giovedì 23 giugno 2011

Perchè sostenere (o almeno non combattere) la fraternità sacerdotale san Pio X



di M.Carnieletto

Nel mondo cattolico si dialoga, spesso in maniera becera, con chicchessia: ebrei, mussulmani, shintoisti, atei, agnostici e, chi più ne ha, più ne metta. Unica eccezione: la Fraternità sacerdotale san Pio X. I sacerdoti e i vescovi della san Pio X sono attaccati da tutti: dai modernisti, che hanno tutti i loro motivi per farlo, dai «conservatori cortesi» - secondo la definizione di Gnocchi e Palmaro - che temono di essere scavalcati a destra, e da certi tradizionalisti che, in parte condividono la preoccupazione dei conservatori, e, in parte condannano la Fraternità per partito preso, senza aver mai conosciuto un sacerdote “lefebvriano”.

Analizziamo, quindi, le cinque più diffuse critiche mosse alla san Pio X:

1. disobbedienza al Santo Padre

I sacerdoti della Fraternità pregano quotidianamente per il Pontefice, Benedetto XVI, Vicario di Cristo in terra con amore e pietà filiale. Già questo semplice fatto eleva i “lefebvriani” al di sopra di molti sacerdoti in perfetta comunione (formale) con la Chiesa. Si obietterà: «ma se hanno criticato ogni azione di Giovanni Paolo II prima e, ora, qualsiasi parola o gesto di Bendetto XVI, come possono essere fedeli al Papa?». I “lefebvriani” criticano, nel senso più profondo della parola: separano ciò che c’è di buono da ciò che c’è di cattivo. E il criterio di giudizio, a differenza dei teologi à la page, non è dato da un’opinione personale ed innovativa, ma da un metodo cattolicissimo che risale, lo diciamo per compiacere gli archeologi camuffati da modernisti, alla Chiesa delle origini. È l’apostolo Paolo a rimproverare Pietro, il primo Pontefice, perché era palesemente in errore («Mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto» (Gal. 2, 11)). Un cattolico, dunque, è obbligato a far riconoscere l’errore al suo prossimo e, se è necessario, anche al suo superiore. Con carità e rispetto, ma deve farlo.
Fatta questa premessa sul metodo della san Pio X, è bene comprendere come i sacerdoti e i vescovi della Fraternità concepiscono la figura del Santo Padre. Non sono modernisti dalla collegialità di facili costumi e non sono nemmeno sedevacantisti, per cui l’attuale Papa sarebbe un fantoccino. Sono, mirabile dictu, cattolici: riconoscono Benedetto XVI come unica autorità legittima per guidare la Chiesa. Anzi, vogliono molto di più: vogliono che il Papa non sia un vescovo tra tanti, ma «il capo visibile della Chiesa» che conferma, con decisione, la fede dei suoi fratelli. Come ha detto mons. Lefebvre: «la distruzione della Chiesa avanza a rapidi passi. Per avere concesso un’autorità esagerata alle Conferenze episcopali, il Sommo Pontefice è diventato impotente. Quanti esempi dolorosi di questo. Tuttavia il successore di Pietro, e lui soltanto, può salvare la Chiesa. Che il Santo Padre si circondi di vigorosi difensori della fede, che li designi nelle diocesi più importanti. Che egli si degni di proclamare, con documenti importanti, la verità, di combattere l’errore, senza timore di contraddizioni, senza timore di scismi, senza timore di rimettere in causa le disposizioni pastorali del Concilio. Voglia il Santo Padre incoraggiare i vescovi a correggere individualmente la fede e i costumi, ciascuno nella rispettiva diocesi, come si conviene ad ogni buon pastore; sostenere i vescovi coraggiosi, incitarli a riformare i loro seminari, a ripristinarvi gli studi secondo san Tommaso; incoraggiare i superiori generali a mantenere nei noviziati e nelle comunità i princìpi fondamentali di ogni ascesi cristiana, soprattutto l’obbedienza; incoraggiare lo sviluppo di scuole veramente cattoliche, della stampa sana, delle associazioni delle famiglie cristiane; infine riprendere i fautori di errori. Io non mi sento temerario esprimendomi in questa maniera. Ma è con un amore ardente che traccio queste righe, amore della gloria di Dio, amore di Gesù, amore di Maria, della Chiesa e del successore di Pietro, vescovo di Roma, Vicario di Gesù Cristo. Voglia lo Spirito Santo venire in aiuto del pastore della Chiesa universale».

