Fonte: Chiesa e post concilio

Il fascicolo appena uscito, N.113/Autunno 2011, dell'autorevole Rivista francese di riflessione politica e religiosa, Catholica,
pubblica un'intervista - realizzata a cura del Prof. Bernard Dumont
all'inizio della scorsa estate - a Mons. Brunero Gherardini. Si è
guardato alla sua veste di teologo e canonico di S. Pietro, ricco di una
grande erudizione e di notevole esperienza personale maturata nel corso
di lunghi anni di studio di insegnamento e al suo impegno di studioso e
di scrittore che non solo partecipa direttamente, ma alimenta l'aprirsi
del tanto atteso dibattito sul Concilio. Un dibattito che ha sofferto
anni di embargo e silenziamento, tuttora difficilmente sormontabili, ma
almeno oggi ormai più che scalfiti. Ed anche questa attenzione e
sinergia, che si va allargando al versante internazionale, ne è una
dimostrazione
Su
questo blog, oltre a recensire le opere più recenti di quello che sono
fiera di considerare il mio maestro, sono presenti interventi e
riflessioni maturate nel corso dell'evolversi dei recenti dibattiti
ormai innescati sul Concilio. Inserisco i link più significativi: [vedi] - [vedi anche] - [ed anche] - [e ancora] - [stroncature vaticane e non].
Sono
davvero felice di poter ora condividere le parole 'sapienti' che
seguiranno e che hanno il pregio di essere state 'mosse' dalle domande
di un interlocutore di livello come il Prof. Bernard Dumont, che ha
curato l'intervista. Egli informa i suoi lettori anche sulla recente
edizione di un altro testo di Mons. Gherardini che ha a che fare con la
cultura conciliare: A domanda risponde. Il dialogo con Karl Barth sulle sue « domande a Roma» (Casa Mariana editrice, Frigento, maggio 2011), di cui lo stesso numero di Catholica pubblica la recensione.
Sarà
mia cura provvedere anche a questo aggiornamento. Mi riprometto inoltre
di ripercorrere la stupenda intervista per estrarne il succo in un
apposito articolo che nutrirà, spero, insieme alle mie anche le vostre
riflessioni ed approfondimenti. Dovremo, anzi, pensar di promuovere
iniziative, nell'occasione del triennio di apertura-chiusura
dell'evento-concilio, che sta cominciando ora ad uscire dal mito per
essere ridimensionato e ricondotto, realmente e non solo con le
proclamazioni, nell'alveo della Tradizione. Ritengo infatti che sia
arrivato il momento di uscire dai dibattiti per dar forma ed inverare
qualcosa di concreto ed efficace sul campo per imprimere un nuovo corso.
La cultura egemone sembrerebbe renderlo difficoltoso se non
impossibile. Ma chi può dirlo?
Chissà
che non si possa riuscire a organizzare incontri formativo-informativi,
seminari e, perché no, anche Master sul Vetus Ordo nelle Università
Pontificie, almeno in quelle più accoglienti...
CATHOLICA –
Sembra giusto distinguere tra l’opportunità di accentuare tale o tale
aspetto della dottrina, anche cercare il vocabolario più adatto alla
società a scopo di evitare ogni fraintendimento, secondo la diversità
dei tempi, delle culture, ecc. Ci sono anche problemi nuovi, o ancora
problemi scomparsi: penso alla condanna della balestra, che non ha più
senso attuale. Non è vero?
BRUNERO
GHERARDINI – La mia risposta sarà certamente più lunga di quella che
forse, caro Direttore, aveva prevista. Necessariamente più lunga. La
domanda mi viene rivolta dopo l’ipotesi di “due epoche radicalmente
diverse nel corso della modernità”. Ma, su argomenti dottrinali come
quelli che mi sono stati sottoposti, non posso rispondere in base ad
una semplice ipotesi. Se infatti non si sa che cosa sia la modernità,
sarà molto difficile stabilire i confini fra “due epoche radicalmente
diverse”.
E il difficile sta proprio qui: che cos’è la modernità?
Charles
Taylor, in una serie di scritti l’uno più interessante dell’altro,
all’interno dei quali si dichiara contro Nietzsche, Foucault e Derrida,
- non identifica la modernità con la crisi della memoria e dell’immaginazione, con un pericolo per la Fede ed ancor meno con l’attuale linguaggio postmoderno, ma
- v’intravede in genere qualcosa di più profondo di pure e semplici opinioni sulla personalità, la coscienza, la società, la natura, il mondo, ed in particolare su ciò che cambiò la vita culturale politica ed ecclesiale nel 18° sec. e che caratterizza pure il presente.
