I paladini cattolici dell’ecumenismo vogliono l’unità tra le Chiese, ma spesso non vogliono l’unità nella Chiesa. Desiderano abbracciare tutti, ma “fuori”, mentre scomunicano lanciando l’interdetto: “conservatore!”, “integrista!” quelli di “dentro” che non gli stanno simpatici.
Louis Bouyer
Gnocchi, la messa negata: 6 riflessioni in margine.
Pubblicato il novembre 21, 2011
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Interrompo
la letargite – che in realtà è un silenzio causato dal sormontare di
troppi impegni in poco tempo, e dalla forza zero di aggiornare il blog –
stimolato dal fatto tristissimo e recente destinato a passare alla
storia della Chiesa come il “Caso Gnocchi”: quando un parroco di
provincia nega le esequie a un defunto, causa la cattolicità del defunto
che eccede gli ideologismi della canonica. La vicenda è nota e per le
fonti rimando all’articolo di cronaca pubblicato su Riscossa Cristiana.
A
me piacerebbe fare 6 brevi appunti in margine al “Caso” e all’articolo,
per vedere se siamo già arrivati al tragico “in Ecclesia nulla salus” o
se facciamo in tempo a scamparlo.
*
Ma,
prima di tutto, per i meno aggiornati dobbiamo fare un salto indietro
di qualche anno, fino a quel fatidico 7 luglio 2007 in cui
il
Papa felicemente e faticosamente regnante ha scritto di sua iniziativa,
in totale libertà e in pieno possesso delle sue facoltà mentali, che un
cattolico può eccome chiedere e ottenere un rito funebre che è ancora
pienamente legittimo nella Chiesa, e che nella Chiesa è stato utilizzato
per accompagnare al camposanto milioni di fedeli per centinaia di anni.
Il Motu Proprio Summorum Pontificum non lascia scampo ad alcuna
interpretazione di segno opposto.
Meglio,
il papa ha scritto che qualsiasi prete può celebrare nel rito
tradizionale (tecnicamente: nella forma extraordinaria dell’unico rito
latino), e che gruppi di almeno 30 fedeli possono richiedere una messa
stabile nella medesima forma del rito, etc. Per i dettagli rimando
direttamente al Summorum Pontificum, e al successivo Universae Ecclesiae – 30 aprile 2011 – che ne precisa le condizioni di attuazione.
Da
allora si è smascherata una falla di sistema nel mondo cattolico, per
cui è stato facile vedere chi fosse realmente fedele al papa e al
cattolicesimo, e chi invece ritenesse, e ritenga, di poterne realizzare
una versione fai-da-te, basata su disinformazione e pressing
psicologico, prima sui preti e poi sui laici. Il tutto in nome
dell’ideologia vaticanosecondista brillantemente burlata proprio da
Gnocchi&Palmaro nel recente La bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Editore Vallecchi 2011.
La situazione francamente imbarazzante dell’era post-motu-proprio (anno V del Summorum) si tocca con mano leggendo che
il
parroco non poteva essere toccato dal documento del Santo Padre dato
che, candidamente, ha confessato di non conoscerlo. Così come non era al
corrente del fatto che il testo applicativo del Motu proprio,
l’istruzione Universae Ecclesiae, in simili casi invita il parroco a
lasciarsi «guidare da zelo pastorale e da uno spirito di generosa
accoglienza».
Chiaramente
dell’ignoranza del clero dovremmo chieder conto ai debiti formatori, e
il cerchio è presto chiuso. Però su questo non mi dilungo.
Veniamo ai 6 brevi appunti, emersi dalla lettura dell’articolo: 6 agghiaccianti strabismi.
Primo strabismo: l’ideale soppianta il reale
Il
primo conflitto a emergere dalla cronaca è uno sguaiato cambio di
prospettive. Se di regola la realtà si offre come base a partire dalla
quale proporre con sobrietà ideali di miglioramento e perfezionamento,
dalla testimonianza del don Abbondio bergamasco scopriamo che oggi le
cose viaggiano alla rovescia. La realtà sparisce dall’orizzonte mentre
ci viene propinato con insistenza un nuovo mondo virtuale, un mondo
fatto di ideali partoriti da non-si-sa-bene-chi, il quale così –
fieramente sprezzanti delle più banali regole di logica minor – pretende di edificare le uniche nuove verità in cui incubare i docili christifideles laici, o almeno i pochi rimasti. Stalin prenda nota:
Ma,
quando i problemi si sono manifestati in tutta la loro evidenza, ha
tentato di dare veste teologica al sopruso con quanto gli hanno messo in
testa in seminario sostenendo testualmente la seguente tesi: “Se ci
fosse stata la richiesta, per esempio, di un rito bizantino, allora, in
virtù dell’ecumenismo, si sarebbe fatto. Perché, in quel caso, io con il
mio rito incontro te con il tuo rito e ci arricchiamo a vicenda. Ma voi
chiedete un rito della Chiesa cattolica e siccome non concorda con lo
stile celebrativo della comunità si può dire di no”. A questo proposito,
va detto che lo “stile celebrativo” della comunità in oggetto, in
materia di funerali, ha toccato uno dei suoi vertici con l’esecuzione di
“C’è un grande prato verde dove nascono speranze” accompagnata dalle
chitarre.
