sabato 5 novembre 2011

Dolore e castigo nella teologia cristiana


Esce in questi giorni, per i tipi di “Fede & Cultura”, un testo intitolato “Il mistero del male e i castighi di Dio” che ha per tema le famose catechesi sul male di Roberto de Mattei a radio Maria. Il libro consta non solo degli interventi del celebre storico, ma anche degli articoli scritti da alcune personalità cattoliche proprio in seguito al divampare della polemica. Sto parlando di padre Serafino Lanzetta, dei Francescani dell’Immacolata, un ordine che gode di ottima salute e di tante vocazioni, in epoca di magra; di Corrado Gnerre e di Cristina Siccardi, due acuti scrittori cattolici, e di padre Giovanni Cavalcoli, autore, tra l’altro, di un importante studio sulla cattiva influenza di Karl Rahner sulla teologia cattolica del post concilio.
De Mattei, faccio appello ai ricordi del lettore, notava l’esistenza nel mondo del male morale, di cui l’uomo è colpevole, e del male fisico. In particolare, riguardo a quest’ultimo, ricordava che se avviene, malattia o terremoto che sia, ciò è perché in un qualche modo, per noi certo misterioso, Dio lo permette, ma per un bene maggiore. Rifacendosi a tutta, ma proprio tutta la tradizione della Chiesa, de Mattei utilizzava un termine, “castigo”, che oggi né il mondo laico né il mondo dei cattolici digeriscono più. Eppure questo termine, come spiegano Guerre e Siccardi, deriva dal latino “castum agere” ovvero “rendere puro, casto, purificare”.
Il male, sia quello morale che quello fisico, scaturisce, per il cristiano, dal peccato originale, ed è quindi un castigo. Voluto dall’uomo, e permesso da Dio. Castigo non nel senso antico, pagano, ma in un senso nuovo. Infatti il cristianesimo dà ad ogni uomo la fiducia dei figli di Dio, con la quale si può sopportare, con “cristiana rassegnazione”, ogni prova anche dolorosa che ci venga mandata, in vista del fine ultimo della nostra salvezza eterna, e, nello stesso tempo, la libertà e l’intraprendenza dei figli di Dio.
Mi spiego con un esempio: nel mondo antico, la malattia era castigo, nel senso di maledizione. Così avviene ancora oggi nel mondo animista o nelle religioni orientali. L’uomo malato, magari il lebbroso, è maledetto. Perciò scacciato, abbandonato, reietto.
Nella visione cristiana, invece, la malattia è sì una conseguenza del peccato originale, per cui si configura come un castigo all’umanità, ma un castigo che, come anche il lavoro, può divenire benedizione. In Dio infatti Giustizia e Misericordia coesistono perfettamente. Così Cristo stesso si è fatto, da Giudice eterno, uomo infirmus, sofferente, caricando su di sé il male degli uomini, ed insegnando agli uomini a fare altrettanto. Per questa visione l’individuo malato è divenuto, con Cristo, un uomo che Dio ha “visitato” più intimamente degli altri, quasi un prediletto, da aiutare e sovvenire in ogni modo, non certo da scacciare, anche da parte dei fratelli. Di qui la grandezza delle opere di carità e di medicina prodotte dal cristianesimo.
Mi spiego con un altro esempio. Un buon padre deve talora, purtroppo, castigare i propri figli, quando lo meritano. In ciò è mosso da senso di giustizia e di misericordia, cioè mira al vero bene, morale, del figlio. Così il figlio, ricevendo la giusta punizione, può viverla solo come mera “vendetta”, cui ribellarsi, oppure scorgere in essa il segno del bene paterno.
In sintesi, direbbero i nostri autori: tutto ciò che accade, accade non senza che Dio lo permetta. Per cui, anche quando un male fisico spaventoso coglie o il singolo uomo o interi paesi (vedi i terremoti), ciò avviene col consenso di Dio, che però vuole che tale evento castighi, purifichi, in ultima analisi salvi, in senso alto, coloro che sono stati colpiti.
Così, dicevano i Padri, le catastrofi mettono a nudo i cuori, perché costringono chi è colpito a fare i conti con la sua miseria ed il suo bisogno di Dio, e svelano il cuore, la pietà o l’empietà, di coloro che, invece, dovrebbero soccorrere e amare i fratelli.
Detto questo, e rimandando al libro, vorrei aggiungere una curiosità. L’accusa al de Mattei fu quella di non aver parlato come dovrebbe fare un uomo di “scienza”. L’idea di fondo era insomma quella scientista: di fronte al dolore un uomo di scienza dovrebbe limitarsi ai numeri della scala Mercalli, alla percentuale dei morti ecc… Come se la riflessione metafisica, teologica, non portasse ad un sapere molto più saporito di quello cui giunge la scienza sperimentale. Ma ancora una volta la storia può venirci in soccorso.
Ricordandoci che proprio uomini di Chiesa, che avevano una chiara idea della Provvidenza come quella del de Mattei, furono tra coloro che ci hanno fornito la capacità di ragionare anche in modo scientifico sulla metereologia e le catastrofi naturali. Penso a padre Benedetto Castelli che inventò il pluviometro; ai religiosi sismologi Giovanni Agamennone, Guido Alfani, Ernesto Gherzi…; al sacerdote Giuseppe Mercalli, autore della scala per misurare l’intensità dei terremoti che porta il suo nome e al monaco Andrea Bina, inventore del primo sismografo moderno (1751), che apriva il suo celebre trattato sui terremoti proprio accennando ai “castighi” di Dio.  

Francesco Agnoli 

Il Foglio, 3/11/2011

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.