martedì 20 settembre 2011

Il Papa, l'Uomo, il Maestro, il Santo. Pio IX al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti (parte II).



III - Il Maestro

Un’attenzione particolare va riservata al magistero di Pio IX, non senza dimenticare che l’espressione più nobile di esso è la sua stessa vita: una lezione luminosa di dedizione a Dio ed alla Chiesa.
Un po’ per la sua bonomia, un po’ perché non fu uno studioso, qualcuno potrebbe pensare che Pio IX abbia dato vita ad un pontificato scialbo dal punto di vista magisteriale. Niente di più errato. Pio IX aveva il fiuto dell’errore e l’occhio clinico per individuarlo a prima vista. Ed aveva pronto, in pari tempo, l’antidoto. Non tutti sanno che la ripresa del tomismo nei seminari e nelle università, prima che di Leone XIII fu merito di Pio IX.
Ciò che sorprende in un uomo divorato dallo zelo per le anime e non dal fascino d’una cattedra universitaria, è l’informazione. Già da vescovo e da cardinale sapeva riconoscer di lontano la matrice di certe storture dottrinali, giudicandole "una meschina fusione dei pensieri di Potter, La Mennais e Bunsen". Sapeva anzi distinguere "dal primo e dal terzo", accaniti antiromani, il secondo, il cui equivoco consisteva in un erroneo concetto di tradizione. Sapeva del giansenismo ed era capace di riconoscerne i sintomi anche in teologi, e perfino in vescovi, che vi s’ispiravano più o meno scopertamente, in Italia e all’estero.
Non era cieco neanche dinanzi agli errori teologico-politici, che attanagliavano il clero della sua epoca. Non suscita dunque alcuna meraviglia che gran parte del suo pontificato si caratterizzi sul piano magisteriale, a difesa del deposito della Fede e a proposta d’indirizzi sicuri.