In questo modo
guastiamo in principio quanto di buono si potrebbe trovare nell’ideale,
che non ha mai alcun senso al di fuori di un regime di realtà. Vale
anche per la delicata faccenda dell’ecumenismo, quel poco di buono che
esso aveva da darci sprofonda nell’assenza di ogni fondamento valido:
come a dire, non per nulla viviamo nel cosiddetto “inverno ecumenico”
(Kasper) – cosa che può rallegrare parecchi vecchio-realisti.
Ma
soprattutto qui perdiamo il reale in se stesso, e allora non veniamo
poi a stupirci se la gente dotata più di buon senso che di spirito di
sacrificio diserta messe e dintorni – e questo nonostante l’allettante
offerta di brani da Top Ten che i liturgisti alla moda sbandierano. Procedamus.
Secondo strabismo: l’opinione zittisce il Magistero
La
seconda freddura potrebbe intitolarsi: il tracollo della verità. In
questo caso non si invertono reale e ideale, bensì si commuta l’ordine
degli asserti. Ora, se è vero che mutando l’ordine degli addendi il
risultato non cambia, è più vero che qui non si tratta di somme ma di
ragionamenti logici, appunto quei ragionamenti che ci portano dalla
conoscenza meno nota a quella più nota e così via fino alla verità. Ma
forse il pretame medio preferisce dedicarsi a forme di conoscenza – come
dire? – sommaria (peraltro in perfetto disdegno della Summa Th).
In questa zuppa la verità fa la fine dell’ospite indesiderato, e il suo
posto viene subito riempito da una pletora di qualunquismi subito
dogmatizzati. È così che al fedele dabbene – quello cui piace Mario
Monti, se tanto mi dà tanto – capita di vedersi pressoché imposti dalle
bianche agenzie di informazione a senso unico opinionismi patenti
travestiti da neo-dogmi vincolanti.
In
questa tristissima storia c’è un lato grottesco e insieme paradossale:
il dispregio dimostrato dal clero interpellato nei confronti
dell’autonomia del singolo. A partire dal 2008,la Conferenza
EpiscopaleItaliana ha “aperto” la strada – per voce del suo autorevole
presidente – alle cosiddette “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento”,
le ormai famose DAT: un documento scritto nel quale la persone dice
quali trattamenti sanitari intende o non intende ricevere, qualora cada
in stato di incoscienza. A noi (e anche al direttore di questo giornale)
queste DAT non piacciono, perché offrono un comodo scivolo alla cultura
eutanasica. Ma ai fini del nostro ragionamento, la “svolta” della Cei
sulle DAT serve a dimostrare che nella cultura contemporanea tutti – ela
Chiesastessa – riconoscono un valore molto importante alla volontà
espressa da ogni singola persona. Questa volontà non può essere
arbitraria, ma se è conforme al bene deve essere assecondata.
Ora,
il paradosso del “caso Gnocchi” sta in questo fatto: se un fedele
chiede, attraverso la voce di suo figlio, un funerale secondo il rito
tridentino, non viene esaudito. Se invece redige le DAT rifiutando
magari certe cure, agisce in conformità alla Conferenza Episcopale
Italiana. Che cosa deve fare, allora, un cattolico, per ottenere quello
che il Papa ha stabilito come suo pieno diritto? Forse deve chiedere le
esequie in forma antica redigendo le DAT e consegnandole al parroco
finché è in grado di farlo.
Per
carità, l’aggancio è letterario, se si vuole, ma il messaggio di fondo
passa lo stesso: dove l’opinione è sovrana, la verità ha già fatto le
valigie da un pezzo.
