venerdì 7 ottobre 2011

DA SCOTO E SUAREZ A ROSMINI I PERICOLI DELLA FALSA METAFISICA

“Parvus error in principio est magnus in fine”
(parte prima)
(parte prima) - (parte seconda) - (parte terza)


 
L’ontologismo o l’immanentismo moderno, che vanno da Cartesio a Malebranche sino a Rosmini e Gioberti, mascherati da “spiritualismo cristiano”, sono una variante del soggettivismo cartesiano e del criticismo kantiano, i quali vengono presentati - soprattutto oggi - come la “nuova” filosofia “perenne”, che avrebbe rimpiazzato la “vecchia” metafisica classica platonico-aristotelica e tomistica nella parte di ‘ancilla theologiae’. Ebbene questa è un’assurdità, evidente per quanto riguarda Cartesio e Kant, più subdolamente nascosta per Malebranche e soprattutto Rosmini. Tuttavia non si sarebbe arrivati al rosminianesimo se non vi fosse stata l’involuzione della metafisica dell’essere tomistica con Scoto e Suarez, i quali aprono la via all’immanentismo e soggettivismo della modernità, pur non essendo in sé immanentisti e soggettivisti in maniera esplicita. Questo breve saggio vuole far capire il pericolo che si corre quando ci si allontana dalla metafisica dell’essere tomistica e ci si abbevera a fonti non ancora avvelenate, ma senza dubbio inquinate e torbide quali sono lo scotismo e il suarezismo, che possono condurre all’avvelenamento.
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I Parte
 Introduzione allo scotismo
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La vita
Personalmente Duns Scoto (+ 1308) fu un uomo di Dio, un vero mistico, un gran mariologo, specialmente per quanto riguarda la ‘Immacolata Concezione’ di Maria, la sua ‘Corredenzione’ secondaria e subordinata a quella di Cristo e la di lei ‘Mediazione universale’ di ogni grazia[1].  
La dottrina scotista
Tuttavia, dal punto di vista strettamente filosofico e più specificatamente metafisico, la dottrina scotista è “alternativa a quella di S. Tommaso, […] più oscura, […] meno ordinata e sistematica”[2]. Le sue opere più famose sono i tre Commentari al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Di questi tre commenti il più importante è il primo o Opus oxoniense[3]. Purtroppo nel 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier condannò 219 proposizioni che, secondo lui, avrebbero riassunto la dottrina di S. Tommaso d’Aquino, confusa dal Tempier con il razionalismo di Sigieri di Brabante (+ 1284). La censura metteva in netta contrapposizione filosofia e teologia, ragione e fede[4] e condannava come cattive la filosofia e la ragione naturale per affermare la validità della sola Rivelazione soprannaturale e della teologia. Una sorta di fideismo o “tradizionalismo francese” ante litteram. Assieme a Sigieri di Brabante (una regione divisa attualmente in due parti di cui una appartenente al Belgio e l’altra ai Paesi Bassi) veniva condannato il razionalismo di Avicenna (+ 1037) ed Averroè (+ 1198) e si confondeva l’aristotelismo interpretato in maniera razionalista da questi due pensatori arabi con la metafisica aristotelica e soprattutto tomistica. Il pensiero di S. Tommaso fu frainteso da Stefano Tempier ed accomunato, ingiustamente, a quello di Averroè ed Avicenna.  
Partecipazione, causalità e analogia
L’Angelico distingue nell’ente finito o creato l’essenza che ha o riceve l’essere. Mentre l’Ente infinito o increato, che è Dio, è un Essenza che è il suo stesso Essere. Ogni ente creato riceve o partecipa l’essere da Dio.
Da questa prima distinzione reale di essenza ed essere negli enti creati, l’Aquinate arriva alla nozione di causalità[5] (Dio è incausato e Causa prima di ogni ente finito) e al concetto di partecipazione: Dio è partecipato da tutti gli enti, i quali sono partecipanti o effetti di Dio. L’ente finito o causato riceve, ha o partecipa in maniera limitata l’essere da Dio che è incausato. Come ogni effetto anche l’ente creato partecipa alla Causa che è Dio, ossia possiede, ha o riceve solo un effetto dell’Essere infinito (“partem-capere, ricevere una parte”), che è la Causa prima incausata[6].
Partecipazione, causalità e analogia si richiamano a vicenda. Infatti l’analogia entis dice somiglianza relativa e dissomiglianza sostanziale tra causa ed effetto, partecipato e partecipante, Creatore e creature. L’analogia tomistica riprende la distinzione tra analogia di proporzionalità[7], che è di derivazione aristotelica, ed è piuttosto orizzontale in quanto mostra la composizione nella struttura dell’ente, l’ente è composto in ens ab alio ed Ens a se, ossia l’ente la cui essenza è distinta dall’essere e l’Ente la cui Essenza è l’Essere stesso. Il concetto analogo di essere è predicato degli analogati simili solo relativamente al fatto di esistere, ma essenzialmente diversi nella loro sostanza. Per esempio Dio, l’angelo, l’uomo, la bestia, la pianta e il minerale sono simili quanto al fatto di essere/esistere ma la loro sostanza è totalmente diversa. Questa è la composizione nella struttura orizzontale dell’ente. Il Dottore Comune riprende anche il concetto di analogia di attribuzione[8] che è tipicamente platonico ed è piuttosto verticale, in quanto mostra la dipendenza dell’ente dall’essere. In senso stretto l’analogia di attribuzione riguarda un concetto analogo (per esempio la salute) che è predicato di un analogato principale (per es. l’uomo) intrinsecamente e formalmente. Ossia l’uomo è formalmente e in se stesso sano (attribuzione intrinseca). Mentre il concetto analogo è attribuito agli analogati secondari (colorito, passeggiata, clima, bistecca, urina) solo estrinsecamente, cioè la bistecca… non sono sani in se stessi e formalmente, ma la salute è predicata di loro in quanto sono effetto, segno, causa, mantenimento, analisi di essa (attribuzione estrinseca)[9]. Tuttavia per quanto riguarda l’essere l’analogia di attribuzione è chiamata anche analogia mista, ossia l’essere è formalmente in Dio, che lo causa nelle creature, le quali hanno l’essere in maniera limitata e finita, ma intrinsecamente e formalmente (l’angelo, l’uomo, la bestia, l’albero e il minerale) sono enti o hanno l’essere in maniera finita, ma realmente, formalmente, intrinsecamente[10] e non solo per attribuzione estrinseca. Perciò il concetto analogo di essere si trova nell’analogato principale (Dio) formalmente, intrinsecamente ed eminentemente (Dio è l’Essere sommo o a se), mentre esso si trova negli analogati secondari (enti creati) per partecipazione e in maniera limitata o ab alio. Gli enti creati hanno, ricevono o partecipano l’essere in maniera finita, ma reale, intrinseca e formale, però non eminentemente.
