martedì 21 giugno 2011

LA SANTITÀ DELLA CHIESA



La  santità costituisce una proprietà essenziale, una proprietà visibile o nota della Chiesa. È una verità di fede definita solennemente nel secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli [1] ed è chiaramente di fede divina perché insegnata dalla Sacra Scrittura: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa… tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata[2]. Pertanto l’insegnamento della Tradizione cattolica è stato così codificato nel Catechismo di San Pio X: “La Chiesa è santa perché santi sono stati Gesù Cristo, suo Capo invisibile, e lo Spirito Santo che la vivifica: perché in lei sono santi la dottrina, il sacrificio e i sacramenti e tutti sono chiamati a santificarsi: e perché molti realmente furono santi, e sono e saranno”[3].
Il card. Pietro Parente, che fu esimio teologo nonostante alcuni sbandamenti finali per allinearsi alla dottrina “conciliare”, ci offre questa solare premessa sulla santità in genere e sulla santità della Chiesa: “La santità è unione con Dio in piena subordinazione di tutto l’uomo (intelletto, volontà, azione) a Lui. In senso attivo la santità è il complesso dei coefficienti adatti a realizzare quella unione soprannaturale; in senso passivo consiste nello stato effettivo di unione con Dio. La Chiesa di Cristo è dotata dell’una e dell’altra santità. Possiede infatti i mezzi di santificazione (dottrina, legge, grazia), i Sacramenti, strumenti e canali della grazia redentrice che proviene dalla Santa Umanità di Cristo. Sposa immacolata di Cristo, la Chiesa è anche madre dei santi, che costellano il cielo della sua storia.[4]
Purtroppo nella Lumen Gentium, che è il testo conciliare sulla Chiesa, compaiono alcune espressioni ondivaghe: “… La Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento[5]; “…La Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta[6].
F. Spadafora commenta: «manca soltanto la qualifica diretta di Chiesa peccatrice, sulla quale si erano già pronunciati d’accordo due nefasti “tromboni”: Yves Congar e Karl Rahner, i due principali animatori, ispiratori e guide del loro grande concilio»[7].
Le piaghe di Gesù sono altrettante bocche che gridano: amore, amore.
San Bernardo

Inoltre Küng, continua Spadafora, “interrogato sugli esiti dei lavori conciliari, rispose […] che il principale era certamente questo: mentre gli avevano insegnato sinora che la Chiesa è perfetta, ora la Chiesa conciliare riconosce di essere imperfetta e peccatrice. Come se il concetto di peccato fosse per contrasto correlato a quello di perfezione, e questo non riguardasse la costituzione metafisica della Chiesa piuttosto che la coerenza del comportamento cristiano; e come se fosse vero che Chiesa conciliare avesse confessato di essere peccatrice!” (loc. cit.).
Ovviamente “quod non fecerunt barbari, fecerunt barberini”, cioè quello che non fece chiaramente il Concilio in materia lo fecero i pettoruti teologi del postconcilio. Così si inaugurò una corsa sfrenata a parlare incontrollatamente di Chiesa “peccatrice”, slogan di pessimo gusto.
D’altronde il coro dei “tromboni” si appoggiava a “nomi altisonanti, quali Schillebeeckx, de Lubac, Congar, Rahner, H. Küng, Chenu e, forse pochi lo ricordano, Ratzinger… Essi e i nascenti “teologi in libertà”, scrive sempre Spadafora, «mettono l’accento o sulle responsabilità storiche, anche gravi, delle quali si sarebbe macchiata la Chiesa o sulla distinzione tra mistero e istituzione, o sulla dialettica tra visibile e invisibile. Ma l’epilogo è sempre lo stesso: “Chiesa peccatrice”. Come a dire: il gusto di sputare nel piatto in cui si mangia. O il sadismo di chi imbratta il volto della propria madre» (loc. cit.).
* * *
L’errore sta nel fatto di aver usato il termine (con tutto il suo dissacrante significato) Chiesa peccatrice invece di Chiesa composta anche di membri peccatori, cioè di uomini che sono pur sempre inclinati al male e possono anche aver peccato. Col primo termine, infatti, si tenta di dissacrare la natura stessa della Chiesa, istituzione santissima di Cristo; col secondo, invece, si fa riferimento alla “causa materiale della Chiesa”. L’assurdo, quindi, sta nel fatto che si tenta di definire la Chiesa tenendo presenti i peccati dei suoi figli, non la sua istituzione divina di dispensatrice di grazia, che quei peccati ha il potere di sanare e rimettere.
Anche Paolo VI non si espresse nel pieno rispetto di questa precisazione quando affermò: “La storia della Chiesa ha lunghe e molte pagine punto edificanti”[8], non specificando con chiarezza se si riferiva alla santità soggettiva o oggettiva della Chiesa, giacché il comportamento anche deteriore dei suoi membri non pregiudica la santità della Chiesa tout-court, come chiaramente insegna San Tommaso[9].
La Chiesa, insomma, è oggettivamente santa perché è il Corpo mistico di Cristo, perché possiede l’Eucarestia e i Sacramenti e perché possiede infallibilmente le verità rivelate. Ma si può dire santa anche soggettivamente per la santità “di tutti quelli che vivono nella grazia come membra vive del Corpo Mistico”[10]. Sicuramente tutti i membri della Chiesa, dai più qualificati ai meno qualificati, finché sono viatori non sono impeccabili, ma le loro eventuali incongruenze non intaccano l’essenza immacolata e intangibile del Corpo Mistico, perché il peccato è sempre personale ed imputabile alla persona che lo commette, e non ai princìpi professati dalla Chiesa che quel peccato condanna. I peccati – scriveva Leone XIII – sono “prove” che i suoi figli, e talora anche i suoi ministri, hanno inflitto e infliggono alla Sposa di Cristo (Lettera enciclica ai Vescovi e al clero di Francia, 8 settembre 1899), la quale è santa non perché composta solo da santi, né perché diretta da santi, ma perché capace di generare dei santi, qualunque sia la tristezza dei tempi, e di porre rimedio ai mali che l’affliggono per colpa dei suoi fedeli e dei suoi capi. Come tutta   la storia della Chiesa sta a dimostrare.
Stephanus

[1] Denz. 86.
[2] Ef. 5, 26.
[3] Catechismo di San Pio X, n. 109.
[4] P. Parente, Itinerario ieri e oggi, Vallecchi editore, Firenze 1968, p. 208. Cfr. Tyszkiewiez, in Enciclopedia Cattolica, X, 1953, coll. 1870-73, alla voce Santità; M. Michel, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XIV, coll. 841-870, alla voce Sainteté; Garrigou-Lagrange, La Sainteté de l’Eglise, in M.Brillat-M.Nèdoncelle, Apologétique, 2a ed., Paris 1948, p. 623 ss.
[5] L. G., n. 8.
[6] L. G., n. 48.
[7] F. Spadafora, La Tradizione contro il Concilio, Volpe Editore, Roma 1989, p. 203.
[8] Cfr. L’Osservatore Romano, 6 giugno 1972.
[9] S. Tommaso, Summa Theologiae III, q. 8, a. 3, ad II.
[10] R. Amerio, Iota Unum, III edizione, Ricciardi, Milano, 1989, p. 112.

Fonte: Si si no no

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