Terzo strabismo: l’indefinito offusca le certezze
Il
processo di cappottamento esistenziale – una volta de-ontologicizzato
il reale e de-razionalizzata la verità – non può se non precipitare
nello schiavismo dei proclama. E, si noti bene, sono tutti proclama
mendicati fuori dal suolo cattolico. “Libertà”, “autonomia”, “dialogo”,
“uguaglianza”, “accoglienza”, “straniero” e chi più ne ha più ne metta
(e chi non ne ha più si rivolga a Fratelenzo Bose che ne ha magazzini e
magazzini stipati). Ora, già è difficile uscire indenni dagli eccessi
germinati in casa propria, figuriamoci che ne viene quando si corre alla
cieca dietro gli errori altrui. Appunto, che ne viene? Il minimo è che
non sappiamo neppure cosa fare di certi slogan. Il peggio è che li
usiamo a beneficio sempre e solo degli altri – di quegli “altri” che li
coniarono a loro pro. In mezzo ci finiscono i “nostri”, a patire tutte
le contraddizioni e le ingiustizie della situazione.
Questi
sacerdoti si riempiono il cervello e la bocca di parole come “libertà” e
come “autonomia”, e poi non sono in grado di opporsi al palese sopruso
ordinato dall’alto perché “in curia mi hanno detto…”. Si riempiono il
cervello e la bocca di parole come “libertà” e “autonomia”, denigrano un
passato a loro dire prepotente e clericale e poi si prestano a
calpestare la volontà di un morto e della sua famiglia, quella della
Chiesa e del Santo Padre perché “in curia mi hanno detto…”.
E
buona notte a qualsiasi certezza. Perché quando si costruisce su
principi non ben definiti, in odio alle definizioni del cattolicesimo
classico, e in vagheggiamento di qualsiasi vento di dottrina un poco
nuovo, tutto si fa opaco e non si capisce più che strada prendere.
Generalmente a questo punto si va per la tangente.
Quarto strabismo: il buonismo vanifica la carità
Se
i primi tre strabismi hanno toccato la parte teorica del credere, gli
ultimi tre ne mostrano gli effetti pratici. Il primo è l’intorbidamento
della carità. Fuori da criteri certi, ben ordinati, e saldamenti
ancorati al reale, qualsiasi desiderio di fare del bene è costretto
presto o tardi ad arenarsi su sterili manifesti di buonismo. Ma al
nostro prossimo non serve buonismo di sorta, gli serve la carità di
Cristo, che si trova pienamente nel cattolicesimo di sempre. Punto. Ah,
dimenticavo: il buonismo non è mai un bene in sé.
Eppure
don Diego, al primo incontro, aveva espresso una considerazione di
assoluto buon senso e di naturale umanità: “Credo che davanti alla morte
e per un funerale non ci siano problemi”. Ma, quando i problemi si sono
manifestati in tutta la loro evidenza…
Così,
anche nella bianca terra bergamasca, il parroco raccoglie una richiesta
dei suoi fedeli, la trasmette al vicario generale, il vicario generale
si confronta con chi ritiene opportuno, poi, in nome e per conto del
vescovo decide come agire e il parroco esegue. E, se si fa notare
all’esecutore materiale la palese ingiustizia a cui si sta prestando,
rispunta la solita spiegazione: “In curia mi hanno detto…”.
Quinto strabismo: il servo al potere tradisce il padrone in servizio
A
livello un po’ più alto scatta il patatrac. Volta la carta e scopri il
puzzo di interessi che forse era meglio ignorare. Scopri cioè che il
fallimento di tanti ideali, buonismi, slogan e quant’altro non è nemmeno
dovuto a un inceppo logico nascosto chissà dove, ma piuttosto nasce da
una malizia depositata alla radice della pianta. Scopri che è in atto
uno scontro di potere tra fazioni dalla tempra più federalista di quella
bossiana, roba che il senatùr c’avrebbe solo da imparare come si fa. Se
per secoli la dottrina politica della Chiesa ha sviluppato l’idea di un
potere e di una autorità che agisse sì con forza, ma al solo scopo di
salvaguardare la sana unità dei cattolici in Cristo; ecco che ora
s’innalza lo spettro di una ben diversa moda. Le diocesi rivendicano
autonomia e potere, e sentono Roma come minaccia.
Da
troppo tempo, nella diocesi di Bergamo, come in grandissima parte delle
diocesi dell’Orbe cattolico, comanda dispoticamente l’autorità più
prossima, quella che mette paura perché minaccia di intervenire
direttamente sulle persone. Roma, che sarebbe l’autorità suprema, non
conta nulla.