III - L'Immacolata Concezione

Era ancora a Gaeta, esule e vittima della prepotenza politica, quando mise in moto il progetto relativo alla definizione dogmatica dell’immacolato concepimento di Maria. Non si trattava d’un fatto puramente devozionale e non era in gioco il suo personale trasporto per la Vergine Santa. Si trattava di sapere se Maria fosse stata concepita senza peccato originale e se ciò facesse parte della rivelazione cristiana.
Una consultazione mondiale fu allora promossa con l’enciclica Ubi primum. I vescovi di tutto il mondo dovevan pronunciarsi sulla legittimità e sull’opportunità o meno d’una definizione dogmatica a tale riguardo. 593 furon le risposte, delle quali 8 soltanto negative, 2 incerte, 35 favorevoli con riserva e tutte le altre, cioè la stragrande maggioranza, pienamente a favore.
Che Maria fosse stata concepita senza peccato originale era solo una pia credenza, diffusa peraltro in tutta la Chiesa, ma priva del vincolo dogmatico. Presente nella preghiera liturgica, variamente intesa dai grandi teologi del passato dei quali alcuni non ne erano stati entusiasti, accolta ed approfondita dalla scuola francescana, garantita per così dire da un avallo preternaturale (le apparizioni a S.ta Caterina Labouré) e successivamente confermata da un altro evento preternaturale (le apparizioni a S.ta Bernadette Soubiroux) la pia credenza s’apprestava a rivestirsi di portata dogmatica, quando il parere quasi unanime dei vescovi confortò il progetto di papa Mastai.
Più di sei anni, tuttavia, furono ancora necessari, sei anni di preghiera, di studio e di riflessione, prima che con l’Ineffabilis Deus Pio IX promulgasse il nuovo dogma mariano. Ad una preliminare commissione teologico-consultiva, altre 4 ne seguirono di cardinali, vescovi e teologi per trattare adeguatamente l’argomento da tre distinti punti di vista: la definibilità, I’opportunità, la redazione del testo.
Anche in tale occasione, Pio IX rivelò una prudenza pari alla fermezza del suo intento. Sottomise al giudizio di 16 teologi il primo abbozzo del testo, redatto da G. Perrone. Altri 7 vennero di volta in volta preparati analizzati e valutati. Bisognava che ci fosse provata chiarezza non solo sull’esistenza "ab antiquo" della pia credenza nella Chiesa universale, ma anche sul tenore delle risposte ricevute e delle obiezioni prima ed allora sollevate. In particolare, occorreva superarne due, senza dubbio gravi: il silenzio neotestamentario e l’universalità del peccato originale.
I lavori delle commissioni e dei singoli teologi furono intensi, accompagnati dall’interessamento personale del Papa e dalla sua ininterrotta preghiera. Con Lui pregavano tante altre persone, alle quali Egli stesso s’era rivolto; in particolare, le claustrali. A quattro giomi dalla proclamazione, il testo non era ancora perfettamente a posto e si deve ai suggerimenti diretti di Pio IX il superamento definitivo delle difficoltà.
8 dicembre 1854. Con una solennità inaudita, nella patriarcale basilica di S. Pietro in Vaticano, alla presenza di 53 cardinali, 43 arcivescovi e 99 vescovi, accorsi appositamente per testimoniare il consenso della Chiesa universale, il Santo Padre, non senza commozione, definì come dogma di fede l’immacolato concepimento della Vergine Maria. Tre anni dopo il Papa stesso rievocò quel momento paradisiaco: "Quando iniziai a leggere il decreto...sentii la mia voce incapace di farsi capire dall’immensa moltitudine che riempiva la basilica vaticana. Ma quando arrivai alla formula, Dio donò alla voce del suo Vicario una forza tale e tale vigore soprannaturale, da farla risuonare in tutta la basilica. Ero così impressionato d’un tale divino soccorso, che dovetti interrompermi un momento per dar libero sfogo alle mie lacrime".
Questo dogma, sia ben chiaro, s’impone all’attenzione critica e alla Fede della Chiesa non per le lacrime di Pio IX, ma per il suo contenuto pienamente conforme alla Fede e per il valore dottrinario della sua formulazione. Pio IX capiva l’interconnessione dell’Immacolata con le altre verità rivelate ed ebbe il coraggio, la fermezza e la coerenza d’insistere su una siffatta connessione per far diventare dogma una pia ed antichissima credenza. Aveva anche capito che l’Immacolata s’articolava direi organicamente con l’Assunta, questa dipendendo da quella; ma a chi lo sollecitava per procedere anche alla definizione dogmatica di Maria assunta corpo ed anima nella gloria celeste, rispose di non esserne degno, anche se sicuro che ciò si sarebbe avverato più tardi.
A scanso d’equivoci, sembra ora opportuno sostare dinanzi al testo per coglierne il significato autentico.
Esso s’apre con l’appello all’autorità che dà garanzia dogmatica al magistero papale: "Per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo e nostra". Anche dal punto di vista della formulazione tecnica, si è di fronte ad un esordio magisteriale. L’intervento del Papa si giustifica in base al fatto ch’esso dipende non da una decisione privata del Pontefice stesso (e per tale motivo ho tradotto "nostra" invece che "la nostra"; quell’articolo indicativo potrebbe in effetti distinguere l’autorità del Papa da quella di Cristo e degli Apostoli Pietro e Paolo, mentre si tratta della medesima ed unica autorità), ma da una decisione "pubblica", dovuta cioè alla sua "persona pubblica", ovvero al suo ufficio magisteriale di Capo Maestro e Pastore supremo della Chiesa, al quale lo Spirito Santo assicura l’autorità stessa di Cristo capo Maestro e Pastore.
"Noi dichiariamo affermiamo e definiamo". Linguaggio classico, che troverà conferma, poco dopo, nella "Pastor aeternus" del Vaticano I. Nel "noi" non risuona un semplice plurale maiestatico, ma la limpida coscienza dell’ufficio papale: pertanto, non la sola rappresentatività di tutta la Chiesa, ma la responsabilità universale che tutta la coinvolge, in ogni tempo, in ogni dove, nella professione del dogma mariano.
"Che la dottrina, secondo la quale la Beatissima Vergine Maria. fin dal primo istante in cui venne concepita, per singolare grazia e privilegio di Dio, in considerazione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia del peccato originale, è da Dio rilevata ed è pertanto fermamente e costantemente". Sta qui il contenuto dottrinale della definizione piana, dove peraltro occorre far una distinzione: il contenuto rigorosamente dogmatico è quello relativo alla dottrina in quanto rivelata e perciò "credenda"; la specificazione di tale dottrina indica i limiti di ciò che fu rivelato e che bisogna credere: non al di sopra, non al di sotto di essi. Da notare anche la contraddizione di qualche antica e moderna traduzione del "praeservatam immunem" con "affrancata"; se affrancata dal peccato, Maria non ne sarebbe stata immune.