Non che quella di Taylor sia l’unica idea di modernità, ma essa consente di leggere sul suo stesso sfondo la ben nota allocuzione papale del 22 dicembre 2005,
alla quale lei si e mi richiama. E di leggerla non tanto limitatamente,
come troppo spesso si fa, alla contrapposizione di due ermeneutiche
antitetiche (continuità/discontinuità, riforma/rottura),
quanto con riferimento all’apparente contrasto fra principi permanenti e
situazioni mutevoli. Quel contrasto, lasciando inalterati i principi
permanenti, pone in evidenza le situazioni storico-sociali e culturali
d’una modernità che fu laicista ed antioscurantista (leggi
antiecclesiale) fin al Vaticano II ed assunse connotazioni se non di
coincidenza almeno di “compossibilità” col messaggio conciliare,
soprattutto là dove l’accento cadeva sull’antropocentrismo e la laicità in funzione dichiarativa e difensiva della c.d. autonomia del creaturale.
A prima vista tutto ciò può sembrare legittimo, ma ignora il fatto che quel creaturale
non è un assoluto, segnato com’è dalla contingenza che lo rapporta con
un principio superiore estrinseco. Volendo insistere sulla sua legittima
autonomia, si dovrà pertanto aggiungere “relativa”. Metafisicamente
parlando, infatti, il creaturale è solo relativamente autonomo, in
corrispondenza alla sua creaturalità e alle leggi che ne regolano
comportamenti e sviluppo e che, in quanto tali, dipendono dalla volontà
che pose in essere il creaturale stesso. Se “il senso” dell’autonomia lo
caratterizza, non ne deriva, come si vede, che si tratti d’un’autonomia
in assoluto.
Forse
sta qui la distinzione tra moderno e postmoderno: nel primo l’autonomia
è, sì, fortemente accentuata, ma non assolutizzata come nel secondo.
L’Allocuzione del 2005 si snoda sulla scia del moderno, ma la maggior
parte dei teologi postconciliari l’ascolta come eco del postmoderno e
assunzione di esso. Non ci si rende conto che una tale autonomia, in
quanto è il nucleo teoretico della modernità e soprattutto della
postmodernità, ha origini kantiane, vale a dire “entro i limiti della
sola ragione” e da tali origini pedissequamente ripete i diritti d’un
mondo ormai maturo – “die Mündigkeit der Welt” – e la sua “liberazione
dal sacro”. Lo riconobbe onestamente E. Bethge, il biografo di D.
Bonhoeffer (Monaco 1967, p. 973) quando scrisse: “Aufklärung ist der
Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit.
Unmündigkeit ist das Unvermögen, sich seines Verstandes ohne Leitung
eines anderen zu bedienen“ (L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno
stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è
l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un
altro - ndR). All’influsso kantiano va aggiunto quello feuerbachiano, sia nel suo esito di umanesimo ateo,
sia in quello che coincide con la scomparsa (“Schwund”) della coscienza
cristiana. L’attuale e superficiale affermazione: “questo non è più
peccato” è una dimostrazione lapalissiana che modernità e postmodernità
han raggiunto quei limiti.
A
questo punto, non perché abbia premesso tutto quello che avrei da dire,
ma perché di esso ho detto almeno l’essenziale, posso rispondere alla
sua domanda. Sì, dobbiamo farci un dovere d’evitare ogni
fraintendimento, cercando le parole esatte per non cadere in equivoci e
per esser sicuri di venir capiti. Se non che l’ unico modo per
raggiunger un tale scopo non è quello di piegarsi alla mentalità
kantiana e feuerbachiana della modernità e della postmodernità: ciò
sarebbe un tradimento. Ma quello della fedeltà assoluta alla propria
identità cristiano-cattolica, opportunamente spiegata a chi non ne
conosce più nemmeno il linguaggio, per fargli riscoprire la realtà del
messaggio evangelico e la gioia d’aderire ad esso.
In
quale misura la distinzione tra principii permanenti e dottrine di
validità temporanea (le cosidette “forme concrete”) potrebbe essere
fondata nella tradizione teologica? Ci sono dei precedenti? E s’è il
caso, come spiegarlo, e sopra tutto, con quale criterio? [Si evoca per
es. la condanna del prestito a interesse, poi accettato]. Variante: è
possibile cambiare ottica secondo l’opportunità (vedere le cose secondo
un aspetto nell’ottocento, vedere altro aspetto — e classificare la
prima ottica – dopo… ?
Mi
pare che la Tradizione stessa coincida esattamente con il contenuto
della domanda. Non tutt’i principi della dottrina cattolica son
permanenti, né tutti legati ad un determinato momento storico e
destinati a decadere con esso. Ci sono gli uni e ci sono gli altri: i
primi in funzione fondativa della realtà cattolica e pertanto
irrinunciabili e non negoziabili per nessun motivo; gli altri segnati
dalla provvisorietà della loro incidenza sulla vita e le scelte della
Chiesa. Poiché costituiscono il motivo formale dell’esser cattolici e
del pensare da cattolici, non ci sarà mai, non potrà mai esserci una
ragione debitamente proporzionata per dichiarar i principi permanenti
decaduti dalla loro funzione fondativa; qualora ciò avvenisse, potrebbe
verificarsi solo nell’ipotesi d’una Chiesa altra da quella cattolica.
