martedì 21 febbraio 2012

Quando il fisco diventa brutale







Guido VIGNANELLI

tratto da: Cristianità, 20 (1992) novembre, n. 211, p. 3-4.

[...] Senza avere la pretesa di valutare tecnicamente la situazione attuale, possiamo comunque ricordare i principi basilari della dottrina sociale della Chiesa, stranamente dimenticati dalla pastorale odierna, rispondendo ad alcune domande generali che possono aiutare il contribuente a trovare una soluzione concreta.


Può lo Stato tartassare i cittadini per assicurare l'assistenzialismo?

Dato che il fine delle pubbliche finanze sta nell'assicurare le condizioni economiche del bene comune, la quantità e la gravità delle imposte hanno la loro giustificazione solo nella misura in cui corrispondono equamente all'ampiezza e alla qualità dei servizi assicurati dallo Stato (3).

Nondimeno, anche ammettendo che il fisco aumenti le tasse solo per ampliare o migliorare i servizi sociali, si pone comunque un problema: fino a che punto lo Stato può accentrare e monopolizzare tali servizi, per poi chiedere ai cittadini un aumento della contribuzione? E' chiaro, infatti, che quanto più numerosi e complessi saranno i servizi accentrati dallo Stato, tanto più onerosi ne saranno i costi sociali, sotto forma appunto di tasse. Se l'autorità politica s'incarica di gestire non solo l'ordine pubblico e la pubblica amministrazione, ma anche scuola, sanità, previdenza sociale, poste, trasporti e addirittura attività industriali e agricole, ha poi diritto di chiedere ai cittadini tasse esose per mantenere questo carrozzone?

La risposta, ovviamente, è negativa. Infatti, secondo il principio basilare della dottrina sociale della Chiesa, chiamato principio di sussidiarietà (4), nessuna società superiore può pretendere di svolgere mansioni che possono efficacemente svolte da società inferiori. Lo Stato è la suprema, ma non è l'unica forma di organizzazione operante nella società civile; esistono le cosiddette società intermedie, sia esse private o semi-pubbliche o pubbliche, che vanno dalla famiglia all'associazione professionale al municipio. Queste società inferiori possono svolgere autonomamente, a livello sia locale che nazionale, molte funzioni oggi surrogate dallo Stato: basti pensare appunto a scuola, sanità, previdenza sociale, poste, trasporti, elettricità e forse persino ordine pubblico. Queste funzioni, se svolte dalle società intermedie, costano poco, risultano più efficienti, sono radicate sul territorio e sono quindi più controllabili da parte dei cittadini, arginando la corruzione amministrativa; se invece vengono accentrate dallo Stato, spesso costano troppo, risultano inefficienti, restano estranee agli interessi concreti dei cittadini e sono difficilmente controllabili, col risultato di favorire la corruzione.

Di conseguenza, lo Stato non ha alcun diritto di accentrare i servizi sociali, e men che meno può prenderne pretesto per imporre tasse esose ai contribuenti, ingannandoli col miraggio di render loro la vita facile mediante un sistema capillare di servizi sociali deresponsabilizzanti. «I cittadini non dovranno mai dimenticare che tutto quello che essi (o singolarmente o in forme associate) possono fare, non lo devono delegare alla comunità, al suo governo, ai suoi singoli organi. E ciò principalmente per due motivi: perché verrebbero espropriati di diritti e funzioni che naturalmente appartengono a loro, e perché pagherebbero la delega in alti costi economici e quindi in contributi fiscali» (5) Osserva un grande esperto: «gli Stati che continuamente dilatano l'area della propria attività, che accaparrano servizi che dicono pubblici, ma potrebbero essere privati, necessitano di un enorme gettito d'imposte per tenere in efficienza la propria vita dispendiosa e assorbente. Tale concezione, lungi dal rispondere all'ideale retto e cristiano dello Stato, si avvicina all'ideologia socialista, che sovverte i concetti di Stato e di nazione. L'ideale deve essere: Stato povero e nazione ricca; non il contrario. Oggi, invece, può forse dirsi che in tutti i Paesi del mondo i giusti limiti tributari vengono scavalcati dai governi, e ciò per effetto della concezione fondamentalmente erronea dello Stato, che implica come conseguenza enormi dispendi» (6).