2.mancata accettazione del Concilio Vaticano II

I sacerdoti della san Pio X leggono il Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione. Paradossalmente, si potrebbe dire che, in questo modo, i figli spirituali di mons. Lefebvre sono gli unici ad applicare concretamente l’«ermeneutica della continuità», indicata da Benedetto XVI come corretto metodo interpretativo del Concilio. I “lefebvriani” accettano il Concilio Vaticano II per ciò che realmente è: un concilio pastorale, che deve essere accettato senza alcuna remora laddove esso riprende le verità affermate dalla Tradizione. Laddove, invece, i testi del Concilio presentano frasi ambigue o foriere di errori, il metodo critico per comprendere tali passaggi deve essere la Tradizione. Se ci dovessero essere divergenze tra i due insegnamenti bisognerebbe accettare quello professato dalla Tradizione e non quello del Concilio. Del resto, questa opinione è stata espressa anche dal cattolicissimo vescovo di Albenga, Mario Oliveri: «se da una ermeneutica teologica cattolica emergesse che taluni passi, o taluni passaggi e affermazioni del Concilio, non dicono soltanto “nove” ma anche “nova”, rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa, non si sarebbe più di fronte ad uno sviluppo omogeneo del Magistero: lì si avrebbe un insegnamento non irreformabile, certamente non infallibile».


3. presunte eresie della Fraternità san Pio X e presunto scisma lefebvriano

Dal catechismo di San Pio X: «che cosa è l’eresia? L’eresia è un errore colpevole dell’intelletto, per cui si nega con pertinacia qualche verità della fede». Ora, si legga un qualsiasi testo della Fraternità e si cerchi anche una minima eresia o qualche frase contraria all’ortodossia cattolica. Fatica inutile: non la troverete. E questo perché la Fraternità non ha un “suo” pensiero. Non esiste una teologia lefebvriana o una spiritualità lefebvriana come in tanti movimenti nati nel postconcilio. Mons. Lefebvre, il «dolce testardo», non ha inventato nulla: è stato l’altoparlante della Tradizione, ossia di tutte le verità che la Chiesa ha sempre professato. Le parole di mons. Lefebvre sono, ancora oggi, incandescenti. Ma di quell’ umile ardore che è la difesa dell’ortodossia. La dottoressa Cristina Siccardi ha fatto un ottimo lavoro, nella sua biografia su mons. Lefebvre, confrontando le lettere di santa Caterina da Siena con le parole del vescovo cattolico. Stessa forza, stesso amore per Nostro Signore Gesù Cristo e per il Suo Vicario in terra, stessa passione per l’insegnamento della Chiesa e per la Verità.
Nel 1988 mons. Lefebvre procedeva alla nomina episcopale di quattro sacerdoti della Fraternità: Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson ed Alfonso de Gallareta, cadendo ipso facto nella scomunica latæ sententiæ. Nel 2009 Benedetto XVI, dopo la revoca della pena canonica, scriveva: «un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma». Il «pericolo di uno scisma» ma non necessariamente uno scisma. Questo è ciò che è avvenuto per la Fraternità: si è compiuta un’ordinazione illegittima, ma necessaria perchè dovuta alla crisi della Chiesa, che si è venuta a creare nel post-concilio. Come si può dimostrare la crisi e, quindi, la necessità delle ordinazioni episcopali di mons. Lefebvre? Elenchiamo i tre punti chiave della crisi post-concilare:
a. la fuga in massa di sacerdoti nel post-concilio e l’attuale e drammatica crisi vocazionale nei seminari diocesani (cfr. Kenneth. C. Jones, Index of Leading Catholic Indicators: The Church since Vatican II, 2003. Recentissimo l’articolo di Paolo Rodari, Non è un paese per preti. La Chiesa italiana senza seminaristi, leggibile all’indirizzo http://www.ilfoglio.it/soloqui/7913).
b. le vere e proprie «eresie antiliturgiche» veicolate anche grazie al Novus Ordo Missae che «rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero» (dal Breve esame critico al Novus Ordo Missæ dei cardinali Ottaviani e Bacci).
c. la diffusione di «un pensiero di tipo non-cattolico» che, come aveva tragicamente predetto Paolo VI nel 1977, pare essere diventato «il più forte». Ma è lo stesso Paolo VI a rincuorarci, dicendo che «esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».