Nel
“caso-Gnocchi”, il parroco è stato raggiunto tempestivamente da una
telefonata dell’ Ecclesia Dei, organismo istituito in Vaticano per
occuparsi della spinosa materia. Una volta di diceva: Roma locuta, causa
soluta. E invece non è bastato l’intervento telefonico dal Vaticano a
sgomberare il campo dagli ostacoli opposti alla celebrazione del
funerale vecchio stampo: i motivi pastorali, la volontà del vicario
episcopale, e via cavillando in un crescendo ben più intricato del
latinorum di don Abbondio. Dove si vede un ulteriore paradosso della
Chiesa post conciliare: le diocesi agiscono in una sorta di
semifederalismo dottrinale e gerarchico, nel quale Roma non comanda più.
E dove un qualunque prete di provincia conta di più della Commissione
Pontificia Ecclesia Dei.
Adesso
si capisce come mai il fallimento di idee quali “servizio”, “comunità”,
“conciliarità”, “accoglienza” e simili panettoni, perché essi han solo
fatto da maschera a desideri più profondi e inconfessati:
“indipendenza”, “autogestione”, “controllo”, etc. Insomma, una volta
congedato il potere a beneficio dei molti e a tutela dei più deboli,
spalanchiamo le porte ai servetti che amano spadroneggiare in nome della
diaconia. Si dice: “Quando il gatto non c’è…”, ma appunto qui sta il
misfatto: il gatto c’è e fa quel che può. Ma è chiaro che i motu proprio felini non piacciono nella terra del papa buono e oltre.
Sesto strabismo: il paternalismo ha cacciato il Padre
Infine
restiamo noi. Detronizzate la realtà, la logica e la verità. Deposte la
carità e la legittima autorità. Restiamo noi in balìa degli omini di
burro delle curie. Parroci sorridenti che si trasformano in arpie se gli
tocchi i loro miti (tra i quali a volte non figura nemmanco il Cristo –
almeno non quello dei Concili e dei dogmi cattolici). Macchiette del
perfetto post-bolscevismo le quali sanno cosa è bene per te, prima
ancora che te ne sorga il bisogno. Per te è bene il vaticanosecondismo.
Naturalmente,
su tutti i colloqui con il parroco aleggiava lo spirito del Vaticano II
e la consegna di difenderlo a oltranza inculcata nell’animo dei poveri
sacerdoti formati in questi decenni: “Perché voi dovete sapere che il
Vaticano II…”, “Non vorrete mettere in dubbio il Vaticano II…”, “Dovete
capire chela Chiesa, a partire dal Vaticano II…”, eccetera, eccetera.
E
allora perché stupirsi dell’apostasia mica tanto silenziosa della
Chiesa post-conciliare? La gente chiede il Padre, e gli propinano i
paternalismi delle ideologie conciliari. Una super carità, però non
tanto caritatevole con la tradizione; un super servizio, però non tanto
docile al papa; un super dialogo, però non tanto chiaro con i riti di
sempre. E la solfa continua, tutta uguale. E poi coinvolgimento dei
laici, sì, ma solo dopo avergli ostruito tutta una serie di esperienze
ed occasioni.
Perché
la vera ragione pastorale del divieto l’ha spiegata bene don Diego:
“Sela Messaviene concessa qui, poi bisogna concederla anche dalle altre
parti”. Insomma, bisogna evitare il contagio. Ma mio padre, anche se non
ha compiuto l’ultimo viaggio con la sua Messa, continua a essere
contagioso: si chiama Vittorino Gnocchi e sono orgoglioso di lui.
Orwell
sorride, ma anche Chiappino. Perché poi la gente si stufa di ricevere
carezzine e mezze-verità; e purtroppo spesso preferisce andarsene
altrove; e buona notte alla salus animarum prima preoccupazione della Chiesa.
Conclusione
“In
Ecclesia nulla salus?” È la nuova domanda che mi porto appresso,
chiaramente in modo retorico, essendo egualmente allergico ai due
termini allitteranti “sedevacantismo” e “vaticanosecondismo”.
Una domanda cui si affiancano le scene dei funerali del Sic, dove la dottrina lascia spazio a possibili fenomeni di channelling, con
le moto da corsa a surrogare la vita dello sportivo, «una alla destra e
una alla sinistra» del feretro mondanizzato; il prete accondiscendente
in nome del “dialogo” e della “accoglienza”; la curia agiata nelle sue
bambagie; e migliaia di fedeli a salutare il transito della morte in
ottemperanza a loro più prossimo maestro, Steve Jobs probabilmente.
Caro Gnocchi, lei si consoli,
papà certo ora vive la gloria del Paradiso, e quella non c’è ideologia
né diocesi che possa cambiarla. Intanto preghiamo perché Qualcuno cambi
le ideologie e le diocesi, e chissà che proprio papà non interceda
meglio da lassù.
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