Il centralismo amministrativo imposto dallo Stato moderno, infatti, è non solo fallimentare ma anche potente strumento di una filosofia politica errata e pericolosa. Pio XII condanna «l'estensione smisurata dell'attività statale, attività che, imposta troppo spesso da ideologie false o malsane, fa della politica finanziaria, e specialmente della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di ordine completamente diverso». (7).

Difatti, se la vita sociale viene organizzata nella prospettiva assistenzialistica, in modo che i cittadini si sentano in diritto di ricevere tutto dallo Stato, è chiaro allora che questo Stato pretenderà di controllare, o addirittura di dirigere l'intera vita sociale, da quella economica a quella culturale e perfino religiosa. In questo modo, si pongono le premesse strutturali per un totalitarismo di marca socialista.

Il socialismo cerca di deresponsabilizzare i cittadini, per spingerli ad affidarsi totalmente all'assistenzialismo statale, che dovrà allora coprire tutto l'arco delle attività sociali e tutto l'arco della vita del cittadino: dalla culla alla tomba. E' chiaro che, una volta incaricato di fare tutto, lo Stato pretenderà di impossessarsi di tutto, compresi i beni dei cittadini. A questo si può arrivare in due modi: o col sistema dittatoriale prevalso in oriente, ossia abolendo il diritto stesso di proprietà, oppure col sistema "democratico" prevalso in occidente, ossia vanificando il diritto di proprietà mediante l'esproprio fiscale e l'oppressione burocratica. I casi della Russia e della Svezia sono stati due esempi storici, oggi però in crisi, di queste due vie assistenzialistiche al totalitarismo.


Purtroppo, le scelte politiche italiane di questi ultimi trent'anni, sotto la spinta dell'assistenzialismo centralistico realizzato dai vari governi di centrosinistra, hanno imprigionato la società civile nelle maglie di uno Stato che si è rivelato tanto accentratore e avido quanto inefficiente e spendaccione. Solo da poco si è cominciato a prospettare un decentramento amministrativo e quindi anche fiscale. Sembra però che anche questa prospettiva non rinunci alla pressione fiscale, ma si limiti ad indirizzarla a profitto delle autorità locali anziché dello Stato centrale: magra consolazione... Dovrebbe invece restare ben chiaro che «quello che si è detto dello Stato centralizzato, burocratico, fatte le debite proporzioni, vale anche per i governi locali, regionali e municipali. Anche questi non possono né debbono sovraccaricarsi di funzioni che possono essere più utilmente svolte da enti e da associazioni private o semi-pubbliche» (8).

Lo Stato può tassare a suo arbitrio?

Questa domanda potrà sembrare strana. Se lo Stato ha il diritto di chiedere soldi per assicurare i servizi, non avrà diritto imporre tutte le tasse che crederà opportune?

No. Anche lo Stato è sottomesso alla giustizia: appunto perché è suo dovere farla rispettare, non può violarla egli stesso, dando alla società un pessimo esempio di disonestà che costituisce un terribile incentivo all'emulazione. E' la giustizia, e precisamente la giustizia legale, a regolare i rapporti fra lo Stato e gli individui, e quindi anche i rapporti fiscali. Di conseguenza, lo Stato deve comportarsi ragionevolmente e onestamente anche in campo fiscale. Ma se il fisco è tenuto ad osservare la giustizia come e più dei suoi cittadini, allora esso non può pretendere di ricevere, o di trattenersi, quello che non gli spetta di diritto; altrimenti sarebbe come rubare, e nemmeno il fisco può farlo. Nel nostro caso, «al dovere dei cittadini di pagare le tasse, corrisponde, da parte dello Stato, il dovere di emanare una legislazione fiscale giusta ed equa» (9) che rispetti la dignità e il ruolo degli individui e delle società intermedie. La norma fondamentale che regola il prelievo fiscale è questa: «lo Stato non ha diritto ai beni dei cittadini se non in quanto sono necessari al bene comune e alla gestione statale» (10). Se infatti vale il principio generale «tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario» (11) possiamo allora trarne la norma specifica «tanta libertà economica quanta è possibile, tanto fisco quanto è necessario, ma non di più».