L’oblio della distinzione reale di essenza ed essere nelle creature (v. Scoto e Suarez) porta a dimenticare l’essere come atto ultimo e perfezione di ogni essenza, per focalizzare solo l’essenza dell’ente finito, che senza l’essere partecipato ab alio, ha fatto giungere la speculazione filosofica sino alla modernità (essenza umana scissa da Dio, il “panteismo immanentistico”) e al nichilismo della post-modernità (ente umano contro Dio, la “morte di Dio”). Invece l’essere come atto ultimo di ogni essenza e perfezione ci aiuta a cogliere e a parlare sulla verità oggettiva e reale di Dio, l’Essere stesso per sua essenza, il quale si è definito “Io sono colui che è ” (Ex., III, 14).  
Fede e ragione secondo Scoto
Siccome Scoto aveva iniziato a studiare alla Sorbona di Parigi verso il 1280, quasi quando uscì la condanna del Tempier (1277), ne fu influenzato enormemente e si formò in uno spirito eccessivamente anti-filosofico, come se la ragione e la filosofia fossero cattive in sé e non solo imperfette e perfezionabili dalla teologia e dalla Rivelazione. Perciò il sistema scotista fu un’antifilosofia, una ‘sola theologia’, una reductio philosophiae in theologiam ed un anti-tomismo radicale, avendo frainteso la vera dottrina tomistica. Quindi, mentre la metafisica tomistica è opera della ragione naturale, come deve essere la filosofia, ma conforme alla Fede, poiché non esiste una “doppia verità”: una di ragione e una di Fede, contrarie ma entrambe vere, la dottrina filosofica di Scoto, invece, è assorbita dalla Rivelazione quanto alla sostanza, anche se quanto al modo è rigorosamente ‘logica formalmente’, facendo una certa commistione e confusione tra ragione e Fede, filosofia e teologia, le quali invece sono distinte ma non contraddittorie.  
La ragione quasi distrutta dal peccato originale
La ragione per il Dottor Sottile dopo il peccato originale è talmente guasta, che può filosofare correttamente solo se sottomessa alla Rivelazione. Invece la dottrina comune cattolica insegna che il peccato adamitico ha ferito l’uomo, ma non ha distrutto le sue facoltà naturali. Quindi la ragione può riuscire da sé a conoscere la realtà e cogliere la verità naturalmente accessibile, senza dover necessariamente essere aiutata intrinsecamente dalla Rivelazione, la quale gioca un ruolo ausiliario estrinseco alla filosofia, come il paracarro di una via aiuta l’automobile a non uscire fuori strada, o come la soluzione riportata alla fine del problema di matematica aiuta lo studente a vedere se nello svolgere il suo compito ha errato o ha colto la verità. Se il professore suggerisse ogni passo del problema allo studente, questi non imparerebbe mai la scienza matematica (al massimo la “crederebbe”) e la sua intelligenza si atrofizzerebbe, e se la guida dell’auto fosse lasciata dall’autista al paracarro, l’automobile non si sposterebbe di un passo. Certamente le circostanze storiche della condanna di S. Tommaso da parte del Tempier hanno influito sullo scotismo, portandolo ad un eccessiva svalutazione della ragione e della filosofia, ad un’erronea comprensione del tomismo, alla confusione di quest’ultimo col razionalismo di Sigieri, Avicenna ed Averroè e quindi ad una falsa lettura dell’aristotelismo concepito in totale contraddizione metafisica colla Fede e del quale si salva solo la ‘logica formale’ o le regole di ragionare correttamente.
Per S. Tommaso[11] la metafisica e la ragione umana non possono conoscere tutta la realtà e verità, poiché esiste una realtà soprannaturale e una verità che supera la capacità della ragione naturale. Quindi la filosofia da sola non basta a conoscere tutto, però può conoscere realmente le sostanze della realtà naturale. La teologia è scienza di Dio: Dio rivelante e rivelato è il suo oggetto. La filosofia ha per oggetto l’esse ut actus omnium formarum, ossia l’ente, che è un’essenza finita habens esse per participationem[12], e come termine arriva all’Essere stesso sussistente, risalendo dagli effetti alla Causa. Ma il Dio della filosofia è solo l’Autore della natura e non è il Dio rivelante e rivelato o Deus sub ratione Deitatis, ossia conosciuto nei suoi Misteri o nella sua Natura intima (Trinità…). Per Scoto, invece, la filosofia non può nulla e tutto si risolve in teologia: «Scoto pensa che il filosofo, […] giungerà fatalmente a risultati intrinsecamente inaccettabili»[13]. Per questo scrive il padre francescano Efrem Bettoni: «Duns Scoto diffida di una filosofia pura o separata [dalla teologia] ed è sempre attento a denunciarne non solo i limiti, ma anche gli inevitabili errori»[14]. Secondo padre Bettoni, Scoto ritiene che «ogni filosofia, la quale si fonda sulle risorse della ragione umana [ha] dei limiti insuperabili […], nella concreta situazione in cui è venuta a trovarsi in conseguenza del peccato originale»[15]. Etienne Gilson dal canto suo ammette che «Scoto prepara l’affacciarsi delle filosofie moderne e la sua dottrina è una spiegazione della loro esistenza»[16].  