La Tradizione è il coestendersi inalterato ed inalterabile di codesti principi, dalla morte dell’ultimo Apostolo alla parousìa
del Signore Gesù, e su un tale coestendersi si gioca l’identità stessa
della Chiesa. Non è infatti il soggetto-Chiesa che rende permanenti i
detti principi, ma sono questi stessi principi che assicurano e
confermano l’identità della Chiesa, la sua vita e la sua perenne
giovinezza.
E’
vero, ci furono e potranno sempre esserci forme concrete d’insegnamenti
legati al tempo e alle sue particolari problematiche. Gli esempi
addotti – il prestito, la pena di morte, la guerra ed altro ancora –
furon effettivamente oggetto d’interventi magisteriali che, in processo
di tempo, vennero o modificati fin al loro contrario, o negati. Mi si
chiede con quale criterio; la risposta mi sembra intuitiva: perché si
tratta d’insegnamenti non dogmatici, che tali non potranno mai
diventare in base al fatto che, fin dal IV sec. con san Cirillo
Gerosolimitano e san Gregorio Nisseno, per dogma s’intende una verità di fede definita.
Una di quelle, cioè, che la Chiesa dichiara contenute nel sacro
deposito delle verità rivelate ed ininterrottamente presenti nella
Tradizione ecclesiale e definisce perciò come verità della Fede
cattolica, “di per sé irriformabili” e dogmaticamente obbligatorie per
ogni cattolico.
Il
criterio delle modifiche o addirittura dell’abbandono d’un precedente
insegnamento ecclesiale riguarda non il dogma che, per natura sua non
subisce immutazioni intrinseche e sostanziali, ma ogni intervento su
materia e per motivi contingenti, passati i quali, o trasformatisi, vien
meno la ragione formale dell’intervento stesso. Ciò, ovviamente, non è
un cambiamento di prospettiva o di ottica della Fede, la qual cosa ne
sarebbe anche la tomba, ma un cambiamento dell’impatto che la Fede
stessa ha con i fenomeni del transeunte, la qual cosa fa parte del suo
concreto innesto con la realtà del creato e con la sua storia.
A
proposito delle dottrine (dei principii) intrinsecamente associate a
situazioni mutevoli: in che misura tale concezione sarebbe diversa del
relativismo culturale introdotto in particolare nella filosofia da
Dilthey, in teologia da Schelling e Schleiermacher, e oggi così di moda
con l’ermeneutica di Gadamer o le teorie della “narrazione”, ecc. ? Dove
la frontiera, se c’è?
La
sua domanda è molto più complessa di quanto possa a prima vista
apparire. E forse sarà bene non cedere alla tentazione d’una risposta
globale. Procederò pertanto di problema in problema, dicendo a riguardo
d’ognuno quanto a me sembra opportuno o doveroso dire, ma senza la
pretesa dell’ultima parola, specie là dove la critica storica e
storico-teologica non può esser apodittica.
Inizio
dalle “dottrine o principi intrinsecamente associati a situazioni
mutevoli”. A mio avviso, non esistono. Ciò che merita d’esser detto in
senso univoco “dottrina cattolica” e “principio permanente” non potrà
mai esser “intrinsecamente associato” al mutevole. Tutto infatti è
mutevole, la storia stessa lo è; ma la dottrina cattolica non ne fa
parte; è in essa, ma non organicamente ad essa associata: la
trascende, appartiene ad una sfera qualitativamente diversa, con la
quale non entra mai in vera e propria simbiosi.
Ben
altro è il discorso relativo non alla “dottrina cattolica ed ai suoi
principi”, l’una e gli altri irriformabili, bensì ad interventi
magisteriali sulle mutevoli contingenze storiche – sociali culturali
politiche -; in tal caso l’intervento ha la stessa connotazione di
provvisorietà che ha pure il suo stesso oggetto: se questo si modifica o
se vien meno, si modifica o s’interrompe l’istanza dell’intervento
stesso. Proprio su questo punto l’allocuzione papale del 22 dicembre
2005 – sia detto con tutt’il dovuto rispetto – lascia alquanto
perplessi. Manca infatti in essa la distinzione da me poco prima
rilevata. La distinzione, intendo, tra ciò che, appartenendo alla
Rivelazione recepita e trasmessa, è per sempre, e ciò che invece è
soltanto in relazione alla provvisorietà di certi eventi e di certe
situazioni. Ritorno all’esempio altre volte rilevato: tanto La Gaudium et spes quanto la Dignitatis humanæ
non potran mai diventare il “contro Sillabo”, sia perché gli errori
condannati dal Sillabo non erano un’emergenza del momento, tant’è che
oggi son più radicati e più diffusi d’allora, sia perché non si trattò
d’un intervento provvisorio, ma fu la proclamazione d’un magistero
perenne.