III - Il  ConcilioVaticano I

Procedo per sommi capi, impossibile essendo, ora, un’esposizione analitica completa sul magistero di Pio IX. Sarebbe di grande interesse il soffermarsi sul peso magisteriale delle sue non poche encicliche; ma è di gran lunga maggiore l’interesse che collega il peso suddetto all’evento epocale la cui sola memoria basta ad immortalare il grande Pontefice: parlo del Concilio Ecumenico Vaticano I.
Ne parlo non per tesserne la storia, ormai investigata in ogni suo più piccolo particolare, ma per documentarne quel peso magisteriale al quale prima accennavo, e che ridonda in ultima analisi a merito di Colui che quel Concilio volle, aprì, diresse e promulgò.
Anche il progetto d’un Concilio ecumenico nacque a Gaeta nel 1849. Nel 1863 fu il card. Wiseman a parlarne con Pio IX. E questi, il 6 dicembre 1864, confidò la sua speranza ai 15 cardinali della Congregazione dei Riti. L’anno successivo entrò in azione una commissione cardinalizia. E così, di commissione in commissione, di consulta in consulta, non assenti nemmeno alcune contromanovre da parte sia di circoli massonici ed anticlericali, sia d’ecclesiastici d’avanguardia, s’arrivò all’apertura del Concilio: 7 dicembre 1869.
Fu davvero un Concilio Ecumenico: 55 cardinali, 6 patriarchi, sei abati "nullius", 24 abati generali, 29 generali di ordini e congregazioni religiose, 964 vescovi. E’ risaputo che non tutto il materiale preparato venne di fatto discusso ed approvato. I venti di guerra e le condizioni politiche italiane determinarono la chiusura precoce del Concilio (18 luglio 1870) e due sole furono le Costituzioni dogmatiche approvate: la "Dei Filius" e la "Pastor aeternus".
L’una fu discussa per oltre un mese e concluse il suo itinerario con miglioramenti e varianti di carattere formale e teologico. Altrettanto avvenne per l’altra, anche se l’incerto clima politico ne condizionò almeno in parte la discussione.
La "Dei Filius", approvata in sessione plenaria il 24 aprile 1870, fu promulgata seduta stante da Pio IX, evidentemente compiaciuto e grato al Signore. Nel prologo si passavano in rassegna i principali errori dell’epoca moderna, con particolare riferimento a quelli sull’esegesi biblica, sul razionalismo e sul naturalismo, donde si cade "nell’abisso del panteismo, del materialismo e dell’ateismo". In evidenza, ovviamente, venivan messi anche gli errori teologici che confondevano i confini della natura e della grazia e si discostavano dall’insegnamento tradizionale della Chiesa
Dopo il prologo, quattro brevi capitoli sulla genuina Fede cattolica: Dio Creatore dell’universo; La Rivelazione divina, la Fede, la Fede e la ragione. Il contenuto di questi quattro capitoli trova poi la sua formulazione dogmatica in 18 canoni che infliggono la scomunica a chiunque osi negarne il contenuto dottrinale, diffondendo e sostenendo dottrine ad esso contrarie.
Non mancarono, qua e là, delle critiche: vescovi poco convinti, teologi d’ispirazione liberale e neogallicana, storici il cui metro per valutare la vita della Chiesa prescindeva dal soprannaturale. La maggior parte dei destinatari, però, gioì con Pio IX perché il Concilio aveva raggiunto uno dei suoi scopi principali: aveva non solo condannato gli errori, ma a questi aveva contrapposto la verità immutabile della rivelazione divina.
La seconda Costituzione dogmatica del Vaticano I, la "Pastor aeternus", è comunemente conosciuta come la costituzione sulla Chiesa; in realtà i tempi ristretti dei lavori conciliari furon la causa del loro "cursus in fine velocior". I Padri stessi, o alcuni di essi, non vedevan l’ora di far ritorno alle loro sedi. Ne fecero le spese soprattutto i temi ecclesiologici, dei quali si discusse ed approvò solo una piccola parte (il cap. XI dello schema "de Ecclesia"), riguardante la dottrina del Romano Pontefice. La si articolò in tre capitoletti, ai quali fu poi aggiunto il cap. IV sull’infallibilità papale.
In quella fase conciliare, infallibilisti ed antinfallibilisti misero in atto sottili ed accorte manovre, capaci di portare la questione dell’infallibilità al centro dell’interesse conciliare. Come sempre in casi del genere, le posizioni andavano dal si al no passando attraverso sfumature varie, il cui scopo era quello di mediare gli estremi.