L’oggetto della metafisica scotistica[17]
Qual è l’oggetto proprio dell’intelletto umano? Per S. Tommaso[18] è l’ente e quindi anche “l’essenza intelligibile della cosa sensibile”, poiché l’uomo è composto di anima e corpo e nihil est in intellectu nisi prius non fuerit in sensu; niente si trova nell’intelletto se prima non sia passato attraverso i sensi. Ossia l’intelletto agente astrae una specie intelligibile dall’immagine sensibile presente nella nostra fantasia e proveniente da un’immagine impressa nei sensi esterni da un oggetto reale ed extramentale. Scoto[19], invece, rigetta la dottrina tomistica sulla conoscenza umana ed insegna che l’oggetto proprio e primario dell’intelletto umano è l’essere in genere o universale, l’essere nella sua totalità [20]. Mentre per S. Tommaso[21] l’uomo conosce anche mediante l’astrazione di idee razionali da immagini sensibili perché è naturalmente composto di anima e corpo[22]. La dottrina del Dottor Sottile[23], perciò,  può portare all’errore (che Scoto non ha esplicitato) secondo cui anche Dio e l’Angelo, siccome sono enti, possono essere conosciuti naturalmente per sé e direttamente dall’intelletto umano (ontologismo), senza un sillogismo o dimostrazione che risale dall’effetto alla Causa per quanto riguarda Dio o con un argomento di pura convenienza per quanto riguarda gli Angeli (conviene che tra Dio ‘Atto puro’ e l’uomo, composto di materia e forma o ‘atto misto’, vi sia una forma senza materia, ma non pura da ogni potenza, bensì composta di atto e potenza, che è l’Angelo)[24]. Padre Efrem Bettoni riconosce che se l’oggetto proprio dell’intelletto umano è l’essere nella sua totalità «l’intelligibilità coincide con la realtà e nessun essere, sia pure l’Essere immateriale per eccellenza, l’Essere divino, è, in linea di diritto, escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo»[25].
È per questo motivo che padre Efrem Bettoni scrive: «Questa è la ragione per cui molti storici del pensiero del medioevo si sentirono autorizzati a vedere in Duns Scoto il primo responsabile della decadenza della scolastica»[26]. Mentre S. Tommaso nella sua metafisica si basa sul concetto forte e intensivo di essere (esse ut actus) come atto ultimo di ogni essenza e perfezione di ogni perfezione, Scoto si basa sul concetto debole di essere (esse commune seu in genere; l’essere comune o generale)[27].
 
Debolezza della ‘teologia naturale’ scotista
Da tutto ciò segue la debolezza della “teologia naturale” o teodicea scotista, che non riesce, come invece S. Tommaso (S. Th., I, q. 2, a. 3), a provare positivamente l’esistenza e la conoscenza di qualche attributo di Dio mediante l’analogia dell’essere[28]; anzi Scoto mette eccessivamente in rilievo la Trascendenza di Dio così da renderlo assolutamente inaccessibile alla ragione umana. Ora il Concilio Vaticano I (sess. III, can, 2) ha definito di Fede divina e cattolica che “la ragione umana può dimostrare con certezza l’esistenza di Dio mediante un ragionamento, che risale dalle creature o effetti al Creatore o Causa”. In breve la Chiesa ha canonizzato le “cinque vie” di S. Tommaso, che provano l’esistenza di Dio, come si trova anche rivelato nella Sapienza, cap. XIII, e in San Paolo, Rom., cap. I.
 
Volontarismo scotista
D’altro canto «Scoto ritiene che l’uomo non può vedere naturalmente l’essenza di Dio a causa di un decreto della Volontà divina. Infatti per Scoto Dio avrebbe potuto volere che l’intelligenza umana potesse vederlo naturalmente e che il Lumen gloriae e la Visio beatifica fossero una proprietà della nostra natura, ma di fatto Dio non l’ha voluto. Così la distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale sarebbe contingente e si fonderebbe sopra un libero decreto di Dio (cfr. D. Scotus, In Ium Sent., dist. 3, q. 3, nn. 24-25)»[29]. Anche il francescano padre Efrem Bettoni ammette: «La dimostrazione [scotista su Dio] farà capo, invece che all’esistenza, alla possibilità dell’Essere in-causabile. […] Scoto lascia S. Tommaso per proseguire in compagnia di S. Anselmo: se un Essere in-causabile è possibile […], dobbiamo concludere che esiste di fatto»[30]. Inoltre per la concezione volontaristica di Scoto «la volontà dell’uomo non è necessitata da nessun oggetto, neppure dalla Beatitudine, che è un bene senza difetti»[31]. Sempre volontaristicamente Scoto scrive che “è bene ciò che Dio vuole e comanda”[32].
 
Desiderio naturale di Dio secondo Scoto
Infine, secondo Scoto, «c’è nell’anima nostra un appetito innato e naturale della Visione beatifica (cfr. D. Scotus, Prologus Sent., q. 1, In IVum Sent., dist. 49, q. 10). Un residuo di questa dottrina scotista peggiorata si trova nella potenza obbedienziale attiva di Suarez (cfr. F. Suarez, De gratia, Lib. VI, cap. 5)»[33]. La dottrina tomista[34], insegna, invece, che l’appetito naturale della Visione beatifica è inefficace da parte dell’uomo e condizionato da parte di Dio, ossia se Dio vuole liberamente chiamare l’uomo alla Grazia santificante e alla Gloria del Cielo tramite la Visione beatifica, allora l’uomo può giungervi non con le sue forze naturali, infinitamente sproporzionate all’ordine soprannaturale, ma solamente aiutato dalla mozione soprannaturale di Dio. Questa dottrina è stata ripresa dal Magistero ecclesiastico già nella condanna (1567) da parte di San Pio V di Michele Bajo, che parlava di esigenza naturale della Grazia, la quale sarebbe dovuta e non gratuita (DB, 1001-1080), poi nella condanna del modernismo (S. Pio X, Pascendi, 1907) e infine del neo-modernismo (Pio XII, Humani generis, 1950) e specialmente del libro Le surnaturel di padre Henry de Lubac del 1946 (v. sì sì no no, 30 novembre 2009, pp. 1-4), che riprendeva la tesi scotista e suareziana sulla potenza obbedienziale non passiva, ma in atto imperfetto. Inoltre il concetto scotista di desiderio naturale della Visione beatifica[35] e il concetto suareziano di potenza obbedienziale attiva sono contraddittori nei termini. Infatti essi sarebbero nello stesso tempo essenzialmente naturali e soprannaturali. Quod repugnat, per il principio di non-contraddizione. Quindi la potenza obbedienziale è puramente passiva e giunge all’atto solo se mossa da Dio (“ens in potentia non reducitur ad actum nisi per ens in actu; l’ente in potenza passa all’atto solo per mezzo di un ente già in atto”; “omne quod movetur ab alio movetur; tutto ciò che si muove è mosso da un altro”)[36]. Da tale errore filosofico, oltre Bajo, i modernisti e i neo-modernisti, anche Antonio Rosmini (v. sì sì no no, 15 ottobre 2009, pp. 1-5 e 15 giugno 2011, pp. 1-6) ha tratto delle conclusioni dogmaticamente erronee. Per esempio Rosmini pensava che l’uomo con la ragione naturale può dimostrare positivamente la possibilità della SS. Trinità (e non solo la sua non-ripugnanza o non-impossibilità). Invece il Magistero ha definito che ciò che è essenzialmente soprannaturale non può essere dimostrato naturalmente. Infatti i Misteri soprannaturali quanto alla sostanza superano infinitamente la capacità dei princìpi della ragione naturale (DB, 1816 e 1795).