Pertanto,
se talvolta la Chiesa attenua il valore dei suoi interventi provvisori o
addirittura li dichiara non più pertinenti alla contingenza storica che
li aveva provocati, la ragione non è quella del relativismo culturale,
chiunque ne sia il vero iniziatore ed il vero teorizzatore. E tanto
meno attenuazione e cancellazione attengono al detto relativismo.
Si
sa quanto sia non facile la determinazione concettuale del relativismo.
Esso potrebbe forse collegarsi, secondo l’insegnamento che A. Levi
diffuse fin dal 1906, con la celebre frase di Protagora: l’uomo è la misura di tutte le cose.
Se la misura è l’insieme delle sue sensazioni, queste son l’effetto di
due moti: quello della cosa percepita e quello dell’organo di senso che
la percepisce. Ne deriva che la sensazione è sempre relativa al
rinnovarsi di quei due moti, non è mai la stessa e non è mai vera
se non nel momento del suo effettuarsi. Oggi si dà al termine un
significato più generale e metafisico, quello d’ogni dottrina che
risolve la realtà in relazioni più o meno costanti fra i vari fenomeni,
portando in tal modo il relativismo ai bordi dell’attualismo, del
fenomenismo, della relatività gnoseologica. Più recentemente ancora
relativismo è diventato sinonimo d’adogmaticità, anche dei principi
religiosi o morali, tutti ugualmente - e quindi tutti relativamente –
validi, con la conseguenza che la conoscenza dell’assoluto sarebbe
un’assurda pretesa. E la dogmatizzazione di tale pretesa, una violenza.
Le conseguenze sulla sfera del bene e del male son sotto gli occhi di tutti.
Non
saprei dire se alla base di codesto slittamento antidogmatico ci sia
l’uno o l’altro degli Autori da lei ricordati: p. es., perché
dimenticare Kant e la sua negazione della conoscenza della cosa in sé?
Dai suoi studi su Schleiermacher, cui dedicò soprattutto gli anni
1867-1870, risulta che W. Dilthey teorizzò la realtà storico-sociale
come un gioco di relazioni, la qual cosa non coincide col relativismo.
La sua Erlebnis e la sua Weltanschauung parlano della condizione umana rivissuta attraverso la connessione di vita, espressione e intendimento, ma non d’un vero e proprio relativismo.
Quanto
a Schelling, pur ricordando che l’essere stesso è da lui concentrato
nell’Io come atto eterno e non concepito nel tempo, non si può
dimenticare che nella sua seconda maniera l’essere non è più atto ma
natura, è Dio in quanto Signore dell’essere, ch’egli limita e condiziona perché lo possiede originariamente, e limitandolo pone al di fuori di sé una serie necessaria di correlati di Dio. Ma la correlazione non è relativismo.
Ho
studiato direttamente Schleiermacher dop’averlo indirettamente appreso
dalla critica barthiana; di lui posso dire e riconoscere che fu
l’iniziatore della Liberaltheologie e sottolineò fortemente l’imparentarsi dell’insegnamento ecclesiale con la geltende Lehre
del momento; ma nemmeno questo è vero relativismo. Non conosco
direttamente Gadamer; so tuttavia ch’egli oppone alla pretesa
d’universalità ed assolutezza delle scienze naturali una
pre-interpretazione filosofica della verità, che sfugge a qualunque
processo puramente scientifico. Ma anche se costoro ed altri pure
fossero gli assertori del moderno relativismo, una cosa dovrebb’esser a
tutti chiara: in nessun modo ed in nessun senso s’evidenziano segni di
relativismo nella dottrina della Chiesa: non in quella dogmatica, per la
sua assolutezza ed universalità; non in quella provvisoria, che ha il
suo perché nella provvisorietà stessa dell’intervento. Che poi il
relativismo sia spesso scambiato con l’indifferentismo, con il
modernismo, con l’apertura al mondo, con lo stesso dialogo, è facile. E
che proprio questo s’avverta in non poche decisioni conciliari e
postconciliari non sarò io a metterlo in dubbio.
