Esce in questi giorni, per i tipi di “Fede & Cultura”, un testo intitolato “Il mistero del male e i castighi di Dio”
che ha per tema le famose catechesi sul male di Roberto de Mattei a
radio Maria. Il libro consta non solo degli interventi del celebre
storico, ma anche degli articoli scritti da alcune personalità
cattoliche proprio in seguito al divampare della polemica. Sto parlando
di padre Serafino Lanzetta, dei Francescani dell’Immacolata, un ordine
che gode di ottima salute e di tante vocazioni, in epoca di magra; di
Corrado Gnerre e di Cristina Siccardi, due acuti scrittori cattolici, e
di padre Giovanni Cavalcoli, autore, tra l’altro, di un importante
studio sulla cattiva influenza di Karl Rahner sulla teologia cattolica
del post concilio.
De
Mattei, faccio appello ai ricordi del lettore, notava l’esistenza nel
mondo del male morale, di cui l’uomo è colpevole, e del male fisico. In
particolare, riguardo a quest’ultimo, ricordava che se avviene,
malattia o terremoto che sia, ciò è perché in un qualche modo, per noi
certo misterioso, Dio lo permette, ma per un bene maggiore. Rifacendosi
a tutta, ma proprio tutta la tradizione della Chiesa, de Mattei
utilizzava un termine, “castigo”, che oggi né il mondo laico né il mondo
dei cattolici digeriscono più. Eppure questo termine, come spiegano
Guerre e Siccardi, deriva dal latino “castum agere” ovvero “rendere
puro, casto, purificare”.
Il
male, sia quello morale che quello fisico, scaturisce, per il
cristiano, dal peccato originale, ed è quindi un castigo. Voluto
dall’uomo, e permesso da Dio. Castigo non nel senso antico, pagano, ma
in un senso nuovo. Infatti il cristianesimo dà ad ogni uomo la fiducia
dei figli di Dio, con la quale si può sopportare, con “cristiana
rassegnazione”, ogni prova anche dolorosa che ci venga mandata, in vista
del fine ultimo della nostra salvezza eterna, e, nello stesso tempo,
la libertà e l’intraprendenza dei figli di Dio.
Mi
spiego con un esempio: nel mondo antico, la malattia era castigo, nel
senso di maledizione. Così avviene ancora oggi nel mondo animista o
nelle religioni orientali. L’uomo malato, magari il lebbroso, è
maledetto. Perciò scacciato, abbandonato, reietto.
Nella
visione cristiana, invece, la malattia è sì una conseguenza del
peccato originale, per cui si configura come un castigo all’umanità, ma
un castigo che, come anche il lavoro, può divenire benedizione. In Dio
infatti Giustizia e Misericordia coesistono perfettamente. Così Cristo
stesso si è fatto, da Giudice eterno, uomo infirmus, sofferente,
caricando su di sé il male degli uomini, ed insegnando agli uomini a
fare altrettanto. Per questa visione l’individuo malato è divenuto, con
Cristo, un uomo che Dio ha “visitato” più intimamente degli altri,
quasi un prediletto, da aiutare e sovvenire in ogni modo, non certo da
scacciare, anche da parte dei fratelli. Di qui la grandezza delle opere
di carità e di medicina prodotte dal cristianesimo.
Mi
spiego con un altro esempio. Un buon padre deve talora, purtroppo,
castigare i propri figli, quando lo meritano. In ciò è mosso da senso
di giustizia e di misericordia, cioè mira al vero bene, morale, del
figlio. Così il figlio, ricevendo la giusta punizione, può viverla solo
come mera “vendetta”, cui ribellarsi, oppure scorgere in essa il segno
del bene paterno.
In
sintesi, direbbero i nostri autori: tutto ciò che accade, accade non
senza che Dio lo permetta. Per cui, anche quando un male fisico
spaventoso coglie o il singolo uomo o interi paesi (vedi i terremoti),
ciò avviene col consenso di Dio, che però vuole che tale evento
castighi, purifichi, in ultima analisi salvi, in senso alto, coloro che
sono stati colpiti.
Così,
dicevano i Padri, le catastrofi mettono a nudo i cuori, perché
costringono chi è colpito a fare i conti con la sua miseria ed il suo
bisogno di Dio, e svelano il cuore, la pietà o l’empietà, di coloro
che, invece, dovrebbero soccorrere e amare i fratelli.
Detto
questo, e rimandando al libro, vorrei aggiungere una curiosità.
L’accusa al de Mattei fu quella di non aver parlato come dovrebbe fare
un uomo di “scienza”. L’idea di fondo era insomma quella scientista: di
fronte al dolore un uomo di scienza dovrebbe limitarsi ai numeri della
scala Mercalli, alla percentuale dei morti ecc… Come se la riflessione
metafisica, teologica, non portasse ad un sapere molto più saporito di
quello cui giunge la scienza sperimentale. Ma ancora una volta la
storia può venirci in soccorso.
Ricordandoci
che proprio uomini di Chiesa, che avevano una chiara idea della
Provvidenza come quella del de Mattei, furono tra coloro che ci hanno
fornito la capacità di ragionare anche in modo scientifico sulla
metereologia e le catastrofi naturali. Penso a padre Benedetto Castelli che inventò il pluviometro; ai religiosi sismologi Giovanni Agamennone, Guido Alfani, Ernesto Gherzi…; al sacerdote Giuseppe Mercalli, autore della scala per misurare l’intensità dei terremoti che porta il suo nome e al monaco Andrea Bina,
inventore del primo sismografo moderno (1751), che apriva il suo
celebre trattato sui terremoti proprio accennando ai “castighi” di Dio. Francesco Agnoli
Il Foglio, 3/11/2011
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