più spazio per Dio, per la
verità, per la conoscenza e la morale. Onde occorre ribaltare a 180°
i contro-valori del mondo attuale e riportare l’asse ai valori, non
del passato che in quanto tale è andato e non può tornare, ma a
quelli perenni di ieri, oggi e domani, i quali essendo connaturali
all’uomo non possono preterire. Dopo aver toccato l’orlo dell’abisso
l’uomo post-moderno deve avere il coraggio di dire: adesso che tutto
è finito si deve ricominciare. Christus heri, hodie et in saecula!
d. CURZIO NITOGLIA
18 novembre 2011
[1]
L’analogia di proporzionalità propria dice similitudine di
rapporto. Ogni categoria di enti ha un suo proprio modo di
essere e tra questi modi di essere c’è una certa somiglianza di
rapporto. Per esempio Dio sta al suo essere, come l’uomo sta al
suo, come l’animale sta al suo, come la pianta e il minerale
stanno al loro. L’essenza di Dio e quella delle creature
menzionate sono sostanzialmente diverse, però essi sono simili
perché ognuno di loro ha l’essere che gli è proporzionato
(somiglianza proporzionale e non di uno all’altro). Si tratta di
una somiglianza di rapporti nel modo di avere - ognuno a modo
suo - l’essere che gli corrisponde o che gli è proporzionato. Si
tratta di un rapporto complesso, un rapporto di rapporti o
proporzioni.
Invece nell’analogia
di attribuzione intrinseca si tratta di un rapporto semplice di
uno ad un altro, di Dio alla creatura, secondo causalità
efficiente che comporta una dipendenza dell’effetto dalla causa
e una priorità/posteriorità della causa sull’effetto. Essa è
tutto il contrario del panteismo, anzi ne è la più esplicita
confutazione. Infatti solo nella quarta via (fondata sul
concetto di partecipazione e sull’analogia di attribuzione)
nella quale Dio è qualificato come “causa dell’essere”, S.
Tommaso giunge a Dio come Creatore di tutti gli enti. (S. Th.,
I, q. 2, a. 3). L’analogato secondario (ente) può essere
concepito e definito solo in relazione all’analogato principale
(Dio), che entra intrinsecamente nell’analogato secondario come
sua causa efficiente. Per esempio quando si parla di ens ab
alio, l’alio (che è l’Aseitas) entra intrinsecamente e
direttamente nella creatura o analogato secondario e le dà una
parte del suo Ens a se. Perciò essere/essenza/ente si dicono
intrinsecamente e formalmente anche dell’analogato secondario,
non in virtù della proporzionalità, ma dell’attribuzione che si
fonda sulla causalità efficiente (cfr. R. M. Mc Inerny, The
Logic of Analogy, Den Haag, 1961).
[2]
L’essere come atto ultimo perfeziona l’essenza e così l’ente,
che è un’essenza avente l’essere, esce fuori dalla sua causa e
dal nulla ed esiste. L’esistenza (da ex- esistere, uscir fuori)
è l’effetto dell’essere come atto ultimo che è la causa della
esistenza. Questa nozione originale dell’essere come atto ultimo
è il vertice della filosofia tomistica, la quale supera quella
aristotelica, che si era fermata all’essenza e non era giunta
all’essere che attua ultimamente ogni essenza. Gaetano (pur
nella genialità del suo Commento alla Somma Teologica) non ha
colto questa originalità dell’Angelico, ha confuso essere con
esistenza ed ha presentato un tomismo come un semplice commento,
anche se approfondito, di Aristotele.
[3]
S. Thomae Aquinatis, In librum Beati Dionysi de Divinis
Nominibus Expositio, a cura di Ceslao Pera, Roma-Torino,
Marietti, 1950.
[4]
Ceslao Pera, in La Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino, a
cura dei Domenicani Italiani, Firenze, Salani, 1972,
“Introduzione generale”, Prefazione: Le fonti del pensiero di S.
Tommaso nella Somma Teologica, pp. 60-77, cfr. anche S. Th., I,
q. 13, aa. 1-12, I Nomi Divini, commento e note a cura di p.
Ceslao Pera, Firenze, Salani, 1972, vol. 1°, pp. 292-345.
[5]
S. Tommaso d’Aquino, Commento ai Nomi Divini di Dionigi,
Bologna, ESD, 2004, vol. I, “Introduzione” a cura di Battista
Mondin, p. 5 ss. Cfr. B. Mondin, Il problema del linguaggio
teologico dalle origini ad oggi, Brescia, Queriniana, II ed.,
1975.
[6]
La “partecipazione” è un concetto che san Tommaso mutua più da
Platone che da Aristotele; esso gli servirà nella quarta via per
dimostrare l’esistenza di Dio. Padre Cornelio Fabro (La nozione
metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino,
Milano, Vita e Pensiero, 1939; Partecipazione e causalità in S.
Tommaso, Torino, SEI, 1961) ha messo in luce più di tutti il
fatto che san Tommaso non è un puro commentatore di Aristotele,
ma il perfezionatore dello Stagirita, che si fermava all’atto
primo o forma sostanziale o essenza, mentre l’Angelico ha
precisato che, se la l’atto primo (forma, sostanza-essenza)
informa la potenza, l’essenza a sua volta è ultimata dall’essere
che è l’atto ultimo o perfezione ultima di tutte le forme,
essenze e perfezioni prime. Onde la metafisica di Aristotele è
filosofia dell’essenza (atto primo), mentre quella tomistica è
filosofia dell’essere (atto ultimo), il quale si ritrova nelle
creature in maniera limitata e per partecipazione
(“partem-capere”) dell’Essere infinito, incausato e causante di
Dio che è l’ipsum Esse subsistens.
[7]
Cfr. Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e
analogia entis, Bologna, ESD, 1991; rist. Verona, Fede e
Cultura, 2009.
[8]
Cfr. R. Garrigou-Lagrange, Dieu son existence et sa nature,
Parigi, Beauchesne, 2 voll, 1919.
[9]
Cfr. C. Fabro, Neotomismo e Neosuarezismo, Piacenza, Alberoni,
1941, rist. Segni, Edizioni Verbo Incarnato, 2007.
[10]
Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
S. Tommaso d’Aquino, Milano, Vita e Pensiero, 1939; Id.,
Partecipazione e causalità in S. Tommaso, Torino, SEI, 1961.
[11]
P. Carosi, Corso di filosofia, IV vol., Ontologia: Dio, Roma,
Paoline, 1959, p. 228.
[12]
B. Mondin, Storia della metafisica, Bologna, ESD, 1998, 3° vol.,
p. 373.
[13]
Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 1995, p. 11.
[14]
G. Reale, ibidem, p. 4.
[15]
Ibidem, p. 6
[16]
Ivi.
[17]
Ibidem, p. 7.
[18]
Ibidem, pp. 8-9.
[19]
Ibidem, p. 11.
[20]
Ibidem, p. 24.
[21]
Ibidem, p. 83.
[22]
Ibidem, p. 114.
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