domenica 23 gennaio 2011

Convegno di Roma sul Concilio. Don Florian Kolfhaus: Il magistero pastorale del Concilio Vaticano II

  
 
Don Florian Kolfhaus parla come rappresentante della Segreteria di Stato. Il titolo completo della relazione è: "Insegnamento pastorale motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate". Egli parte dalla considerazione che "Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale". Tuttavia, proprio questo "concilio pastorale" – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato "come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili". Del resto, è ormai chiaro che molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II - che non mancano -, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. È per questo che si registra una sorta di timore di un arretramento rispetto al Concilio e di una sua arbitraria svalutazione. Il nostro contesto e le nostre riflessioni non vogliono arrivare a questo, ma solo far luce sugli eventi, sulla loro portata e significato e su dove ci stanno portando...

In effetti, quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E tuttavia, è innegabile che esso non è riconducibile a nessun precedente. Su questo tutti possono convenire, sia pure da diverse posizioni e valutazioni. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; ma, ferma restando la sua legittimità ed autorità, la centralità della problematica che ne deriva sta nella tensione creata dal concetto di "Concilio pastorale" o di "Magistero pastorale", per effetto del nuovo tipo di concilio introdotto sul piano della prassi anziché su quello concettuale.

Non viene messo in discussione il carattere vincolante del Magistero, che esige consenso e obbedienza -sia pure non vincolante- anche quando non si tratta di dogmi, ma piuttosto il fatto se il Magistero, inteso come esercizio del "munus determinandi", sia riconoscibile in tutti i documenti. Don Kolfhaus così esprime il quesito: "Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del Papa nelle sue encicliche?", e così risponde: "Nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale […]. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi "moderni" un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono "nuove" verità. Il Concilio stesso non voleva questo".

Ed è proprio questo il grande problema che deve essere affrontato e risolto. È ora ineludibile mettere ordine e delineare le diverse terminologie per fare, innanzitutto, un distinguo fra "magistero dottrinale", "magistero disciplinare", "magistero pastorale" e dunque definire il "Concilio pastorale", l’unico della Storia della Chiesa... Molto chiara la distinzione tra le diverse categorie di documenti, che ci riallaccia ai differenti "livelli" di mons. Gherardini. Insomma secondo la efficace sintesi di p. Lanzetta: "le principali dottrine del Vaticano II, quelle riguardanti il dialogo interreligioso, l’ecumenismo e la libertà religiosa, che sono poi quelle che hanno maggiormente catalizzato l’attenzione, non dovrebbero definirsi propriamente “dottrine” ma piuttosto “insegnamenti” (sono decreti e dichiarazioni) pastorali (come precisato dagli stessi padri conciliari) per i quali siamo ancora in ricerca di una categoria teologica per qualificarne il magistero, che sicuramente non è né dogmatico né disciplinare. Don Kolfhaus propone la qualifica di munus praedicandi: un insegnamento che, come ad esempio un’omelia, riguarda temi dottrinali, ma il tenore e la stessa proposizione sono di indirizzo eminentemente pastorale, vincolanti ma non infallibili".

Interessante la notazione iniziale, a braccio, che la scienza e anche la teologia si fa sine ira et studio, invece il problema del Concilio viene trattato cum ira et studio... Interessante anche notare che nella distinzione tra le differenti categorie di documenti possiamo cogliere una novità che non consente di considerare il Concilio come un blocco.

Di seguito il testo della Relazione:
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Recentemente ha preso avvio una nuova discussione sull’interpretazione del Concilio Vaticano II; oggetto del dibattito è fino a che punto i testi conciliari si collochino effettivamente nella continuità del Magistero. Lo stesso papa Benedetto, nell’ormai famoso discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, ha affermato che il Concilio Vaticano II può essere adeguatamente compreso solo nel contesto dell’intera tradizione della Chiesa. Non ci fu alcuna “rivoluzione copernicana”, alcun nuovo inizio, alcuna rottura con tutto ciò che i papi e i concili precedenti avevano insegnato. Oggi si pone, tuttavia, la pressante domanda di come abbiano potuto svilupparsi, nella ricezione del Concilio, certe teologie (e non pochi dei loro autori ne fanno motivo di vanto) che rappresentano proprio un “nuovo inizio”, per superare le strette guide dogmatiche del Magistero. Sembrerà paradossale, ma uno dei motivi di questa rottura con la tradizione è una modalità del tutto “tradizionale” di lettura del Concilio Vaticano II come concilio dogmatico.

Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili». Noi tutti lo constatiamo giorno per giorno: molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II, che senza dubbio ci sono, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. In effetti, non mancano oggi forti richiami che mettono in guardia da un arretramento rispetto al Concilio e da una sua arbitraria svalutazione. Ciò è fuori discussione, non si tratta di questo. Al contrario: quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E d’altra parte, il Vaticano II è stato un concilio come mai ve ne erano stati prima. Questa affermazione troverà d’accordo tutti, per quanto differenti possano essere le valutazioni su di esso. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Cosa significa, però, “ermeneutica della continuità”?

Un concilio come nessun altro prima

Il problema centrale, alla cui soluzione ho voluto fornire un modesto contributo con la mia tesi dottorale, è la tensione creata dal concetto di “concilio pastorale” o di magistero pastorale. Il Vaticano II ha introdotto, non sul piano concettuale, ma su quello della prassi, un nuovo tipo di concilio. Qui non è in discussione il carattere vincolante del Magistero, che, anche quando non si tratta di dogmi, ovvero di definizioni infallibili della dottrina rivelata, si pronuncia in questioni di fede e morale con autorità, cioè esigendo consenso o obbedienza. Si tratta piuttosto della questione se il Magistero – inteso almeno come esercizio del “munus determinandi” – sia affatto presente in tutti i documenti. Cosa significa, quindi, che un concilio si esprime in termini non dogmatici, ma pastorali o – per dirla con le parole del cardinal Ratzinger – «a un livello inferiore»?

Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del papa nelle sue encicliche? Certamente, nelle costituzioni viene esposta della dottrina (come ad esempio nella Lumen Gentium, in cui si afferma esplicitamente per la prima volta la sacramentalità dell’ordinazione episcopale), mentre nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale, e proprio questo conduce spesso alle interpretazioni del Concilio sopra menzionate. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi “moderni” un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono “nuove” verità. Il Concilio stesso non voleva questo. Per esempio, a proposito della dichiarazione sul dialogo interreligioso, il 18 novembre 1964 il relatore del Segretariato per l’unità dei cristiani affermava nell’aula conciliare: «Per quanto concerne lo scopo della dichiarazione, il Segretariato non vuole emanare alcuna dichiarazione dogmatica sulle religioni non cristiane, bensì presentare norme pratiche e pastorali» (cfr. Acta Synodalia (AS) III/8. 644). Quanti teologi, invece, richiamandosi alla Nostra aetate, da questi principi miranti alla prassi del dialogo hanno elaborato una teologia delle religioni che vede nelle religioni non cristiane vie di salvezza autentiche e indipendenti da Cristo e dalla Chiesa? Quanto spesso si è sostenuto, citando la Unitatis Redintegratio, che il Vaticano II avrebbe rinunciato alla “pretesa di assolutezza” della Chiesa, la quale dovrebbe comprendersi finalmente come una tra molte chiese? Chi legge gli atti, resta sorpreso. Nel decreto sull’ecumenismo si dichiara espressamente che le sue asserzioni non toccano nel modo più assoluto la verità dell’assioma “Extra Ecclesiam nulla salus” (cfr. AS III/7. 32) e che non v’è alcun dubbio che solo la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo («Clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica … dicitur … una et unica Dei Ecclesia» AS II/7. 17.)