Dunque, come esistono limiti anche all'intervento statale nella vita civile, così esistono limiti anche all'imponibilità fiscale. Il criterio ce lo riassume Pio XII: «Lo Stato, in quanto incaricato di proteggere e difendere il bene comune dei cittadini, ha l'obbligo di ripartire fra loro solo pesi necessari e proporzionati alle loro risorse» (12). Per essere moralmente lecite e quindi obbligatorie, quindi, la tassazione deve avere tutte queste precise caratteristiche:

- essere giusta, ossia finalizzata a una causa onesta;

- essere necessaria, cioè indispensabile al bene comune;

- essere equa, ossia conforme alla giustizia commutativa;


- essere proporzionata alle possibilità dei contribuenti, ossia calcolata non in base ad astratti parametri matematico-statistici, ma sulle reali e concrete possibilità contributive della società civile (13).

Come infatti ribadisce Giovanni XXIII, «principio fondamentale in un sistema tributario giusto ed equo è che gli oneri siano proporzionali alla capacità contributiva dei cittadini» (14). Se ad una tassa manca anche una sola di queste caratteristiche, si può metterne in dubbio la liceità di richiederla e quindi il dovere di pagarla (15).

Si può aggiungere, come norma generale, che le tasse non possono gravare su tutto ciò che è strettamente necessario alla sussistenza (16): non solo a quella individuale, ma anche a quella familiare e sociale, come vedremo.

Quando si parla di tasse necessarie, bisogna guardarsi da un inganno. Lo Stato odierno spesso cede alla sleale abitudine di varare leggi fiscali vessatorie, giustificandole col pretesto di dover fronteggiare emergenze straordinarie che renderebbero necessaria una pressione fiscale esosa. In realtà manovre del genere vengono fatte di solito per tentare di tamponare i fallimenti provocati proprio da un'irresponsabile gestione centralistica dell'economia.

A questa slealtà bisogna obiettare che le tasse "straordinarie" non possono diventare una forma aggiuntiva di tassazione ordinaria, e quindi devono cessare con la fine dell'emergenza che le ha fatte nascere. Soprattutto, poi, queste tasse diventano illecite se l'emergenza stessa è stata provocata proprio da quelle scelte di politica economica socialista che a loro volta richiedono l'aumento della pressione fiscale: è un circolo vizioso, un puro pretesto per creare stati di emergenza crescente da sfruttare fiscalmente.

Comunque, come ammonisce Pio XII, «l'imposta non può mai diventare, per opera dei poteri pubblici, un comodo metodo per colmare i deficit provocati da un'amministrazione imprevidente» (17). Pertanto, «neppure in momenti di crisi estrema» la pressione fiscale può andare contro giustizia (18).

Può il fisco penalizzare la proprietà, la famiglia e la Chiesa?

Ovviamente no. Dovrebbe risultare ben chiaro che lo Stato non può usare la pressione fiscale per schiavizzare le citate "società intermedie", e tantomeno per opprimere le colonne portanti della società e della civiltà: la proprietà privata, la famiglia e la santa Chiesa.


Per quanto riguarda la prima, lo Stato non ha alcun diritto di usare la pressione fiscale come una forma di "lotta di classe" che miri a ridurre all'impotenza la proprietà privata. Basti pensare che, secondo la dottrina sociale della Chiesa, il prelievo fiscale può attingere dal reddito dei contribuenti, ma non può costringerli ad intaccare considerevolmente il loro patrimonio, che è la riserva economica di sicurezza che evita di scivolare nella misera.

Tantomeno il fisco può pretendere, sotto nessun pretesto, di prelevare dalle tasche dei contribuenti una percentuale di tasse così esosa da ridurli quasi in schiavitù, facendoli lavorare più per lo Stato che per sé. Altrimenti sarebbe come sostenere che la proprietà sia una concessione statale, che i cittadini debbano essere salariati dello Stato e che questo possa impadronirsi dei frutti del loro lavoro; ma questo è socialismo.

Inoltre, la pressione fiscale non può essere tanto forte da impedire lo sviluppo della libera iniziativa privata e soffocare il progresso dell'imprenditoria. Altrimenti, sarebbe come pretendere che i produttori non possano disporre dei loro beni, il cui uso apparterrebbe allo Stato; ma anche questo è socialismo. In tal modo, oltretutto, il bene comune viene gravemente danneggiato in quanto s'innesca la spirale della recessione economica e quindi si fomentano disoccupazione e povertà.