 
L’univocità dell’ente secondo Scoto
«Scoto si discosta nettamente dall’intera tradizione metafisica sia classica che scolastica quando sostiene che quello di ente non è un concetto analogo ma univoco»[37]. Padre Bettoni scrive: «I concetti univoci sono lo strumento logico, che mette l’intelletto umano in condizioni di […] conoscere l’essere nella sua totalità»[38].
“Il principio da cui Scoto prese le mosse per negare la distinzione reale tra essenza ed essere[39] è l’univocità dell’essere”[40]. Scoto intende l’essere come essere comune o generale e indeterminato, che sta alla base di ogni ulteriore determinazione; esso è predicabile di tutto ciò che è, quindi di Dio come di tutte le creature, dall’Angelo alla pietra. Esso è anche univoco: “esse est unius rationis, l’essere ha un solo significato” ed “è predicato allo stesso modo di ogni cosa; ens dicitur per unam rationem de omnibus de quibus praedicatur”. Scoto «tende ad ammettere, anzi ammette un certa univocità fra Dio e le creature (Opus oxoniense, I, dist., 3, q. 2, n. 5 ss; dist. 5, q. 1; dist. 8, q. 3)»[41], mentre S. Tommaso ha come oggetto della sua metafisica l’esse ut actus omnium formarum[42], inteso come perfezione massima, determinata e determinante, specifica. L’Esse ha un primato ontologico sull’ente, che è un’essenza la quale ha l’esse ut actus, cioè che l’attua e la rende ente realmente esistente. S. Tommaso studia l’ente, ma sempre in rapporto alla sua perfezione, l’essere: quindi studia l’esse intensivo e non comune o indeterminato, ossia come atto ultimo dell’essenza. L’essere tomistico supera e perfeziona originariamente e ultimamente l’essenza. In ciò l’Aquinate supera lo Stagirita. Certamente il primo concetto che ci formiamo è l’essere comune o universale dell’ente[43]. Ma l’Angelico ha capito subito che quest’essere comune e universale è un concetto vago e indeterminato, che abbraccia tutti gli enti e non dà loro la perfezione ultima. Quindi l’Aquinate scruta a fondo l’esse dell’ens e vede che vi è l’esse come atto ultimo, il quale, a differenza dell’esse commune, ha un valore intensivo e una perfezione, che supera tutte le altre perfezioni, forme, essenze, sostanze ed enti. L’esse ut actus è l’actualitas omnium actuum, è la più perfetta di tutte le cose [44]; l’essere come atto, e non quello comune, è veramente la perfezione ultima e la radice di ogni altra perfezione. Scoto, invece, mette al centro del suo pensiero l’esse commune seu in genere[45], ossia una perfezione minima, indeterminata, universale e generale o comune a tutte le cose. Ora l’essere comune è condiviso da tutti gli enti, da Dio sino al minerale, e quindi l’errore filosofico scotista può aprire le porte al monismo panteista, mentre la metafisica tomistica dell’essere come atto ultimo di ogni perfezione le sbarra inequivocabilmente.
 
Dimostrazione scotista dell’esistenza di Dio[46]
Scoto definisce Dio come Ente infinito in atto[47]. Ma, «pur cercando di costruire una prova rigorosamente razionale, il contesto in cui Scoto si colloca è quello religioso: Dio è già pienamente riconosciuto in tutta la sua grandezza […] sul piano della Fede. Così l’esordio del De principio di Scoto[48] presenta molte analogie con quello del Proslogion di S. Anselmo»[49]. La prova scotista è o vuol essere una rielaborazione scientifica o strettamente filosofica della conferenza di spiritualità di S. Anselmo ai suoi monaci contenuta nel Proslogion e chiamata “prova ontologica”, poiché dall’idea dell’Essere perfettissimo, cui nulla può mancare (neppure l’essere), si risale alla Sua esistenza reale. I filosofi e S. Tommaso in primis hanno obiettato che non è valido il passaggio dall’idea alla realtà (passaggio su cui si fonda la filosofia di Rosmini dell’idea di essere) e che inoltre l’uomo, il quale ha idee e concetti finiti e limitati, non può avere come punto di partenza un’idea (la quale coglie l’essenza della res) di Dio che è Ente infinito[50]. Quindi si può arrivare all’esistenza di Dio e alla conoscenza di qualche sua proprietà, e non della sua Essenza, solo per un ragionamento che risale dagli effetti alla Causa. Scoto, però contrappone filosofia e teologia[51], ragione e Fede. Ora la ragione umana possiede dell’in-finito solo un concetto negativo (come di ciò che è ‘non-limitato’) e perciò non può dire nulla di positivo sull’esistenza di Dio e sui suoi attributi o qualità, ma solo che Egli è in-finito o non-limitato.