Le intenzioni del Concilio Vaticano II

Nella comunicazione del segretario generale alla 123ª Congregazione Generale del 16 novembre 1964 si afferma che ci si trova davanti a dottrina rivelata “de rebus fidei et morum” solo quando ciò è definito esplicitamente. Tale dichiarazione [esplicita] non ha mai avuto luogo. Per tutte le altre asserzioni sono determinanti l’oggetto trattato (“subiecta materia”), le regole classiche dell’interpretazione teologica (“ratio secundum normas interpretationis theologicae”) e l’intenzione del Santo Sinodo, la “mens Sanctae Synodi”. Proprio su quest’ultima vale la pena di soffermarsi con più attenzione. Gli atti pubblicati riportano un’immagine chiara di come l’intenzione pastorale dei Padri si è sviluppata lentamente e con fatica. Non di rado, tuttavia, e precisamente nella rappresentazione del Concilio di Giuseppe Alberigo, si trasmette l’impressione che Giovanni XXIII avesse fin dall’inizio – per di più contro la resistenza della Curia Romana – stabilito una chiara rotta pastorale del Concilio, la quale potrebbe riassumersi nella sfuggente parola d’ordine “aggiornamento”, che del resto il Papa aveva utilizzato non per il Concilio, ma per la riforma del Codice. Così però si fa finta di non vedere che Giovanni XXIII volle e approvò gli schemi preparati dalla curia. Le sue stesse direttive su cosa dovesse intendersi per “pastorale” non erano univoche. All’inizio del Concilio, ad esempio, egli pose l’accento sulla chiara presentazione della dottrina e diede alla Chiesa come “intenzione del Santo Padre” per l’ottobre 1962 la preghiera che il “magistero infallibile del Concilio” potesse difendere efficacemente la fede contro pericoli ed errori. Lo speciale “carattere pastorale” del Vaticano II rappresentò anche per i Padri conciliari una novità. Questo nuovo “stile” si manifesta anzitutto nel desiderio di comporre dei testi in una lingua facilmente comprensibile e di argomentare biblicamente. Non si volevano né definizioni da teologia di scuola, prima, né definizioni magisteriali, in seguito; tuttavia la dottrina cattolica doveva essere ovviamente presente e determinante sempre e in tutti i testi. I Padri adunati per il Concilio avevano tutti i manuali scolastici dei loro anni di studio in testa (o almeno nella cartella portadocumenti dei loro consulenti teologici). Questa dottrina essi non volevano cambiare, ma esporre più chiaramente. Chi conosce a memoria le risposte del catechismo può usare con la coscienza tranquilla immagini ed espressioni nuove, quando si tratta di utilizzare la dottrina cattolica nella pratica e in un modo conforme ai tempi. La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con “una nuova realtà pastorale” si sviluppi una “nuova” dottrina. Esempi di ciò ve ne sono in abbondanza nella vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Questo vale anche per molti teologi che – sorridendo delle semplici verità del catechismo – considerano le affermazioni pastorali conciliari alla stregua di asserti dottrinali, per poi sviluppare di qui nuove posizioni (personali).

Differenti categorie di documenti

Il Vaticano II, in contrasto con i due concili precedenti, utilizza tre diverse categorie di documenti (costituzioni, decreti, dichiarazioni), per ponderare in tal modo il suo discorso. Questa evidente realtà spesso non viene presa in considerazione. Accanto alla “Lumen Gentium”, la costituzione sulla Chiesa e il documento dottrinale centrale del Concilio, si trova la costituzione sulla divina rivelazione “Dei Verbum”. Altri documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come “Unitatis Redintegratio” sull’ecumenismo, “Nostra Aetate” sulle religioni non cristiane e “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. Queste vengono di regola rinviate ai direttori che dovrebbero essere redatti dopo il Concilio. Decreti e dichiarazioni non sono allora, detto molto in generale, né dottrina né disciplina. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di un insegnamento, che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Questo avviene senza che si emanino concrete norme disciplinari. La teologia finora non ha a disposizione alcun concetto appropriato per questa nuova forma di Magistero pastorale. Un errore ampiamente diffuso nell’interpretazione del Concilio consiste proprio nel leggere decreti e dichiarazioni sullo stesso piano delle costituzioni del Vaticano II – quindi come documenti dottrinali. Che questo non possa essere vero lo mostra già uno sguardo attento alle categorie dei documenti. Così può sembrare provocatoria la constatazione oggettiva che “Unitatis Redintegratio” detiene la stessa qualifica formale del decreto sui mezzi di comunicazione sociale “Inter mirifica”. A entrambi i testi si dovrebbe perciò addire la medesima qualifica formale. Ma nessuno presume che “Inter mirifica” sia un testo dogmatico! Qui si tratta di prassi, non di dottrina. Senza dubbio il dialogo ecumenico è una sfida più importante della rapida crescita dei mezzi di comunicazione sociale. Entrambi i temi sono svolti all’interno della stessa categoria di documenti; non perché siano ugualmente significativi, ma perché ad essi è comune l’orientamento alla prassi. Nei due documenti non si tratta di una dottrina nuova, bensì di una prassi nuova, o meglio, rinnovata. La differenza tra le affermazioni dottrinali e quelle orientate alla prassi è sostanziale, poiché le seconde poggiano sulle prime e non possono porsi in contrasto con queste, se realmente vogliono essere una pastorale cattolica. Questa distinzione tra dottrina immutabile e agire conforme ai tempi si riferisce alla questione di cosa sia dunque un concilio pastorale in ultima analisi. Anche i Padri conciliari si trovarono a confrontarsi con questo importante punto, come vorrei mostrare nell’esempio seguente tratto dai documenti.