Già negli anni Trenta Pio XI ammoniva che «non è lecito allo Stato di pesare tanto con imposte e tasse esorbitanti sulla proprietà privata fino al punto da condurla quasi allo stremo, poiché, derivando il diritto di proprietà privata non da legge umana ma dalla legge di natura, lo Stato nuon può annientarlo ma solo temperarne l'uso armonizzandolo col bene comune» (20).

Negli anni cinquanta Pio XII ammoniva che «lo Stato non può esagerare all'eccesso i carichi tributarii che giungano ad esaurire i leciti benefici della proprietà privata» (21): infatti «spesso imposte troppo pesanti opprimono l'iniziativa privata, frenano lo sviluppo dell'industria e del commercio, scoraggiano i volenterosi»; per contro è necessario «eliminare dalla legislazione certe disposizioni dannose ai veri interessi degli individui e delle famiglie, come pure al progresso normale del commercio e degli affari» (22).

Gli studiosi di morale economica ritengono che, anche volendo tener conto delle numerose funzioni organizzative che lo Stato ha preteso - bene o male - di accentrare, il prelievo fiscale globale non può superare un tetto massimo valutabile attorno al 30-35% (ossia circa un terzo) del prodotto interno lordo: e questo, si badi bene comprendendovi tutte le forme di tassazione, con annessi contributi sociali (23). Invece, come dimostrano le cifre, la pressione fiscale italiana ha ampiamente sfondato questo argine: attualmente infatti sfiora il 50% del prodotto interno lordo, ma sale addirittura al 59% se teniamo conto delle varie forme di tassazione occulta; vale a dire, è come se il cittadino lavori per il fisco dal primo gennaio al 4 agosto di ogni anno, e solo dopo possa faticare per il proprio guadagno (24).

Attualmente la spesa pubblica arriva a consumare i 3/5 dell'intero reddito nazionale; questo dimostra che ormai non si può più parlare di prelievo, ma semmai di saccheggio fiscale, e che siamo in mano ad un potere politico per il quale la ricchezza, soprattutto in quanto reddito,è una sorta di "peccato sociale originale" che, non potendo essere brutalmente eliminato con l'espropriazione, va perlomeno punito con le tasse. Orbene, questo modo di procedere, tipico di uno Stato socialista, non è moralmente accettabile: «la determinazione di una soglia comporta, nei responsabili della politica economica e nei gestori della cosa pubblica, il dovere di ridurre la pressione fiscale quando la si sia nettamente superata» (25). E in Italia, come abbiamo visto, questo livello di guardia è stato da molti anni abbondantemente superato!

Per quanto riguarda la seconda colonna della società, ossia la famiglia, lo Stato non può usare la pressione fiscale come mezzo per attuare una politica anti-familiare, che miri a ridurre la culla della società a mero servizio sociale o ad agenzia produttiva a vantaggio primario della collettività. In questo modo, infatti, è lo stesso bene comune ad essere compromesso, bene comune che si basa innanzitutto sulla prosperità delle famiglie. In particolare, la legislazione fiscale, mediante imposizioni esose, non può assolutamente:


- impedire la costituzione di nuovi nuclei familiari;

- impedire di ottenere i beni necessari ad una vita dignitosa;

- impedire di assicurarsi una casa;

- impedire il ruolo svolto dalla donna, come casalinga, moglie, madre;

- penalizzare la generazione e la cura dei figli, del loro numero ed educazione;

- disgregare l'unità del focolare, favorendo i "singoli" e le separazioni;

- penalizzare le eredità, che sono il patrimonio di famiglia;

- tassare i beni di prima necessità, magari favorendo invece quelli futili;

- far pagare il doppio quei servizi pubblici che, se privatizzati, costerebbero la metà.


Purtroppo, sappiamo bene che tutti questi abusi non solo esistono nella pratica fiscale attuale, ma ne regolano il funzionamento secondo una ben precisa strategia antifamiliare.

Oggi molto più di allora, risulta significativo l'ammonimento rivolto da Pio XII ai governanti: «Astenetevi da queste misure (fiscali) che, a dispetto della loro elaboratezza tecnica, urtano e feriscono nel popolo il senso del giusto e dell'ingiusto, o che rilegano la sua forza vitale, la sua legittima ambizione di raccogliere il frutto del suo lavoro, la sua cura della sicurezza familiare: tutte considerazioni, queste, che meritano di occupare nell'animo del legislatore, il primo posto anziché l'ultimo» (26).