Concretamente,
che ne è della dottrina della regalità sociale di Cristo? Se facciamo
la distinzione tra dottrina permanente e dottrine intrinsecamente legate
a situazioni storiche particolari ed eterogenee, possiamo
reinterpretare questa dottrina in termini sia individuali (“Re dei
cuori”, dunque Re… privato) sia escatologici (il trionfo finale di
Cristo); in questo caso, il discorso di Pio XI nella Quas Primas sarebbe
il punto ultimo e finale della dottrina particolare alla fase
moderna-laicista, e la dichiarazione DH, il punto iniziale di una
formulazione dal tutto nuova.
Caro
Direttore, sta mettendo il dito sulla piaga. Non che le precedenti
domande ne fossero troppo distanti, ma ora ho l’impressione che la sua
mano sia già tutta dentro. Non che me ne dispiaccia, ci vedo anzi un
invito a prender il toro per le corna. Ed ovviamente non mi tiro
indietro. Mi pare, inoltre, che nella sua domanda si colga una non
velata amarezza per il venir meno della dovuta attenzione ad un merito
tutto francese: l’istituzione della festa liturgica di Cristo Re. E’
indiscutibilmente certo che non avremmo avuto la “Quas primum” (11 dic.
1925) di Pio XI se non ci fosse stato l’intenso lavoro di
sensibilizzazione e di preparazione della oggi ingiustamente dimenticata
Marthe de Noaillat. Onore al merito!
Come
modesto cultore di teologia, credo di poter dire che la dottrina sulla
regalità sociale di Cristo non fa parte per nessun motivo di quella
provvisorietà sulla quale mi son prima soffermato: la “Quas primum” la
sancisce ponendola in relazione non a questa o quell’emergenza storica,
ma alla persona stessa di Cristo nella sua integrità umano-divina. Non
esclude che Cristo regni, in senso metaforico, nella mente, nella
volontà e nel cuore degli uomini (AAS 18, 1925, 595); ma sottolinea il senso proprio
del suo regno in relazione sia a Cristo uomo, che dal Padre ebbe
“potestatem et honorem et regnum”, sia al Verbo che tutto ha in comune
con la Triade sacrosanta (Ibid. 596). C’è dunque una regalità di Cristo
non solamente celeste, per la “circuminsessione” delle tre divine
Persone, ma anche sociale, che compete a Cristo per diritto originario
(come Creatore) e per diritto acquisito (come Redentore).
Su questa regalità è sceso il silenzio, conseguente ad alcune premesse, prime fra tutte quelle dell’antropocentrismo conciliare che sostituì l’uomo a Dio e al Signore Gesù, e dell’irenismo
che ispirò i documenti del Vaticano II e fece del pluralismo religioso
il nuovo “dogma” nel quale ogni religione può trovare la sua
giustificazione.
Chi
ritenesse eccessiva una tale considerazione del Vaticano II dovrebbe
leggere, sganciandosi dall’esaltazione acritica fin ad oggi imperante,
tutti i suoi sedici documenti e le allocuzioni papali di Giovanni XXIII e
di Paolo VI che l’accompagnarono. I temi di fondo, contrassegno ed
espressione dello “spirito” del Concilio, son l’uomo e il pluralismo: la
dichiarazione “Dignitatis humanæ” dà ad ogni religione lo stesso
diritto ad un riconoscimento sociale che inevitabilmente si risolve in
uno scacco a Cristo.
Per
convincersene ancora di più, si dovrebbe spostare l’attenzione dai
documenti conciliari a colui che ne fu il massimo e più fedele
interprete, come anche di recente è stato autorevolmente dichiarato: il
beato Giovanni Paolo II. L’unico valore unificatore del suo pontificato
fu il Vaticano II e, con riferimento al suo contenuto, l’uomo: “ogni uomo, lo sappia o no”. La sua unica preoccupazione, il valore trascendente della persona umana.
La ragione secondo lui fondamentale della Chiesa e della società
civile, l’uomo. La ragion d’essere d’ogni attività pubblica, religiosa e
civile, l’uomo. Per l’uomo ed i suoi diritti scrisse il suo ben noto
decalogo per la pace. Perfino il Natale divenne per lui “la festa
dell’uomo”.
E
in funzione dell’uomo considerò ogni religione, fondandone un
incoercibile diritto alla libertà, privata e pubblica, sulla dignità e i
diritti dell’uomo. Scrisse e pronunciò ditirambi non sulla signoria
sociale di Cristo – che ovviamente sarebbe risuonata come una stonatura –
ma sulla convivenza pluralistica delle religioni, le cui “differenze
culturali ed etnico-religiose” sarebbero “un dono da tutelare” in
conformità “al divino progetto dell’unità nella diversità”.