 
Apofatismo scotista
La prova dell’esistenza di Dio in Scoto, quindi, rischia di far scivolare verso l’apofatismo maimonideo o il nichilismo teologico[52] (v. sì sì no no, 31 gennaio 2010, pp. 1-4): nulla si sa su Dio, tranne che Egli è l’In-finito. Per sapere qualcosa di positivamente più consistente su Dio, occorre la Rivelazione e la Fede[53]. Inoltre Scoto nega la possibilità di provare razionalmente l’immortalità dell’anima[54]. Infine Scoto, come poi Francisco Suarez (v. sì sì no no, 15 febbraio 2011, pp. 1-5), «si rifiuta di ammettere la distinzione reale tra essenza ed esistenza, tranne che in Dio»[55]. Scoto riprende da Avicenna la concezione della non-distinzione reale tra essenza ed essere nelle creature e con tale teoria prelude a Suarez e alle involuzioni antimetafisiche della modernità[56]. Secondo Gilson - che è stato uno dei più grandi studiosi dal punto di vista storico/filosofico della filosofia medievale[57] e di Scoto - lo scotismo è il diffusore di una metafisica dell’essenza, che segna un ritorno ad Aristotele ed un’involuzione rispetto alla metafisica dell’esse ut actus di S. Tommaso, la quale dà il primato all’essere; una metafisica “agli antipodi di quella del primato dell’esse come era quella di S. Tommaso d’Aquino”[58]. Gilson ha colto bene l’essenzialismo o il ritorno alla metafisica della sostanza o dell’essenza di Aristotele da parte di Scoto e l’abbandono dell’ascesa tomistica alle vette della metafisica come filosofia dell’esse quale “perfezione suprema di ogni perfezione, atto ultimo di ogni atto, essere ultimo di ogni essenza e forma”. Tutto ciò a partire dalla negazione scotista della distinzione reale tra essenza ed essere nelle creature, dichiarata da S. Tommaso, come insegna anche la XXIII Tesi del tomismo: “L’Essenza di Dio è identica al Suo Essere, cioè Dio è lo stesso Essere per Sé Sussistente”[59].
 
Beatificazione di Scoto ma non dello scotismo
Per quanto riguarda la beatificazione di Scoto, avvenuta nel 1991, Gilson nel 1953, dopo aver concluso la sua opera di oltre ottocento pagine su Scoto, scriveva: “Si riuscirà a far beatificare Scoto, nella misura in cui non vorranno cercar di far canonizzare anche lo scotismo o la dottrina dell’uomo Duns Scoto”[60]. Infatti già nel 1920 la ‘Congregazione dei Riti’ aveva respinto la Positio super scriptis presentata dal Postulatore generale della causa di beatificazione di Duns Scoto[61]. Scoto come uomo è stato un vero cristiano ed ha sviluppato la vita della Grazia pienamente, ma come filosofo ha partorito una dottrina lontana dalla realtà e dalla verità, anche se come teologo non ha errato esplicitamente nella Fede. Gilson concludeva: “Giacché devo scegliere tra l’ens ut ens senza l’esse e l’ens come essentia habens esse, scelgo quest’ultimo. Lo scotismo è una posizione dottrinale in opposizione alla vera metafisica dell’essere di S. Tommaso. Resto contrario alla metafisica scotistica dell’essere universale. […]. Sentiendum est de theologia Scoti, sicut sentit Romana Ecclesia”[62]. Ora la Chiesa, come vedremo oltre, ha approvato ufficialmente e magisterialmente le ‘XXIV Tesi del Tomismo’.
 
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Considerazioni conclusive su Scoto
Scoto con il suo volontarismo, il suo criticismo, il suo fideismo, «si trova a cavallo tra la grande scolastica e quella decadente, spalanca le porte alla ‘via moderna’»[63]. Secondo Van Steenberghen Scoto apre le porte sia al nominalismo di Occam (+ 1350)[64] sia al falso misticismo apofatico di Eckhart (+ 1327)[65]. Il padre francescano Efrem Bettoni valuta criticamente e severamente lo scotismo: «Scoto [ha] l’onore di essere considerato il Dottore più rappresentativo della scuola francescana. In cambio però i punti deboli e i compromessi del suo sistema […], oggi rendono molti studiosi assai perplessi sull’intrinseca coerenza e solidità del suo pensiero. Scoto più che insegnare, incita a pensare»[66].
Perciò se vogliamo veramente e non solo verbalmente sentire cum Ecclesia dobbiamo ire ad Thomam, non a Scoto e Suarez, e volgere le spalle a Rosmini. «Molti teologi quando giungeranno all’altro mondo, si renderanno conto di aver disconosciuto il valore della grazia fatta da Dio alla sua Chiesa dandole il Doctor Communis»[67].
  
d. CURZIO NITOGLIA
4 ottobre 2011


[1] Cfr. R. Zavalloni – E. Mariani, La dottrina mariologica di G. Duns Scoto, Roma, 1987; cfr. sì sì no no, 30 settembre 2011, pp. 1-8.  
[2] B. Mondin, Storia della metafisica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1998, II vol., p. 664.
 [4] S. Tommaso d’Aquino, C. G., I, 3 e 7; S. Th., I-II, q. 2, a. 4; De Ver., q. 14, a. 10. Contro cui, Duns Scotus, Opus ox., Prol., q. 3, a. 8, n. 25.
[5] Per il concetto di “causalità” in San Tommaso d’Aquino v. S. Th., I, q. 14, a. 8; ivi, q. 19, a. 4; q. 44; q. 65, a. 3; II-II, q. 9, a. 2; ivi, q. 45, a. 1; q. 46, a. 2; III, q. 7, a. 1; II Phys., lect. X, n. 240; I Sent., d. 18, q. 1, a. 5; IV Sent., d. 3, q. 1, a. 1, sol. 1; De Pot., q. 5, a. 1.
[6] Per la nozione di “partecipazione” in San Tommaso v. In Johann., Prol., n. 5.
[7] Per l’analogia di proporzionalità in san Tommaso v. S. Th., I, q. 13, a. 5 e 10.
[8] Per l’analogia di attribuzione in s. Tommaso v. S. Th., I, q. 5, a. 6; ivi, I-II, q. 61, a. 1; q. 88, a.1.
[9] Cfr. S. Th., I, q. 13, a. 10, ad 4.
[10] Cfr. S. Th, I, q. 13, a. 6, ad 3.
[11] S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2um.
[12] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 37, q. 1, a. 1, sol.; S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; I, q. 5, a. 1, ad 1; I, q. 29, a. 2; C. Gent., II, 15.
[13] B. Mondin, cit., p. 672.
[14] E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano, Vita e Pensiero, 1966, p. 35.
[15] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia” del ‘Centro di Studi Filosofici di Gallarate’, II ed., Roma, Lucarini, 1982, VII vol., col. 526.