Infine, un solo accenno alla terza colonna della società: la Religione, ossia concretamente la Chiesa. Appare infatti fin troppo evidente che lo Stato non può impedire né ostacolare quelle condizioni economiche e fiscali privilegiate che favoriscono l'azione ecclesiale; e non parliamo solo dell'opera caritatevole o assistenziale, che fa comodo all'autorità ma anche di quella strettamente religiosa e d'insegnamento, che provoca immensi benefici in favore della società. Di conseguenza, è chiaro che lo Stato non ha diritto di ostacolare la generosità con cui i contribuenti sovvengono ai bisogni della Chiesa, anzi dovrebbe facilitarla con esenzioni e riduzioni anche fiscali.

E' importante notare che l'eccessiva pressione fiscale, ben lungi dal favorire lo Stato e l'onesta contribuzione da parte dei cittadini, danneggia il primo e scoraggia la seconda. Al contrario, «la garanzia giuridica dei contribuenti rispetto al fisco mira a consolidare i sistemi di salvaguardia, indispensabili non solo al contribuente, ma allo Stato stesso, che rischia, se trascura queste garanzie, di demoralizzare gli individui e di incoraggiarli all'evasione delle imposte e alla frode» (27). E' infatti noto che, in questi ultimi vent'anni, la crescita della pressione fiscale ha fatto crescere parallelamente anche l'evasione, vista da alcuni come legittima difesa, da altri come un buon pretesto per non pagare nemmeno il dovuto. Non è quindi l'evasione che causa la pressione fiscale, ma semmai il contrario.

Del resto, ingiustizia chiama ingiustizia: il cattivo esempio dell'esosità dello Stato ha prodotto il cattivo risultato della tirchieria di certi contribuenti.

Può lo Stato usare qualsiasi mezzo per riscuotere le tasse? No. Anche nei metodi per ottenere o verificare la riscossione delle tasse lo Stato è sottomesso a norme etiche. In generale «il sistema di controllo e di vigilanza non dev'essere oppressivo, poliziesco. Lo Stato democratico, neppure per quanto concerne la materia tributaria, può adottare i metodi tipici di quelli totalitari», ma deve seguire metodi innanzitutto onesti e leali, e poi possibilmente anche civili e rispettosi (28). «Una legislazione e una prassi fiscale basate sul timore o sul terrore, sulla pignoleria nel ricercare ad ogni costo un'infrazione e punirla, contraddice al principio dei buoni rapporti tra cittadini e fisco» (29).

Ad esempio, nel valutare il reddito imponibile del contribuente, il fisco non può basarsi su criteri puramente presuntivi. «La giustizia postula che l'erogazione di natura finanziaria, che lo Stato richiede ai cittadini contribuenti, sia di fatto, e non soltanto presuntivamente, rapportata al reddito, alla capacità contributiva di ciascuno» (30). E' per questo che i metodi di valutazione puramente presuntiva sono moralmente scorretti; il famoso redditometro, ad esempio, può essere uno strumento utile per scoprire certi evasori, ma non può certo valere come criterio per valutare l'imponibile di cittadini sottoposti a controllo. Infatti «gli strumenti presuntivi potrebbero non essere conformi alla giustizia contributiva, qualora fossero non indicativi per le autorità fiscali ma vincolanti per i contribuenti. Ciò vale in particolare quando il contribuente autonomo è costretto dalla legge a versare comunque l'aliquota prefissata dai parametri, la quale sia superiore al reddito effettivamente realizzato. Il legislatore non può obbligare a pagare quanto esso presume, ma quanto di fatto, per giustizia, deve pagare il contribuente» (31).

In ogni caso, nel punire le evasioni fiscali, le sanzioni pecuniarie devono essere realmente proporzionate alla quantità di denaro evasa, e soprattutto devono colpire le vere evasioni, ossia le frodi tentate per furbizia. E' invece sleale, come spesso oggi si usa, accanirsi su semplici inesattezze o scorrettezze tecniche nella dichiarazione fiscale dovute a imperizia o ignoranza, errori difficili da evitare in un campo che proprio gli stessi legislatori fiscali hanno a bella posta trasformato in un labirinto difficile da percorrere e pieno di trabocchetti.