C’è
un’eco, in tutto ciò, di quel che Schleiermacher dichiarò, stando alla
critica barthiana sul rovesciamento antropocentrico della signoria di
Cristo: “…in dem Gegenüber von Gott und Mensch eine Dunkelheit Platz
gegriffen hat, in der alle erkennbaren Zeichen daraufhin deuten, daß
hier der Mensch insofern allein auf dem Platz geblieben ist, als er allein hier Subiekt, Christus aber sein Prädikat geworden ist” . (BARTH K, Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert,
Zollikon-Zurigo 19522, p. 424). Che in un siffatto contesto il
riconoscimento di Cristo re e del suo regno sociale si sia prima
affievolito e poi spento nel cuore stesso dei fedeli, è più che
naturale. Verrebbe proprio da ripetere: “Ils l’ont decouronné”
A
proposito di DH, sembra che sia stato preso in considerazione – forse
nel quadro dei “segni del tempo” – lo Zeitgeist: l’attenzione generale
alla coscienza (supposta morale) che sarebbe stata generalizzata, alla
differenza del passato. Questo sarebbe un elemento decisivo di “cambio
di situazione”? In qualità di teologo particorlarmente attento alla
nozione di Tradizione, come Lei valuta questo metodo (la sensibilità del
mondo essendo distinta della pacifica ed universale credenza dei
fedeli, allorche qui sarebbe piuttosto la concezione dominante degli
eterodossi: cfr. “… riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla
libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno…”)?
Ora il dito non è più soltanto dentro, ma è andato fin in fondo alla piaga. Che ci sia un modo theologically correct
di guardare ai “segni dei tempi” lo insegna, lamentandone la mancanza,
anche Mt 16,4: “Voi siete in grado d’interpretare l’aspetto del cielo,
ma non siete capaci di giudicare i segni dei tempi”. Gesù rimprovera ai
suoi interlocutori di non avere per i tempi messianici – per la presenza
e l’opera dell’Inviato del Padre – la stessa capacità interpretativa
dimostrata nel congetturare, dagl’indizi metereologici, se ci sarà
buono o cattivo tempo. E’ un’analogia.
Anche
la presenza attuosa del Verbo incarnato, che si prolunga nella Chiesa e
nella sua molteplice sacramentalità, ha i suoi indizi e non mancano i
criteri per una loro esatta interpretazione. Certo è che tali indizi non
s’identificano affatto con lo Zeitgeist, quell’ispirazione di
fondo, quella coscienza comune del bene e del male, che non raramente,
ed oggi anche di più in piena atmosfera di globalizzazione sociale e
politica, culturale e morale, ignora l’uno ( il bene) e favorisce
l’altro (il male), quando addirittura non dice che il male stesso è
bene. Che una tale coscienza si presenti oggi differentemente dal
passato è di solare evidenza; in una situazione di pluralismo religioso e
culturale, qual è quello odierno, la pretesa d’uno Zeitgeist che
dica oggettivamente “pane al pane e ladro al ladro” è quasi utopistica.
Ma nel superamento di codest’utopia sta la correttezza dell’indagine
teologica.
Occorre
davvero che ci si chieda quale sia – o quale sia stata – la vera
ragione della modernità nella quale l’occidente per un verso, e la
nostra vecchia Europa per un altro, si son trovati invischiati. Le
analisi, a dir il vero, non mancano e quasi tutte mettono l’accento
sulla discrasia tra fede e vita, tra Chiesa e società, determinatasi a
seguito dell’illuminismo di varia estrazione, ma sempre e comunque
causa dell’insorgente modernità. Ultimamente, la modernità che diventa per questo post-moderna, è emersa da un’interpretazione nuova del cristianesimo, quell’interpretazione secolarizzata che accoglie, sì, tutta la verità cristiana, ma solo attraverso il filtro della sua fondazione razionale.
Io
pure, in ultima analisi, anche se il mio giudizio non conta nulla, non
mi son discostato da una tale linea critica, con riferimento tanto
alla Liberaltheologie e alle sue ripercussioni sul modernismo e
neo-modernismo, quanto al peso che il modernismo d’ieri e d’oggi, questo
forse più pericoloso di quello, esercitò nella detta scollatura del
sacro dal profano. Religione e progresso si son dati la mano per
raggiungere insieme, e prendervi un ruolo di preminenza, gli avanposti
della modernità. In tal modo, lo spirito del mondo, assorbito e
burbanzosamente diffuso non dalla solo cultura laicista, ma anche da
quella cristiano-cattolica e perfino teologica, ha tolto il respiro
spirituale e soprattutto soprannaturale all’anima umana “naturaliter
christiana”, alla società civile, alla sua cultura, oltre che, di
conseguenza, a larghi strati della compagine ecclesiale. Che poi su
tutto ciò gravi anche l’influsso di “Dignitatis Humanæ”, e non solamente
quello delle sue interpretazioni a ruota libera, mi sembra fuori
discussione.