Il 6 marzo 1870 fu consegnato un progetto, frutto di lunghe discussioni, che s’aggiungeva al cap. XI poco sopra ricordato e che ebbe subito il massimo interesse dei Padri conciliari. Proseguiva intanto la discussione del cap. XI sull’ufficio primaziale del vescovo di Roma. 139 furono gli emendamenti proposti e poi discussi ed approvati. Alla fine, il testo ebbe il gradimento comune circa la dottrina che stabiliva come dogma di Fede che al solo Pietro il Signore donò il primato sulla Chiesa universale; che tale primato è per divina disposizione transpersonale, da trasmettere cioè ai legittimi successori del principe degli Apostoli; e che esso consiste non in una supervisione o nella posizione del "primus inter pares", ma in una vera e propria giurisdizione.
La questione di fondo rimaneva, tuttavia, quella del progetto aggiuntivo sulla infallibilità papale. Le proposte s’accavallavano a vicenda. Quelle favorevoli incontravano la resistenza d’una minoranza teologicamente agguerrita e non incline al facile cedimento. Nuovi gallicani e frange non indifferenti di conciliarismo mitigato pretendevano almeno questo: che prima di procedere ad una definizione dogmatica, nella quale pertanto fosse impegnata l’infallibilità dell’asserto, il Papa avesse l’assenso dei vescovi, per la ragione che essi concorrono con Lui al governo della Chiesa. La maggioranza rispondeva che all’esercizio dell’ufficio petrino, uno ed indiviso, non ha parte l’episcopato, con la conseguenza che il Papa di per se stesso, e non mediante il consenso dei vescovi o della Chiesa, è capace di definizioni infallibili.
Il 4 luglio, per la sesta volta in quattro mesi, fu proposta una formula aperta ad alcuni emendamenti, ma ferma sulla sostanza. Una maggioranza schiacciante l’approvò il 13; ma la minoranza non si dette per vinta. Valendosi dell’ampia libertà concessa da Pio IX a chiunque volesse o avesse da eccepire, Mons. Dupanloup suggerì al Papa d’approvare, si, come decisione conciliare la dottrina dell’infallibilità sulla quale confluiva il parere della maggior parte dei Padri, ma d’astenersi dal promulgarla per non turbare gli spiriti già molto preoccupati. Insomma, si voleva metter la mordacchia a Pio IX, il quale non era affatto disposto a lasciarsela mettere.
Arrivò il 18 luglio. Su 535 presenti, 2 soltanto si dissero contrari, una quarantina di vescovi aveva lasciato Roma, un po’ per la precarietà della situazione politica, un po’ per non partecipare alla plenaria. Non senza commozione ma fermo sulle sue posizioni, Pio IX rassicurò i confratelli nell’episcopato sui rapporti tra l’episcopato stesso e l’infallibilità, nel senso che questa suprema prerogativa dell’autorità papale, anziché schiacciare quella episcopale, è a tutela e garanzia di essa.
In realtà, non si trattava della divinizzazione d’un uomo né dell’assorbimento, da parte sua, delle responsabilità e prerogative dei vescovi. Il Papa, chiunque fosse, anche dopo la definizione dogmatica della sua infallibilità restava l’uomo che era e come era: con i suoi pregi ed i suoi difetti. In quanto dottore privato, può sempre cadere in errore come ogni altro privato dottore. Ma in quanto Capo supremo, Maestro e Pastore di tutta la Chiesa, in ciò che riguarda le verità da credere e da incarnare nel tessuto quotidiano, gode d’uno speciale carisma, cioè di quell’infallibilità che rende le sue decisioni irreformabili di per sé e non per il consenso della Chiesa.
Tale formula entrò come quarto capitolo nella "Pastor aeternus". Ognuno dei quattro capitoli venne quindi specificato da un canone dogmatico. Si chiudeva in tal modo, con una evidentissima vittoria della Divina Provvidenza che guida i passi degli uomini verso i suoi traguardi, oltre che con l’oscurarsi dell’orizzonte politico internazionale ed italiano, il Concilio Ecumenico Vaticano I. Esso fu pure, in ultima analisi, la vittoria di Pio IX. A me piace considerarlo, per le sue due Costituzioni dogmatiche, una perla del magistero piano.