[16] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947.
[17] S. Tommaso d’Aquino, De Pot., q. 7, a. 2, ad 9; C. G., I, 26;
[18] S. Th., I, q. 84, a. 7.
[19] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, Prol. q. I, art. 1., ibidem, I, d. 3, p. 1, n. 113; In Ium Sent., dist. 3, q. 5.
[20] D. Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, n. 126, 137 e 186.
[21] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 80, 82-83; De Malo, qq. 3 e 6; De Ver., q. 22.
[22] S. Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 85, a. 1; De Anima, 4; Quodl., VIII, q. 2, a. 2. Al contrario, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 6, n. 2, 5, 8, 9-14.
[23] D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 3, a. 1, n. 2, 4 e 7.
[24] S. Tommaso d’Aquino, De spirit. creat., S. Th., I, qq. 54-64, 98-103; Comp. Theologiae, cap. 73-78.
[25] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 526.
[26] E. Bettoni, cit., p. 44.
[27] D. Scotus, Opus oxoniense, II, d. 3, q. 1, n. 8-9.
[28] Cfr. T. Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Bologna, ESD, 1991; rist., Verona, Fede & Cultura, 2009; S. Tommaso d’Aquino, S. Th. .I, q. 3, a. 1, ad 3; I. Sent., d. 19, q. 5, a. 2, ad 1; ivi, d. 8, a. 1, ad 4.
[29] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 89.
[30] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 529. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 2, q. 2, n. 11 e 16.
[31] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932, p. 41.
[32] D. Scotus, Reportatio parisiensia, IV, dist. 28 (“Voluntas divina est causa boni et ideo eo ipso quod Deus vult aliquod, ipsum est bonum”); cfr. Opus oxoniense, 3, dist., 37.
[33] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, pp. 92-93.
[34] S. Th., I, q. 12, a. 1.
[35] S. Tommaso d’Aquino, C. Gent, III, 26; S. Th., I-II, q. 62, a. 1; III Sent., d. 27, q. 2, a. 2, ivi, d. 33, q. 1, a. 2, sol.; De Ver., q. 28, a. 8, ad 2.
[36] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, cit., pp. 91-94; Id., L’appetit  naturel et la puissance obédientielle, in “Revue thomiste”, n. 35, 1928, pp. 474-478; P. Parente, voce ‘Desiderio di Dio’, in “Dizionario di teologia dommatica”, Roma, Studium, 1947.
[37] B. Mondin, cit., p. 676. Cfr. D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 3, p. 1, n. 26; ib., I, d. 3, q. 2, n. 5-6, 8, 10; ib., I, d. 3, q. 3, n. 6, 8-9, 12; ib., I, dist., 8, q., 3.
[38] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 527. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 7, n. 20 e 26; Id., Quaestiones in Metaph., l. VII, q. 18, n. 11
[39] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 19, q. 2, a. 2; De Ver., q. 27, a. 1, ad 8.
[40] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, cit., pp. 64-65.
[41] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 94.
[42] S. Tommaso d’Aquino, III Sent., d. 6, a. 2; C. Gent., I, 12; S. Th., I, q. 3, a. 4, ad 2. Invece, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 7; Op. ox., d. 3, q. 4, ibidem, I, d. 39, q. unica, n. 13, ib, IV, d. 43, q. 2, n. 10.
[43] De ente et essentia, cap. VI.
[44] De pot., VII, 2, ad 9; De ente et essentia, cap. VI; De pot., II, 2, ad 9; In I Sent., XVII, 1, 2, ad 3; C. G., III, 56; In I Sent., XIX, 2, 2; C. G, I, 36; S. Th., I, q. 7, a. 1; Quodl., XII, 5, 1; S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3. Invece, D. Scotus, Op. ox., d. 3, q. 2, n. 24; ib., I, d. 3q. 3, n. 8, 12, 24.
[45] D. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 6, n. 17; Quaest. in Metaph., Prologo, n. 5 e 9; Q. in Metaph., lib. II, q. 3, n. 22; ibid., lib. IV, q. 1, n. 5.
[46] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 2, a. 3.
[47] d. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 2, n. 5; ib., I, d. 3, q. 2, n. 6-17; ib., I, d. 2, n. 43, 53, 57-58, 71-73, 118, 130-133, 136, 147.
[48] D. Scotus, De primo principio, I, 1; III, 42; IV, 80; IV, 155.
[49] B. Mondin, cit., p. 682.
[50] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 7, aa 1-2.
[51] S. Tommaso  d’Aquino, S. Th., I, q. 1; I Sent., Prol, aa. 1-5; De Trin., q. 2, aa. 1-3; C. G., I, 3-8; Quodl., IV, q. 9, a. 3; De Pot., q. 9, a. 5.
[52] Contro cui cfr. S. Tommaso d’Aquino, In De Trin., q. 1, a. 2, ad 1; De Pot., q. 7, a. 5, ad 13 e 14; I Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4.
[53] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 2, p. 1, q. 1; q. 2, n. 43; ivi, nn. 111-113 e 125; ivi, nn. 130-131 e 137; De primo principio, IV, nn. 134-135.
[54] D. Scotus, Opera omnia, Ed. Vivès, vol. XIII, p. 66; vol. XIII, p. 79; vol. XX, p. 26; vol. XXIV, p. 499; Opus ox., II, d. 17, q. 1, n. 3. Cfr. M. Cordovani, Il Salvatore, Roma, Studium, II ed., 1946, p. 399. S. Tommaso invece la prova nel suo De anima, XIV, ad 16 e ad 18; C. G, II, 55 e 79; S. Th., I, , q. 75, a. 6; ivi, q. 104, a. 4.
[55] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 88.
[56] Cfr. E. Gilson, L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, pp. 119-131.
[57] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947. Cfr. il magistrale articolo di padre G. Perini, Thomae doctrinam Ecclesia suam fecit, in Aa. Vv., L’Enciclica “Aeterni Patris” nell’arco di un secolo, vol. I degli “Atti dell’VIII Congresso Tomistico internazionale”, Città del Vaticano, 1981, pp., 89-121.
[58] E. Gilson, L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, p. 122.
[59] Cfr. E. Gilson, Giovanni Duns Scoto (1952), tr. it., Milano, Jaca Book, 2008, pp. 222-227.