Il
fatto, infine, che codesta Dichiarazione faccia proprio un principio di
pertinenza preminentemente statale determina uno sbandamento del
Magistero in ambiti non direttamente propri. E’ difficile sostenere un
tale sbandamento come una nuova efflorescenza dal vecchio ceppo della
Tradizione. Il fatto che la continuità tra ieri ed oggi venga proposta e
sostenuta con argomenti d’autorità e non analiticamente dimostrata,
mette a dura prova l’obbedienza cristiana, ma non risponde affatto
all’esigenza logica d’una continuità evolutiva, basata sull’omogeneo
espandersi ed arricchirsi del ceppo originario.
E’
possibile stabilire una relazione tra il metodo seguito a proposito di
DH, e altri aspetti dei tempi conciliari e postconciliari (penso alla
dottrina delle relazioni tra Cristianesimo e Giudaismo, specialmente
sulla questione della conversione; o anche al metodo ecumenico che
implicherebbe, per trovare più facilmente una intesa, considerare come
zoccolo permanente, o nucleo stabile soltanto il primo millenio)?
La
relazione da lei posta sotto il punto interrogativo, quella cioè di
“Dignitatis Humanæ” (ma anche d’ “Unitatis redintegratio”, “Nostra
Ætate”, “Gaudium et spes”, “Ad Gentes” ed un po’ di tutti i documenti
conciliari) è sotto gli occhi di tutti. E’ la relazione che, con i
documenti conciliari e con la loro spregiudicata applicazione, mise in
evidenza una modalità di rapporti mai prima conosciuta: la modalità
dell’irenismo, che da allora si continua a porre in primissimo piano – e
forse sarebbe più pertinente dire su un piano esclusivo.
Oggi
si è in pace con tutti. La pace è insieme l’idolo da adorare e il
criterio da seguire. Non importa né quale pace, né a quali condizioni.
Fossero anche quelle in irriducibile antitesi con il Cristianesimo, non
importa. Se il Corano dichiara guerra ai cristiani e promette fantasiose
ricompense nei cieli a chi li uccide; e se la sua dottrina non ha nulla
in comune con la rivelazione cristiana, non importa: “embrasson-nous”,
siamo tutti fratelli, tutti figli d’uno stesso Padre.
E se il giudaismo persiste
nella sua negazione di Cristo, della Trinità, della redenzione e, in
sintesi, della Nuova Alleanza, bazzecole: anche i giudei, come i
cristiani e come gl’islamici, son figli di quel medesimo Padre che ci fa
tutti fratelli. Via, perciò, il proselitismo, via le conversioni, via
la preghiera per le conversioni. Su questa strada dovremmo aggiungere:
via la missione, anche se Chiesa e missione coincidono. In effetti,
perché mai uno dovrebbe convertirsi, a chi o a che cosa, se tutte le
religioni conducono allo stesso fine? In fondo, c’è della logica in tali
aberrazioni. Si prenda ad esempio proprio il giudaismo. La questione
storica e quella esegetica sono d’una chiarezza cristallina: il
giudaismo è il popolo dell’Antica Alleanza, che l’Epistola agli Ebrei
considera conclusa con Cristo, col quale s’apre ai giudei e ad ogni
altro popolo l’Alleanza Nuova. Se conclusa, non può esser ancor operante, come pervicacemente si continua a sostenere. Se conclusa, significa che solo nella Nuova persiste la volontà salvifica di Dio, i cui disegni e le cui decisioni, grazie appunto alla Nuova, non cambiano. E allora perché, come qualche tempo fa dichiarò il card. Bagnasco, affermare che “la Chiesa non ha alcuna intenzione di pregare per la conversione dei giudei”? Misteri di terzo grado!
Quanto
al primo millennio, se lo si guarda non con gli occhi interessati ma
poco illuminati degli ecumenisti contemporanei, bensì con gli occhi dei
più grandi storici della Chiesa d’ieri e di oggi, esso appare nel segno
d’una significativa risposta a Mt 28,20: un’evangelizzazione del mondo
intero, un “matheteusate” che faccia d’ogni popolo e d’ogni suo membro
altrettanti discepoli della Chiesa, con il preciso scopo della loro
conversione, del loro battesimo, della loro eterna salvezza. Ogni altro
scopo, perciò, essendo fuori della portata evangelica, potrà esser
suggerito da contingenze speciali e provvisorie, ma non giustificato in
base alla Rivelazione, né quella scritta né quella oralmente
(magisterialmente) trasmessa.
Se
facciamo il paragone con l’affermazione che il Novus Ordo missae di
Paolo VI e il rito precedente non sono due riti diversi, ma due forme
dello stesso rito, siamo di fronte allo stesso metodo inclusivo o no?