III - Il Sillabo

Affronto per ultima, anche se cronologicamente avrei dovuto parlarne prima, una delicata questione, causa di non rari malintesi e d’infondate accuse sia contro Pio IX sia contro la Chiesa: la questione del Sillabo.
Il 9 giugno 1862, ad un buon terzo dell’episcopato mondiale convenuto a Roma per la beatificazione di 26 martiri giapponesi, Pio IX tenne una ben nota allocuzione sui "terribili mali" che affliggevano la Chiesa e la stessa società civile. Fu, da parte sua, l’ennesima denuncia del razionalismo, del panteismo, dell’ateismo e di ciò che tra breve sarebbe stato chiamato modernismo. In particolare eran direttamente colpiti quanti giudicavano la divina rivelazione "imperfetta e soggetta ad un progresso continuo ed indefinito, conforme al progressivo sviluppo della ragione umana". Pio IX colpiva inoltre chi riduceva a favole i miracoli e le profezie dei Libri Sacri, chi nei misteri della Fede null’altro vedeva che il risultato d’investigazioni filosofiche, chi dava per scientificamente accertato che Antico e Nuovo Testamento contenessero soltanto dei miti e che lo stesso Cristo fosse "mito e finzione".
Come si chiamassero i colpiti da Pio IX era implicito nelle sue parole: David F. Strauss in Germania; Emesto Renan in Francia; altri seguaci dell’uno e dell’altro. Il Papa voleva impedire che i loro errori si propagassero nei Seminari e nelle Università, magari sotto il titolo di progresso scientifico.
Era insomma un Sillabo "in nuce". Del resto il Sillabo, cioè l’elenco dei principali errori del tempo, era cominciato prima di Lui. Pur tacendo altri nomi, una menzione va fatta per Gregorio XVI, anch’egli invitto difensore della Fede contro l’attacco portatole dal razionalismo illuministico, dal secolarismo e dall’ateismo di varia estrazione. Pio IX ne segui le orme già con la sua prima enciclica (Qui pluribus del 9 novembre 1846), autentico anticipo della Quanta cura e dello stesso Sillabo. Chi non fa questo collegamento corre il rischio di fermarsi ad un’immagine di Pio IX che intraprende il suo pontificato con sentimenti e propositi difformi dalla sua spiritualità e non in linea con le sue preoccupazioni pastorali. Al contrario, l’alba di questo pontificato, con la Qui pluribus, s’illuminava di quella severa vigilanza magisteriale che, già presente nell’animo del giovane prelato a Roma, in Cile, a Spoleto e ad Imola, accompagnerà il suo non facile pilotaggio del naviglio petrino e si evidenzierà in modo speciale proprio con il Sillabo.
Sembra che il suggerimento di catalogare e condannare pubblicamente gli errori moderni sia stato rivolto a Pio IX per la prima volta, già nel 1849, dal card. Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII: un collegamento significativo, che annulla sul nascere troppo precipitose contrapposizioni dei due Pontefici. Nel 1851 toccò ad un laico di Torino Emiliano Avogadro della Motta, a sollecitare dal Papa la pubblica condanna dei numerosi e perniciosi errori moderni. E nel maggio di quel medesimo anno, Pio IX ordinò un primo sondaggio su vasta scala in ordine ad una tale prospettiva.
Nuove indagini vennero condotte tra il 1859 ed il 1860. L’esito si concretò in 79 proposizioni condannabili, raccolte sotto il titolo "Syllabus errorum in Europa vigentium". La prospettiva andava verso il suo epilogo; ma il cammino non era stato ancora percorso per intero.
L’episcopato, nella sua grande maggioranza, assecondava Pio IX e procedeva nella stessa direzione. E’ nota la pastorale di Mons. Gerbert, vescovo di Perpignano: una nuova raccolta di errori. Pio IX, anzi, decise di rifarsi ad essa per la redazione del suo Sillabo, cioè di quello ufficiale. Nominò nel maggio del 1861 una commissione speciale perché esaminasse le 85 proposizioni di Mons. Gerbert. La commissione lavorò alacremente e, dopo decine di sedute, il documento ufficiale era pronto. Il Papa l’esaminò e lo fece consegnare ai vescovi presenti in Roma per la già ricordata beatificazione dei martiri giapponesi.
Come si vede, Pio IX non era l’uomo dei "colpi di testa". Prudente e rispettoso delle idee altrui fino allo scrupolo, chiedeva ai vescovi ch’esprimessero liberamente il loro pensiero su un problema di tanta importanza e di tanta incidenza nell’atmosfera culturale del tempo. E circa un terzo dei vescovi interpellati, pur d’accordo sull’essenziale, giudicò inopportuna l’iniziativa.