Cambiamento della “legge fondamentale” o riforma del “regolamento”?

[...]

Non infallibile, ma nemmeno non vincolante

A questo punto appare necessario occuparsi più approfonditamente della già menzionata questione della peculiarità di un magistero pastorale. Nella scolastica si è parlato di due forme di magistero. Partendo dall’autorità di colui che ammaestra Tommaso d’Aquino conosce il “magisterium cathedrae pastoralis” del vescovo e il “magisterium cathedrae magistralis” del teologo. Oggi si intende per magistero esclusivamente quello dei vescovi e del papa. Il vescovo per la sua diocesi, il papa e il collegio dei vescovi riunito sotto di lui per la Chiesa universale, sono portatori di questo magistero nel senso in cui il termine viene oggi utilizzato. I concetti finora disponibili per la qualificazione dei testi dottrinali sono in parte sorprendentemente recenti: nel 1835 Gregorio XVI impiega per la prima volta in “Commissum divinitus” il concetto di “magisterium” in un documento dottrinale, laddove egli parla di una “potestas magisterii” accanto ad una “potestas regiminis”. Egli fu anche il primo ad utilizzare la forma dell’enciclica per l’esercizio del suo magistero. Nel 1964, nella “Lumen Gentium”, appare per la prima volta nell’uso del magistero l’espressione “munus docendi”. Entrambi i concetti – “magisterium” e “munus docendi” - si pongono in stretta relazione ma, nonostante siano frequentemente utilizzati come sinonimi, non sono equivalenti. “Munus docendi” designa – generalizzando e semplificando – l’insegnamento vincolante a carattere dottrinale da parte della legittima autorità e l’annuncio del Vangelo da parte dei ministri ordinati ed autorizzati grazie alla “missio canonica”; “magisterium” – come parte del “munus docendi” – punta invece alla definizione di problemi dottrinali, normalmente come chiarimento autorevole di questioni controverse.

Poiché la distinzione effettuata nei concili precedenti tra affermazioni dottrinali e disciplinari non è appropriata per il carattere peculiare del Vaticano II, risulta che per la terminologia della teologia, la quale distingue tra asserzioni dottrinali infallibili e non infallibili, deve essere trovata una ulteriore categoria. Su tale questione il Concilio stesso tace. Accanto ad asserzioni dottrinali che vogliono difendere e mettere in chiaro delle verità, troviamo nel Vaticano II e in seguito ad esso asserzioni dottrinali che vogliono motivare una determinata pastorale e regolare una prassi. Bisogna poi ricordare che il Concilio non rinuncia in linea di massima all’esercizio del magistero, ma lo fa in un modo nuovo. Davanti a questo sfondo si concretizza la domanda sulla forma magisteriale dei documenti e sulla gradazione, o meglio, sull’intenzione con cui questi sono stati prodotti.
Manca, come già si è detto, il concetto per un “magistero pastorale”. Così resta difficile dire cosa sia realmente un concilio pastorale. È necessario, però, distinguere tra “dottrinale” e “pastorale”. Ugualmente, “pastorale” non può essere messo sullo stesso piano di “disciplinare”, dato che non si tratta semplicemente di norme concrete di natura giuridica. Queste, infatti, sono state consapevolmente delegate dai Padri a specifici direttori che dovevano essere realizzati solo dopo la chiusura dell’assemblea ecclesiale. Se un magistero pastorale non è né dottrinale né disciplinare, che cosa è dunque?
In un’enciclica papale, in una buona omelia domenicale, nelle parole di incoraggiamento ben ponderate dopo una confessione viene ogni volta annunciata la fede cattolica, e tuttavia con modalità e scopi molto differenti. Se nel primo caso si tratta anzitutto di chiarire questioni dottrinali, gli altri due momenti sono interamente orientati alla pastorale. Tutt’altro che non vincolanti, l’omelia e le parole di incoraggiamento vogliono muovere a un determinato agire – a una vita “nuova” secondo la fede. Perché tale annuncio abbia un buon esito, esso deve prendere in considerazione il tempo e il luogo, la formazione e l’età, la maturità spirituale e l’apertura religiosa dei destinatari. Pastorale significa “tradurre” la dottrina in prassi – non apportare modifiche alla dottrina. Per essere chiari, torniamo ancora una volta al decreto sull’ecumenismo. I Padri non volevano pronunciare alcuna definizione di dialogo ecumenico, perché erano coscienti che questa prassi pastorale può e, se vuole essere efficace, deve assumere forme molto diverse. Essi hanno chiaramente messo da parte le questioni dottrinali, a cui “Unitatis Redintegratio” per l’appunto non doveva rispondere: il decreto tace esplicitamente sulla controversia riguardo all’appartenenza alla Chiesa, sul problema della bona fides, sulla chiara valutazione di quali comunità al di fuori della Chiesa cattolica siano Chiesa in senso teologico, sul tema della definizione del rapporto tra Scrittura e Magistero, sulla descrizione dettagliata del primato papale come su una rappresentazione differenziata delle diversità dogmatiche tra cattolici e ortodossi (AS III/7. 675ss.).