[60] L. K. Shook, Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991,  p. 143.
[61] Cfr. P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, cit., p. 80.
[62] Cfr. L. K. Shook, Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991,  p. 451.
[63] B. Mondin, cit., p. 698.
[64] Cfr. C. Giacon, Occam, Brescia, La Scuola, 1945.
[65] F. Van Steenberghen – A. Forest – M. De Gandillac, Il movimento dottrinale nei secoli IX-XIV, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche – V. Martin, Milano, Siaie, vol. XIII,  p. 496.
[66] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 531.
[67] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, cit., p. 410.
Chi volesse approfondire il tema dello scotismo può consultare:
C. Balic, “La scolastica post-tomistica: Giovanni Duns Scoto”, in Grande Antologia filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. IV, p. 1349; Id., voce “Scotismo”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1953, vol. XI, coll. 151-162; G. Lauriola, Introduzione a Duns Scoto, ‘Antologia’, Alberobello, 1996; G. Zavalloni, Giovanni Duns Scoto, maestro di vita e pensiero, Bologna, 1992; D. Scaramuzzi, D. Scoto. Summula scelta di scritti coordinati in dottrina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1932; O. Todisco, Lo spirito cristiano della filosofia di Giovanni Duns Scoto, Roma, 1975; Id., La nozione metafisica di essere nell’ascesa a Dio del beato Giovanni Duns Scoto, Napoli, 1966; M. Damiata, I e II tavola. L’etica di G. Duns Scoto, Firenze-Pistoia, 1973; B. Bonansea, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano, 1991; P. Stella, L’ilemorfismo di Duns Scoto, Torino, 1955; Antonio Coccia, Attualità di Duns Scoto: conoscere per amare, in “Ideali politici e problemi religiosi in alcuni grandi Filosofi”, Roma, Miscellanea Francescana, 1977; Id., L’uomo di fronte all’Infinito, Palermo-Roma, Mori, 1969; Id., Contributi scotistici. Storia, dottrina, spiritualità, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; L. Jammarrone, Il problema della creazione nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Contingenza e creazione nel pensiero di Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1999; S. Vanni-Rovighi, La  Filosofia Patristica e Medievale, Giovanni Duns Scoto, in “Storia della Filosofia”, diretta da C. Fabro, I vol., Roma, Coletti, 1954, pp. 242-247; S. Vanni-Rovighi, L’immortalità dell’anima nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, in “Rivista di Filosofia neoscolastica”, Milano, 1931, pp. 78-104; G. Pini, Scoto e l’analogia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2002; P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932; N. Petruzzellis, Studi sull’etica di Scoto, in “Archives de Philosophie”, Parigi, 1940, pp. 68-87; Andrea Dalledonne, Duns Scoto, in “Grande Antologia Filosofica”, Milano, Marzorati, Aggiornamento bibliografico*, vol. XXXII, 1984, pp. 675-682. Il più acuto confutatore dello scotismo è Johoannes Capreolus (+ 1444), chiamato princeps thomistarum, che nelle sue Defensiones theologiae Divi Thomae Aquinatis (ultima edizione Tours, 1900-1908) accosta al ‘Commento alle Sentenze’ di Pietro Lombardo’ fatto da S. Tommaso i testi della ‘Somma Teologica’ e delle ‘Questioni disputate’ dell’Angelico, difendendoli contro gli scotisti e i nominalisti, tanto che gli scolastici hanno creato il motto scherzoso: “si Scotus non sonasset, Capreolus non saltasset; se Scoto non avesse suonato, Capreolo non avrebbe danzato”; cfr. R. Garrigou-Lagrange, De Revalatione, Roma, Ferrari, 1918: sull’univocità dell’ente secondo Scoto, vol. I, pp. 303, 363; sul Desiderio naturale efficace di veder Dio, vol. I, p. 390; sulla confusione tra ordine naturale e soprannaturale, vol. I, p. 340, 365, 482.
[68] Se generalmente i gesuiti seguono la dottrina di Suarez non sono mancati tra loro quelli che si son distinti per la fedeltà e penetrazione del tomismo, specialmente con la terza scolastica e il neotomismo rilanciato dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879): il card. Giuseppe Pecci, fratello di Leone XIII, p. Luigi Taparelli D’Azeglio, p. Serafino Sordi, p. Matteo Liberatore, p. Giuseppe Kleutgen, p. Giovanni Cornoldi, p. Vincenzo Remer, p. Guido Mattiussi, p. Carlo Giacon, p. Paolo Dezza.
[69] Dizionario di teologia dommatica, Roma, Studium, 4a ed., 1957, voce “Soprannaturale”.
[70] Cfr. B. Mondin, I grandi teologi del ventesimo secolo, Torino, Borla, 1969, 1° vol. I teologi cattolici; H. Urs von Balthasar, Il padre Henry de Lubac. La Tradizione fonte di rinnovamento, Milano, Jaca Book, 1978; A. Russo, Henry de Lubac: teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, Roma, Studium, 1990.
[71] Cfr. G. Siri, Getsemani, Roma, Fraternità della SS. Vergine Maria, 1980, p. 54.
[72] Introduzione a San Tommaso, Milano, Ares, 1983, p. 321.
[73] R. Garrigou-Lagrange, Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 400.
[74] Ibidem, p. 403.
[75] Ibid., p. 405.
[76] Ibid., p. 409.
[77] Ibid., p. 541.
[78] Cfr. B. Mondin, Storia della Metafisica, Bologna, ESD, 1998, 3° vol., pp. 426-427.
[79] Ibidem, pp. 426-427.
[80] Ibidem, p. 429.
[81] Ibidem, pp. 430-432.
[82] Storia della filosofia contemporanea, dall’Ottocento ai giorni nostri, Brescia, La Scuola, 3a ed., 1° vol., 1990, p. 34.
[83] L. Malusa, (a cura di), Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 33.
[84] L. Malusa, cit., p. 35.
[85] Cfr. L. Malusa, (a cura di), Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio, Milano, Franco Angeli, 2008.
[86] Ibidem, pp. 13-14.