Se
portiamo la conversazione sulla sponda del metodo e delle sue
specificazioni è possibile correre il rischio di smarrirsi. E tuttavia
il metodo è necessario, perché presenta la strada che porta al
traguardo, a meno che non si tratti di procedimenti elementari non
strutturabili metodicamente, e neppure d’azioni casualmente compiute. Il
metodo è, di per sé, l’applicazione coerente d’un determinato modo di
procedere per raggiungere con morale certezza il fine desiderato. Per
stabilire codesto modo di procedere occorre tener presenti alcuni punti
di vista: p. es., le regole della logica formale, la qualità
dell’oggetto, il suo ambito nei singoli casi d’applicazione metodica, la
sua finalizzazione.
Nascono così dei modelli fondamentali di procedimenti metodici: quello assiomatico, per la deduzione di teoremi validi logicamente; quello ipotetico-deduttivo, proprio delle scienze empiriche, che ordina sistematicamente i fenomeni e ne ricerca la spiegazione; quello estensivo con riferimento ai problemi sui quali s’indaga e alle regole con cui l’indagine è condotta; quello inclusivo, il più difficile da concettualizzare, che potrebbe consistere in un vor-Verständnis
o precomprensione che collega l’inizio stesso dell’operazione metodica
ad una consapevolezza previa dei suoi contenuti in ordine allo scopo da
raggiungere. Io non so se la domanda affidi a questa previa
consapevolezza la soluzione del problema se la santa Messa, quella di
Paolo VI e quella c. d. - se pur impropriamente - tridentina, sian due
forme d’un unico e medesimo rito. Certo, se si sta al valore delle
parole con cui Paolo VI presentò la nuova forma senza, almeno
formalmente parlando, abolire l’altra, si dovrebbe arrivare a questa
conclusione: il rito è unico e due son le sue forme. Egli parlò infatti d’un “ordinamento nuovo” (Novus ordo) rispetto all’ordinamento precedente (o vetus):
quindi, sull’asse permanente dell’unico ed identico rito introdusse la
specificazione di due distinti ordinamenti. E Benedetto XVI,
rilegittimando l’uso dell’antico ordinamento, ha confermato l’unicità
del rito, specificandone le forme in quella ordinaria e quella straordinaria. Sia ben chiaro, è un po’ difficile considerare straordinaria
la forma classica, nella quale per secoli e secoli la Chiesa espresse
il suo culto pubblico; ma ciò non infirma la dottrina sull’unicità del
rito e la duplicità delle forme. Sott’un tale profilo, pertanto, le due
forme sarebbero incluse nel rito, ugualmente valide anche se
specificate diversamente. Chi tuttavia s’impegnasse in un’analisi
rigorosamente critica delle due forme, non avrebbe molta difficoltà a
dimostrare che quella presuntamente straordinaria si distacca sostanzialmente, almeno in alcuni passaggi, da quella c. d. ordinaria.
Troppo lungo sarebbe lo scendere alla dimostrazione esauriente
dell’asserto; ma anche un solo esempio può confermarlo. Si sa che l’ offerta è parte integrante del sacrificio;
ci sono anzi autori che riconoscono il sacrificio già nell’offerta. In
tale ottica s’esprimeva l’Offertorio della santa Messa nel Messale
riveduto da san Pio V. Vi si raccolsero, infatti, partire dal XIII
sec., le varie preghiere offertoriali che costituivano la tradizione
liturgica della Chiesa cattolica: la Curia romana le aveva inserite nel
proprio Messale e Pio V le estese alla Chiesa universale. Eppure, con il
pretesto oltretutto indimostrato e storicamente infondato che si
trattasse di formule recenti, nuove, individualistiche e liturgicamente aberranti, la Messa c.d. di Paolo VI abolì l’Offertorio. [vedi, nel blog]
Se non che la scienza liturgica ha sempre sostenuto e dimostrato il
contrario. Si dispone di manoscritti che comprovano la falsità
dell’assunto: il “Suscipe, sancte Pater”, il “Deus, qui humanæ substantiæ”, l’ “Offerimus, tibi Domine”, il testo “In spiritu humilitatis”, il “Veni Sanctificator”, il “Suscipe, sancta Trinitas”
son preghiere attestate da manoscritti del sec. IX. Non c’è bisogno di
dilungarsi, dunque, per dimostrare che col nuovo ordinamento venne meno
qualche cosa d’intimamente legato all’essenziale ed innestato sulla sua
tradizione. Non dico che la consacrazione delle specie eucaristiche
venga con ciò resa impossibile; mi limito a dire che le due forme non
concordano sull’essenziale e che questo non è a pari titolo incluso
nell’una e nell’altra.
Intervista a cura di Bernard Dumont
Ringrazio
sentitamente il Prof. Bernard Dumont che ci ha messi, con grande
cortesia, in condizione di attingere direttamente al testo originale
italiano.Intervista a cura di Bernard Dumont
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.