Una nuova pastorale pienamente inserita nella tradizione

Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa. Naturalmente alla domanda sulla natura di un concilio pastorale se ne collegano altre, che richiedono un più preciso chiarimento relativamente a dottrina e prassi: la pastorale è soltanto una tecnica di comunicazione della dottrina o pone anche delle domande al Magistero? Il Vaticano II con il suo “essere un concilio diverso” ha effettivamente creato una nuova forma di magistero? Otto Hermann Pesch dice in modo provocatorio e, senza dubbio, troppo esagerato: «non si è ancora riflettuto abbastanza su forme e condizioni attraverso cui la Chiesa possa fare anche in futuro quel che essa ha fatto per la prima volta con molto coraggio nel Concilio: parlare in forma temporanea, provvisoriamente, con la prospettiva di un superamento, e fare questo con piena coscienza, per propria ammissione» (Das Zweite Vatikanische Konzil, 379). Dichiarare una dottrina, anche quando essa non riveste un carattere di infallibilità, suscita l’esigenza che essa sia fidata, vera e valida. Questo vale a maggior ragione per affermazioni dottrinali definite solennemente: i dogmi non sono “provvisori, superabili, temporanei”; risposte a urgenti problemi del momento orientate alla prassi devono essere date volta per volta, per essere adatte alla situazione politica, sociale e culturale. Nel rispondere poi a tali questioni non si tratta di mettere in gioco dottrina e prassi l’una contro l’altra, di intendere “pastorale” come sinonimo di “non vincolante” o di “discrezionale” e di vedere la cura d’anime costantemente in conflitto con il Magistero. Il Vaticano II voleva salvaguardare la dottrina e rinnovare la cura pastorale. Sarebbe richiesto di colmare finalmente questa lacuna nell’apparato concettuale della teologia che si è aperta dal Vaticano II in poi. La mia proposta sarebbe – e questo non può essere niente più che un modesto contributo ancora da discutere – di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Si tratta, infatti, di un “munus” cioè dell’insegnamento della legittima autorità, e “predicare” non significa per niente che detto insegnamento non sia vincolante, ma richiama il fatto che l’omelia è il luogo privilegiato di esporre la dottrina cattolica già definita e di applicarla per la vita concreta per la vita dei fedeli. Questo significa: Annuncio del Vangelo ed insegnamento della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il Concilio, almeno nei suoi decreti e dichiarazioni, non vuole esporre dottrina, e men che meno cambiare la dottrina trasmessa. Con elementi della dottrina cattolica – così come era e così come rimmarrà – il Vaticano II insegna la fede e le nuove direttive pastorali derivante da essa.

Nessuno può negare le tensioni di questo magistero pastorale. Purtroppo non mancano teologi che con il cambiamento della prassi fondano una rottura con la dottrina tradizionale. Forse i Padri conciliari furono sotto certi aspetti troppo ottimisti quando rinunciarono a definizioni dottrinali e condanne solenni, volendo tuttavia conservare e difendere il dogma. Della loro intenzione di fare ciò, non c’è peraltro da dubitare. In questo senso Paolo VI, nella seduta di approvazione dei due documenti conciliari sulla Chiesa “Lumen gentium” e sull’ecumenismo “Unitatis Redintegratio” ha affermato: «Questo sembra essere il più significativo commento alla promulgazione di questi documenti; quanto Cristo ha voluto, lo vogliamo anche noi. Quel che era, tale rimane. Quel che la Chiesa ha insegnato nel corso dei secoli, proprio questo insegnamo anche noi» (AS III/8 911.).

Cfr. anche: Florian Kolfhaus: Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, “Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate”. Münster 2010. LIT-Verlag. ISBN: 978-3-634-10628-5. Si tratta della prima pubblicazione della nuova collana di tesi dottorali prodotte a Roma: “Theologia Mundi ex Urbe”.

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