Nel contempo, e precisamente nel dicembre del 1862, visto 1’aggravarsi della situazione in ambito teologico e filosofico, il Papa condannò l’abate Jacob Frohschammer, professore di filosofia all’università di Monaco, perché accordava "alla ragione umana forze che non le competono affatto", traendone la conseguenza d’una libertà senza freni, con pregiudizio per "i diritti, le funzioni e l’autorità della Chiesa". Tale condanna s’inseriva nel contesto d’altre severe prese di posizione nei confronti di tutta la corrente liberaloide tedesca, ma anche francese e belga. Il tempo era ormai maturo per una condanna a più vasto raggio, la qual cosa avvenne 1’8 dicembre 1864 con 1’enciclica Quanta cura e con il Sillabo. Questo, anche perché non datato, seguiva l’enciclica come un suo allegato. Ne faceva parte, dunque.
L’enciclica richiamava ancora una volta l’attenzione del mondo cattolico sui pericoli che correva la Fede cristiana a causa del propalarsi, a livelli sempre meno controllabili, d’errori gravissimi. Ancora una volta era messo a fuoco il naturalismo, che sopprime ogni legame tra società e religione; la libertà di coscienza e di culto, che già sant’Agostino aveva definito "libertà di perdizione"; l’estromissione della Chiesa da ogni compito educativo nei confronti dei giovani, che veniva riservato soltanto allo Stato; la sottomissione di essa, privata dei suoi nativi diritti temporali, allo Stato stesso; la negazione della divinità di Cristo. Pio IX parlava a tale riguardo d’ "insolenza criminale" e di "cospirazione...contro il Cattolicesimo e la Sede Apostolica".
Il Sillabo, richiamandosi ai precedenti atti papali d’analogo contenuto, condensava in 80 proposizioni, queste distinguendo in 10 settori, tutte riguardanti la "cospirazione" sopra accennata. In particolare cadevano sotto condanna:
- il naturalismo, il panteismo ed il razionalismo assoluto;
- il naturalismo moderato, con riferimento a Gunther, Frohschammer, Dollinger ed altri;
- l’indifferentismo ed il latitudinarismo;
- il socialismo, il comunismo, le società segrete ed altre società clerico-liberali;
- le idee eversive della natura della Chiesa e negatrici dei suoi diritti;
- gli errori sulla natura della società civile, specie su quello che asservisce la Chiesa allo Stato;
- gli errori relativi alla morale naturale e cristiana;
- gli errori sul matrimonio cristiano;
- gli errori sul potere temporale del Romano Pontefice;
- gli errori che sottopongono il Papa e la Chiesa al progresso, al liberalismo, ed alla moderna civilizzazione.
Come si sa, tanto l’enciclica quanto e soprattutto il suo elenco degli errori moderni suscitarono (e tuttora suscitano) un’infinità di critiche. Ne risenti la stessa causa di beatificazione, almeno nel senso che anche tali critiche contribuirono ad allungarne smisuratamente i tempi. Dico smisuratamente, perché le critiche si son poi rivelate, tutto sommato, infondate. A giustificarle non era certo sufficiente il taglio netto dell’espressione formale e meno ancora qualche sbrigativa ricostruzione delle posizioni condannate. Era ed è del pari riduttivo il giudizio sul Sillabo inteso come forma puramente negativa del magistero di Pio IX. Gli elementari criteri d’ermeneutica insegnano che da una dottrina condannata si desume la vera, d’altra parte, di magistero al positivo è pieno il pontificato di papa Mastai.
Bisogna inoltre capir bene che cosa Pio IX intendesse colpire: non il sacrario inviolabile della coscienza, ma l’indifferentismo religioso e non si riesce a spiegare come e perché un teologo del calibro di Y. Congar, senza calarsi nell’atmosfera piana, abbia messo in antitesi il Sillabo e la dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano 2. Chi infatti si colloca nell’ottica di Pio IX, non solo non contrappone i due documenti, ma potrebbe perfino individuare un passaggio logico (alludo alla "logica della Fede") dall’uno all’altro.
E’ doveroso infine osservare un’altra fondamentale legge interpretativa: nessuno è autorizzato a leggere con gli occhi d’oggi i fatti di ieri. Lo storico in questo si distingue dal cronista: ricupera la mentalità e la cultura del periodo studiato e dei protagonisti in esso operanti. Se qualcuno non lo fa, il suo Pio IX resta sospeso all’alea della manomissione, dell’incomprensione, ed in ultima analisi della falsificazione.