E' profondamente sleale che il fisco dapprima costringa il contribuente a orientarsi su un terreno nebbioso e minato, eppoi lo punisca per aver commesso falli ed errori quasi inevitabili!

Più in generale, la lotta all'evasione fiscale deve attenersi a criteri di equità ben precisi: nemmeno qui il fine può giustificare i mezzi. E' noto che la Sinistra, che vive dell'invadenza e dell'esosità statali, preme per organizzare la pubblica delazione degli evasori, o presunti tali. Ma questa soluzione demagogica provoca molti più danni e ingiustizie che risultati.

Con la delazione, infatti, «i cittadini si trasformerebbero in agenti di polizia tributaria, in funzionari del fisco, còmpito che istituzionalmente compete ad altri, non a loro. La proposta è da scartarsi anche per evidenti motivi sociali: tra i cittadini si scatenerebbe un meccanismo che alimenterebbe rivalità, odii, tensioni, diffidenza, sfiducia. Anche i rapporti umani e sociali verrebbero compromessi (...) Se la denuncia fiscale da parte dei singoli cittadini interessati all'operazione, in cui venga evasa l'imposta o alterato il prezzo, suscita alcune fondate riserve, molte di più ne suscita la delazione. Questa è una vera e propria forma di spionaggio fiscale, a danno di terzi con i quali non si è instaurato alcun rapporto immediato gravato di ipoteca fiscale. (...) Nessuno Stato democratico potrà autorizzare i privati cittadini allo spionaggio fiscale e alla delazione» (32).

Tali pratiche, infatti, servono solo ad aggravare l'oppressivo controllo socialista sull'economia della società, non certo a scovare e punire i veri evasori, che troveranno pur sempre una via d'uscita, né a risanare il deficit dello Stato, dovuto principalmente all'enormità delle spese pubbliche imposte dalle richieste avanzate verso un potere che, dovendo controllare tutto, deve anche accontentare tutti.

Note:

(1) Cfr. Eberhard Welty O.P. Catechismo sociale, Ed Paoline, Chieti 1966, vol II § 81.

(2) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1948.

(3) Cfr. G. Concetti O.F.M., Etica fiscale, Piemme, Casale Monferrato 1995, p.5 In linea di massima seguiamo le valutazioni espresse in questo recente studio del teologo moralista dell'Osservatore Romano, fra i pochissimi apparsi in campo cattolico.

(4) Cfr. ad es. La Ciudad Catòlica, El principio de subsidiariedad, Speiro, Madrid 1982.


(5) G. Concetti, op.cit, p. 17.

(6) J. Azpiazu S.J., L'uomo d'affari, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1953, p. 422.

(7) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1948.

(8) G. Concetti, op.cit, pp. 16-17.

(9) G. Concetti, op.cit, p. 67.

(10) J. Azpiazu, op. cit, p. 420.


(11) Mons. J. Messner, Etica social, Rialp, Madrid 1967, p. 338.

(12) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1956.


(13) J. Azpiazu, op. cit, p. 421.

(14) Giovanni XXIII, Enciclica Mater et magistra, n. 37.

(15) J.J. Moràn, La propriedad y el fisco, su "Verbo", n.187, p. 918.

(16) Mons. G.B. Guzzetti, La morale cattolica, vol. III, p. 3^, sez. 2, cap. 3.

(17) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1956.

(18) E. Welty, op. cit, p.232.

(19) E. Welty, op. cit, p.233.

(20) Pio XII, Enciclica Quadragesimo anno, n. 49.


(21) Pio XII, Discorso del 9 novembre 1957.

(22) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1956.

(23) G. Concetti, op.cit, p. 34.

(24) Cfr. ad es. A. Martino, Stato padrone. La schiavitù fiscale, Sperling & Kupfer, Milano 1997, pp. 23-40.

(25) G. Concetti, op.cit, p. 39.

(26) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1948.

(27) Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1956.

(28) G. Concetti, op.cit, p. 62.


(29) G. Concetti, op.cit, p. 88.

(30) G. Concetti, op.cit, p. 23.

(31) G. Concetti, op.cit, p. 82.

(32) G. Concetti, op.cit, pp. 89-90.

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