4.Rifiuto della Messa di Paolo VI

La Messa di san Pio V, nonostante sia stata “liberalizzata” da Benedetto XVI, è la forma più evidente di “contrapposizione” tra Roma e la Fraternità san Pio X. L’articolo 1 del Motu proprio Summorum Pontificum afferma che: «il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa». E la recentissima istruzione Universæ Ecclesiæ dice che: «i fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale». Ammessa la bontà di tali affermazioni, è necessario comprendere se esse corrispondono al vero, ossia se davvero le due forme della Messa siano realmente la stessa cosa. Secondo la teologia cattolica no e ciò è dimostrato dal «Breve esame critico al Novus Ordo Missæ» composto da due fedelissimi cardinali di Santa Romana Chiesa, Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci, e da san Pio da Pietralcina. I prìncipi della Chiesa e l’umile frate cappuccino avevano capito che la riforma liturgica sarebbe stata, parole di Joseph Ratzinger, «una devastazione». La riforma liturgica ha rappresentato la vittoria dell’«eresia antiliturgica» descritta da dom Prosper Guéranger, abate di Solesmes e uomo di fiducia di Pio IX. Secondo dom Guéranger, l’eresia antilitugica può essere sintetizzata in dodici punti:
  1. «Odio della Tradizione nelle formule di culto»
  2. «Sostituzione delle formule ecclesiastiche con letture della Sacra Scrittura»
  3. «Introduzione di formule erronee»
  4. «Abituale contraddizione con i prìncipi»
  5. «Eliminazione delle cerimonie e delle formule che esprimono misteri»
  6. «Estinzione dello spirito di preghiera»
  7. «Esclusione dell’intercessione della Vergine e dei santi»
  8. «L’uso del volgare nel servizio divino»
  9. «Diminuire il numero delle preghiere»
  10. «Odio verso Roma e le sue leggi»
  11. «Distruzione del sacerdozio»
  12. «Il principe capo della religione».
Se si applicano queste vere e proprie «eresie antiliturgiche» alla Messa di san Pio V, si ottiene la Messa Novus Ordo (lo farò in maniera approfondita in un prossimo articolo). Un cattolico può quindi accettare una Messa che è, per lo meno, ambigua? La risposta della Fraternità, che applica semplici e cattolicissimi ragionamenti, è no.

5. Fissismo della Fraternità san Pio X

L’insegnamento della Chiesa non può mutare nemmeno di «uno iota» ed «è più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della legge». San Paolo, scrivendo ai Galati, così esplicita quanto detto dagli evangelisti Matteo e Luca: «mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo». Le parole degli Evangelisti e quelle dell’Apostolo delle Genti sono chiare: la Chiesa non può mutare i suoi insegnamenti a seconda dei tempi. Questo, però, è ciò che è accaduto dopo il 1965: ciò che era permesso prima del Concilio è stato proibito (si pensi alla Messa di san Pio V) e viceversa (si pensi, per esempio, alle riunioni interreligiose). Ma è la semplice logica ad esigere che se una cosa è vera, lo è per sempre e non può cambiare col passare delle stagioni. È lo stesso mons. Lefebvre, d’altro canto, a condannare un certo fissismo e una chiusura ermetica di alcuni tradizionalisti: «si dovrà evitare da un lato la ristrettezza di spirito, un tradizionalismo desueto e sclerotizzato, che chiude gli occhi davanti al materialismo e all’ateismo che pervadono i giovani, si ritira nella sua chiesa, soddisfatto di un gruppetto di buone parrocchiane e dei pochi bambini che lo circondano; dall’altro si dovrà evitare uno spirito di innovazione qui sapit hæresim, l’eresia dell’attivismo, che trascura la preghiera, la predicazione, la Messa domenicale parrocchiale, l’insegnamento religioso».

Conclusione

La Fraternità san Pio X è fatta da uomini che, come tali, possono sbagliare e peccare. È quindi sciocco ritenere che i sacerdoti della san Pio X siano infallibili. Ma è ancora più sciocco ritenere che siano degli eretici che debbano essere combattuti e tenuti fuori dalla Chiesa, che loro amano con tutto il cuore e per cui sono disposti, quotidianamente, a soffrire.

Fonte: Il Cortile

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