[87] È quello che si cerca di fare anche col Vaticano II, non condannare o rettificare le novitates in esso contenute, ma re-interpretarle alla luce della “ermeneutica della continuità”, che tutto concilia, storicizzando e relativizzando ogni cosa. Se l’idea di essere rosminiana è compatibile con l’essere intensivo tomistico, allora anche il Vaticano II è in continuità “ermeneutica-soggettiva”, ma non “reale-oggettiva” con la “Traditio Ecclesiae”.
[88] Cfr. G. Mattiussi, Il veleno kantiano, Monza, 1907.
Id., Le XXIV tesi della filosofia di San Tommaso, Roma, 1917.
«S. Pio X, nell’enciclica Pascendi, aveva notato come la causa principale degli errori modernisti era stato l’abbandono dei princìpi fondamentali della filosofia tomista; perciò incaricò il Mattiussi di raccoglierli in brevi proposizioni. Egli allora redasse appunto le 24 tesi: individuò, con acume penetrante, i primi princìpi della metafisica tomistica e li formulò, con ferrea logica, nel modo più sistematico e preciso» (AA. VV., Dizionario dei filosofi, Firenze, Sansoni, 1976, p. 801).
[89] Tra le proposizioni condannate nel 1897 si legge: «Nella sfera del creato si manifesta immediatamente all’intelletto umano qualcosa di divino in se stesso, ossia che appartiene alla Natura divina. […] Quando parlo di divino nella natura, non uso questo termine ‘divino’ per significare un effetto creato ‘non-divino’ di una Causa divina e neppure ‘divino per partecipazione’ [ma per essenza, ossia Dio in Sé, nda]. […] L’Essere che l’uomo intuisce, deve essere necessariamente qualcosa di necessario ed eterno: e questo è Dio». Come si vede queste frasi che sono estratte dalle opere di Rosmini. (Ciò è un “fatto dogmatico”, ossia quando la Chiesa decide circa il senso ortodosso o meno di alcune tesi, formule o libri, dogmaticamente rilevanti. Il Magistero in tali casi può prendere decisioni vincolanti ed obbliganti, ossia infallibili. Alessandro VII nel 1656 - riguardo al libro Augustinus di Giansenio - dichiarò solennemente che le proposizioni condannate dalla Chiesa sono esattamente quelle che si trovano nel libro condannato nello stesso senso o significato e non in un altro significato, cfr. Denz. 1092-1098 e 1350; così le 40 proposizioni di Rosmini condannate nel 1887, si trovano infallibilmente sia nelle opere di Rosmini stesso e sia nello stesso significato per il quale sono state condannate), non sono solamente suscettibili di interpretazioni erronee, ma sono panteiste e ontologiste in se stesse. Onde “il rosminianesimo riassunto nelle 40 proposizioni” è e resta infallibilmente condannato da Leone XIII e il card. J. Ratzinger nel 2001 ha solo cercato di mettere in guardia da ulteriori, estrinseche, interpretazioni eterodosse di Rosmini, senza poter cassare la condanna intrinseca del Roveretano, che è un fatto dogmatico e quindi irreformabile. Il card. Pietro Parente scrive: «Non si può negare che l’oscuro sistema rosminiano (almeno nella sua oggettiva espressione) presti il fianco all’accusa di Ontologismo, quando asserisce che l’intelletto umano intuisce l’essere indeterminato […]. La Chiesa ha condannato esplicitamente l’Ontologismo riassunto in 7 proposizioni (Decreto del S. Uffizio del 1861, DB 1659 ss.) e in altre 40 proposizioni (Decreto del S. Uffizio del 1887, DB 1891 ss.) ha rigettato il pensiero rosminiano, […] Filosoficamente l’Ontologismo confondendo l’essere in generale o comune con l’Essere divino, porta al Panteismo» (Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, 4a ed., 1957, p. 292). .
[90] L. Malusa, cit., p. 58.
Altri autori seri, profondi e ben preparati, ma ‘limitati’ da un certo filo rosminianismo, sono soprattutto il geniale Michele Federico Sciacca ed anche Pier Paolo Ottonello, Adelaide Raschini e molti altri specialmente dell’Università di Genova ove ha insegnato per lungo tempo lo Sciacca che può essere considerato il caposcuola dello ‘spiritualismo cristiano’. Anche Augusto Del Noce, grande e lucido critico della modernità e postmodernità, dà un’interpretazione positivamente riabilitatrice ma scarsamente convincente di Rosmini, cercando di riconquistare Cartesio alla sana filosofia e leggendolo in linea di paternità spirituale-filosofica con Malebranche e Rosmini, in funzione spiritualista e antimaterialista.
●Purtroppo anche Romano Amerio, che apprezzo molto per quanto riguarda il suo “Iota unum”, non è immune dall’influsso rosminiano, anche se temperato da una profonda conoscenza del Dottor Comune, cfr. E.M. Radaelli, Romano Amerio. Della verità e dell’amore, Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2005, p. XIX e p. 238. Quanto alle obiezioni che l’Editore di Amerio è stato il laicista esoterico e in odore di massoneria Raffaele Mattioli suocero di Enrico Cuccia (cfr. G. Galli, Il banchiere eretico. La singolare vita di Raffaele Mattioli, Rusconi, Milano, 1998; Id, Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano, 1995; S. Gerbi, Raffaele Mattioli e il filosofo domato, Milano, Rizzoli, 2002), con la casa editrice Riccardo Ricciardi, rispondo che non si può identificare l’Editore con l’Autore. Se vi sia stata amicizia tra i due, occorre distinguere un’amicizia privata (transeat) da un’amicizia o comunanza dottrinale, la quale per quel che ne so è tutta da provare e solo allora sarebbe significativa. Se qualcuno ha le prove di quest’ultima le fornisca oggettivamente e se ne parlerà serenamente, sine ira et studio. Infine quanto al fatto che l’Editrice Lindau di Torino, la quale tra l’altro stampa i testi dei teo e neo conservatori ebraico-americanisti, stia ripubblicando l’opera omnia di Amerio, vale lo stesso discorso di sopra, con l’aggiunta che Amerio non c’è più e dunque non gli può essere imputato.
[91] Cfr. B. Gherardini, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009.
[92] Cfr. F. Marìn Sola, L’évolution homogène du dogme catholique, Friburgo, 1924.
[93] Per quanto riguarda il Campanella cfr. Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cura di Augusto Guzzo e Romano Amerio, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1966.
Id. Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1972.

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