III - Il Santo

La spiritualità di Pio IX, già ben definita negli anni della giovinezza (che pur conobbe in Lui alti e bassi e non fu priva di pericoli e tentazioni) venne affinandosi nel tempo. E’ una legge comune: nessuno nasce con l’aureola. Quando Pio IX morì, l’accompagnava alla tomba non solo l’odio bieco ed astioso dell’anticlericalismo piazzaiolo, ma anche e soprattutto una fama di santità, diffusissima e al di sopra di ogni sospetto. "E’ morto un santo", fu il grido che attraversò l’orbe cattolico; e non mancarono riconoscimenti in tal senso anche da parte acattolica. Don Bosco, che gli era stato vicino e lo conosceva a fondo, pronosticò subito la gloria degli altari.
Dopo un esame minuzioso e lungo quasi un secolo, la Chiesa scioglie oggi ogni riserva e lo proclama pubblicamente beato.
Il lettore, tuttavia, ha diritto di sapere su quali basi.

III - Un vero prete

Sono innumerevoli le grazie attribuite al grande Pontefice sia prima, sia dopo la sua morte. Certo, nessuna di esse può esser addotta a fondamento della sua santità, anche se è un indice della richiesta "Fama sanctitatis": il fondamento unico ed irrefragabile della santità è "la perfezione della carità". E’ questa l’angolatura dalla quale occorre posare lo sguardo su Pio IX, nel chiedersi se fosse o meno un vero santo.
Tuttavia, nel complesso delle grazie sopra accennate ce n’è una che, attentamente analizzata e valutata dalla Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi, è stata dichiarata miracolo. La detta Consulta, infatti, I’ha definita naturalmente e scientificamente inspiegabile. Da questa base è poi partito il giudizio teologico per approdare al miracolo e riconoscere in esso il dito di Dio, ossia l'avallo soprannaturale del giudizio di santità.
Sopra ho accennato alla perfezione della carità; santo infatti non è colui che va in estasi e sposta le montagne, ma colui che ama Dio al di sopra di tutto e di tutti e tutti gli altri per amore di Dio. E proprio questa è la nota che rifulge nella personalità di Pio IX: amava Dio immensamente, intensamente e, sotto certi aspetti, fanciullescamente traducendo il suo medesimo amore di Dio in amore del prossimo, di qualunque prossimo anche dei suoi nemici. Fu così nel fervore dei suoi anni verdi, preludio di ciò che sarebbe maturato negli anni del suo ministero vescovile e papale, fino alla vecchiaia e alla morte.
Visse il suo eccezionale momento storico, così ricco d'eventi che cambiarono il corso della storia in Italia, nella Chiesa e nel mondo, in perfetta amorosa unione con Dio ed altrettanto amorosa disponibilità per gli altri. In mezzo a vicende che oltrepassavano di gran lunga il limite dell'ordinario, oggetto non di rado d'accuse ingenerose e di lotte a tutto campo, continuava a dar il suo alto esempio d'amor di Dio e del prossimo, in tutto e per tutto abbandonato alla divina Provvidenza. Tale abbandono, che a qualcuno è sembrato debolezza, "mancanza di senso politico, pericoloso misticismo, attesa inerte e passiva". era la sua arma politica. Non soggiaceva alla prepotenza, ma la collocava nel Cuore del suo Cristo e tutto risolveva in un atto d'amore.
Quando poi parlava del divino Amore, voce e gesti s'infiammavano a tal punto che l'uditorio ne rimaneva conquiso e commosso.
Il suo amore per il prossimo come riflesso e testimonianza di quello per Dio non era mai puramente verbale, ma concreto e risolutivo. Mite, buono e comprensivo, a quanti ne avessero bisogno lasciava dietro i suoi passi un aiuto che superava talvolta le attese. E' risaputa la sua carità per le claustrali e le religiose in genere; ma anche per i poveri, i perseguitati, i prigionieri. Lenì più volte i deleteri effetti della guerra, sottrasse alla cattura da parte degli Austriaci non pochi rivoluzionari in fuga, raccomandò e per quanto era in suo potere Egli stesso concesse condoni e riduzioni di pene. Visitò gli ammalati e non esitò ad assistere personalmente i colerosi dei vari ospedali. Non solo disse parole di pace e di perdono ai garibaldini, prigionieri dopo la battaglia di Mentana in Castel Sant'Angelo, ma li rifornì anche di cibo e di vestiario ed infine li fece rimetter in libertà. Ho già ricordato che passeggiava per Roma con accanto il Segretario, nelle cui mani era sempre una borsa per sovvenire ai bisognosi che incontrava.
Pensò perfino a forme di pensionamento, non ancora previste nemmeno dagli ordinamenti più avanzati dell'epoca, per quei civili e militari della vecchia amministrazione pontificia, che dopo l'occupazione di Roma non avevano aderito al nuovo governo.
Ma fu soprattutto un prete. Un prete vero, perché "uomo di Dio" (2Tm 3,17) tutto preso dal suo amore e votato al bene degli altri. Per i preti ebbe sempre speciali preoccupazioni. Curò la formazione sacerdotale, promosse i seminari, caldeggiò i buoni studi. Certo, non poté risolvere tuttti problemi da Lui incontrati, benché tutto facesse quant'era nelle sue possibilità per risolverli. Ebbe anch'egli, come uomo, i condizionamenti della sua natura; e come papa, i problemi immani dell'epoca in trapasso, cui rispondeva come sapeva e poteva. Ma su una cosa dovrebbero tutti concordare sostenitori e critici: sul fatto che fu prete esemplare, specchio delle più belle virtù sacerdotali e cristiane.
 Specie negli ultimi anni del suo pontificato, crebbe la considerazione comune della sua santità in base alle sue virtù. Peccato, umanamente parlando, che il riconoscimento ufficiale di esse sia venuto così tardi !

 III - Pio di nome e di fatto

Se la carità ebbe tanto rilievo nella sua vita, fu perché tutto il complesso delle sue virtù trovò in essa la sua radice e la sua sintesi. Fu vibrante d'amore, quindi fu pieno di fede e di speranza, proiettato in Dio e sicuro del suo aiuto, da Lui solo attendendo la soluzione umanamente impossibile dei suoi gravissimi problemi. Dio solo cercava quando opponeva un irremovibile no all'onda montante del liberalismo anticlericale, del secolarismo che addormentava il senso religioso dell'esistenza e dell'ormai diffuso ateismo. Dio era la sola motivazione del suo tetragono atteggiamento di resistenza agli eventi inarrestabili, per cui anteponeva i diritti della Chiesa, della religione cristiana e delle Sede Apostolica, della stessa legge naturale ad ogni prospettiva secolarizzante. Fu e visse soltanto come "homo Dei".
Incarnò nel suo tenore quotidiano la pietà non soltanto come ragione del suo personale rapporto con Dio, la Vergine Immacolata, San Giuseppe ed altri Santi, ma anche come punto di riferimento e faro del suo senso pratico, del suo dovere d'ogni giorno e degli imprevisti che, pure ogni giorno, s'affacciavano sull'ingresso della sua stanza di lavoro.
"Non è un mistico - è stato scritto - o un asceta nel senso stretto dei termini quantunque le sue effusioni spirituali, che si rintracciano dovunque nelle sue lettere e nei suoi discorsi, possano talora farlo pensare, ma è un uomo che aspira del continuo alla perfezione". Forse si voleva soltanto osservare che era non privo di qualche difetto, ma deciso ad emendarsene, tanto da aspirare "del continuo alla perfezione". Lo strumento da Lui a tal fine adoperato, il rimedio assunto, continua il medesimo biografo, "è la preghiera; in ogni evenienza prega e fa pregare; Egli è principalmente l'uomo della preghiera...Tale sarà sempre fino alla morte".
Da questa sua qualità di orante discendono alcuni indirizzi particolari che, nulla togliendo all'insieme e nulla al centro della sua religiosità, la specificano e ne definiscono le componenti varie. Fin da giovane, il Mastai si rivelò devotissimo del Sacro Cuor di Gesù e fin dai primissimi anni del suo ministero episcopale s'impegno a diffondere questa devozione. Ne percepiva con chiarezza il senso teologico. Sapeva che ogni omaggio al Sacro Cuore ridondava sulla persona adorabile di Cristo e sulla sua umanità sacrosanta. Ne derivava non solo il suo devoto atteggiamento, ma anche lo zelo con cui ne parlava ed operava. E' qui praticamente impossibile riferire quanto Egli fece per il Sacro Cuore; ma non posso tacere su alcuni discorsi da Lui tenuti agli albori del suo presbiterato e come piattaforma del suo sviluppo futuro. Si tratta di due tridui, già nei quali il Sacro Cuore si poneva in evidenza come un chiaro coefficiente della sua spiritualità, la quale pertanto già preludeva alle caratteristiche e dimensioni che avrebbe assunto in seguito. E quante opere videro la luce, da Lui promosse o da Lui approvate, riguardanti il Sacro Cuore: confraternite, chiese, famiglie religiose. Si capisce così la ragione per la quale consacrò al Sacro Cuore la Chiesa.
Un altro aspetto non meno significativo del suo orientamento spirituale è la devozione alla Madonna. Anche questa seppe ben radicare in opportune ragioni teologiche ed innestare sul suo costume personale, come un'espressione tipica di esso. Era una delle devozioni nate nel suo animo fin dalla fanciullezza; e fu il suo distintivo per tutta la vita. Avrebbe potuto ben dire anch'Egli: "Totus tuus"; era davvero tutto di Maria. A Lei riferiva tutto quanto ebbe una speciale rilevanza nella sua lunga giornata: la guarigione da una malattia che per qualcuno fu epilessia, anche se la fondatezza di tale diagnosi non fu mai dimostrata, la vocazione sacerdotale, l'episcopato spoletino ed imolese; la stessa porpora cardinalizia. Sotto il manto della Vergine Immacolata e segnatamente della Madonna di Loreto Egli pose poi il suo ministero papale. Tutta la sua esistenza si svolse in atmosfera mariana.
Si conoscono, inoltre, i suoi discorsi giovanili su Maria Assunta in cielo. Col loro impianto biblico-teologico, già preludevano al suo futuro e ben consolidato convincimento circa il vincolo esistente tra Immacolata Concezione ed Assunzione. Ho già ricordato codesto convincimento. Nel 1864 ne parlò una volta alla Regina di Spagna, che già pregustava la gioia d'una nuova definizione dogmatica: "Non c'è dubbio che l'Assunzione...è una conseguenza del dogma della sua Concezione Immacolata...io non mi credo degno istrumento per pubblicare come dogma anche questo secondo Mistero; ma tempo verrà..." La medesima speranza aveva del resto espresso in altre occasioni, anche molto prima.
In un certo senso, Maria era nel suo cuore; la causa di Lei faceva parte di Lui, perciò non poteva non parlarne e lo faceva non senza personale trasporto.
La storiografia ricorda anche la sua devozione a San Giuseppe, che culminò, 1'8 dicembre 1870, con la proclamazione del verginale Sposo di Maria a patrono della Chiesa universale.
Ma il giudizio sulla sua spiritualità né si evince del tutto da queste sue devozioni, né s'esaurisce in esse. Queste, anzi, potettero sussistere solo grazie alla qualità teologale della sua vita. Era davvero "I'uomo di Dio" tutto proteso verso di Lui; Dio, a sua volta, era nell'intimo del suo Servo fedele: la sua forza, la sua luce, la ragione unica del suo essere ed operare. Se qualcuno continuerà a valutarlo prescindendo da questo rapporto, continuerà pure a non capirlo e a diffonderne un'immagine irreale.
E' un rapporto, del resto, che traspare da tutte le sue scelte: non solo, e son le più importanti, da quelle decise sul soglio di Pietro, ma anche da quelle anteriori, queste pure colme dello stesso significato. Son le scelte che hanno in Dio il loro senso e la loro motivazione. Si, la loro causa immediata, che forse sarebbe meglio chiamare occasione, è riconoscibile nei gravi problemi che Pio IX dovette affrontare, nelle non facili relazioni inteme ed esterne della Chiesa, nelle mire nemmeno tanto coperte del mondo massonico ed anticlericale, ma la causa profonda è quella che tutto riconduceva a Dio e alla "pietas" filiale del novello Beato verso di Lui.
 Non posso terminare questo paragrafo senza accennare, almeno di sfuggita, ad un'altra componente della sua spiritualità: la direzione delle anime. Figurano tra queste molte religiose: Sr. Castellano di Spoleto, Sr. Rosa Felice Mayer di Fognano, Sr Maria Nazarena Zampieri di Santo Stefano in Imola, Sr. Chiara Teresa del Sacro Cuore di Maria di Montefalco. E tante altre ancora. Logicamente, tale direzione non si fermò alle Religiose. Erano i virgulti del giardino di Dio, dovunque si trovassero, ad esser da Lui coltivati. Giovani, seminaristi, preti, personalità insigni o no, trovarono nella persona del Mastai il "cultore" illuminato e pio. Il fatto è che il Santo comunica sempre, per via diretta o per le articolazioni misteriose della Comunione dei Santi, i segreti e i benefici della santità. E Pio IX, in codesta comunicazione, si distinse egregiamente.

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