lunedì 20 giugno 2011

Giovanni Paolo II, dubbi su una beatificazione




Passi dal libro che, con questo titolo, è stato pubblicato in francese dalle edizioni Clovis
(Abbé Patrick de La Roque, Jean-Paul II, doutes sur une béatification, Clovis, 200 p. – 14 € (+ port).
Commande en ligne : www.clovis-diffusion.com)

Tratto dal n° 234 (7 maggio 2011) di DICI
agenzia della Fraternità San Pio X

Si veda la prefazione a questo libro, scritta da Mons. Bernard Fellay

Nota della redazione di DICI:
L’opera “Giovanni Paolo II, dubbi su una beatificazione”, contiene quasi 400 note a pie’ di pagina. Per mancanza di spazio, in questi passi che riportiamo non abbiamo potuto includere le note relative, tranne due.
Per poterle leggere tutte, bisognerà rifarsi al testo.


I – Giovanni Paolo II e la virtù di fede (introduzione al cap. I)

Valutare l’eroicità delle virtù di Giovanni Paolo II significa interrogarsi sul modo in cui egli ha praticato la virtù di fede nell’esercizio del suo ministero petrino. Occorre verificare se egli ha fatto tutto ciò che era di sua competenza – e fino all’eroicità – perché «La Chiesa di Cristo, fedele custode e garante dei dogmi a lei affidati, non ha mai apportato modifiche ad essi, non vi ha tolto o aggiunto alcunché, ma trattando con ogni cura, in modo accorto e sapiente, le dottrine del passato per scoprire quelle che si sono formate nei primi tempi e che la fede dei Padri ha seminato, si preoccupa di limare e di affinare quegli antichi dogmi della Divina Rivelazione, perché ne ricevano chiarezza, evidenza e precisione, ma conservino la loro pienezza, la loro integrità e la loro specificità e si sviluppino soltanto nella loro propria natura, cioè nell'ambito del dogma, mantenendo inalterati il concetto e il significato (1)».
Lungi dal concludere in maniera affermativa, si è costretti a constatare che Giovanni Paolo II si è comportato diversamente. In effetti, le sue dichiarazioni in materia di fede, su tutti questi punti e in ciascuno di essi, a più riprese si sono rivelate ambigue, anzi equivoche. Inoltre egli ha reinterpretato il linguaggio della fede in molti domini, per dare un senso nuovo alle parole antiche. Così è difficile dire che nel suo insegnamento abituale Giovanni Paolo II sia stato un custode e un promotore eroico dei dogmi di cui la Chiesa ha il deposito. Non si è posto lui stesso come pioniere alla ricerca di nuove vie? Ora, si verifica che in questa ricerca molte delle sue asserzioni pongono dei gravi interrogativi alla fede cattolica.
Senza pretendere di fare un computo esauriente – lavoro che supera il quadro di questo studio – si tratta semplicemente di mettere in evidenza alcuni dei gravi interrogativi sollevati dall’insegnamento di Giovanni Paolo II, sufficienti da soli a rimettere in causa una supposta eroicità in materia di fede. Dunque, trattando di volta in volta del modo in cui Giovanni Paolo II ha parlato dell’estensione della Redenzione, del battesimo e del peccato, le pagine che seguono non intendono racchiuderlo in un sistema eterodosso, col rischio di essere ingiusti, semplicemente esse mettono in evidenza i gravi errori veicolati dal suo insegnamento abituale – anche se peraltro gli è capitato di ricordare una volta o l’altra l’opposta verità.

II – Giovanni Paolo II e la virtù della speranza (conclusione del cap. II)

Trascurando ciò che egli ha chiamato la dimensione divina della Redenzione, Giovanni Paolo II, per ciò stesso, si è allontanato dalla dimensione teologale della speranza. Invece di farsi messaggero dell’eterna beatitudine che è la buona novella del Vangelo, invece di assumere come criterio di giudizio e di governo questa visuale di eternità, Giovanni Paolo II ha assunto come asse fondamentale del suo pontificato un’altra speranza. Centrata su ciò che egli ha chiamato la dimensione umana della Redenzione, questa speranza ha per oggetto l’edificazione della civiltà dell’amore, per mezzo la preghiera considerata come sentimento religioso – con le conseguenze delle religioni prese nella loro pluralità e della libertà religiosa – per motivo la speranza nell’uomo.
Questa civiltà dell’amore, altrimenti detta unità della famiglia umana di quaggiù, fu il motore delle sue grandi decisioni pontificali. È per questo motivo che Giovanni Paolo II, con una volontà personale molto accentuata, ha voluto riunire tutte le religioni ad Assisi, allo scopo di valorizzare la preghiera di ognuno; è per questo motivo che in seguito ha sviluppato con insistenza, e spesso contro il parere della Curia, ciò che egli chiamava «lo spirito di Assisi». Egli l’ha fatto specialmente attraverso il sostegno costante offerto all’associazione “Uomini e Religioni” della comunità Sant’Egidio. Ed è ancora questo motivo che costituì, secondo le sue stesse parole, la ragione principale di tanti dei suoi viaggi; a titolo d’esempio, citiamo il suo primo viaggio in Francia, i suoi spostamenti in Polonia, a Cuba, in Cile, o ancora la sua visita agli indios di Cuilapan, ecc. Con lo stesso spirito Giovanni Paolo II non ha esitato a chiamare “pellegrinaggio” – quindi a sacralizzare – certe pratiche che avevano al centro solo l’uomo: così, per esempio, si è portato in “pellegrinaggio” ad Auschwitz, al memoriale di Hiroshima o sulle tracce del passato spirituale dell’India. Allo stesso modo, egli ha considerato con insistenza come un “pellegrinaggio” ogni iniziativa di pace fatta nello “spirito di Assisi”. È andato anche in “pellegrinaggio” sulle tracce dell’eredità spirituale di Lutero o sui passi di Mahatma Gandhi. Ed è sempre in conformità che quella speranza che era la sua che il Papa ha proposto al mondo certi modelli di uomini, sia che questi condividessero con Giovanni Paolo II il suo ideale – si pensi per esempio a Mahatma Gandhi o a Martin Luther King – sia deformando delle figure cattoliche per presentarle principalmente sotto questo aspetto. In un certo senso si potrebbero ricordare come esempio le morti di Edith Stein o di Massimiliano Kolbe o anche la figura del cardinale Wyszynski. Egli ha anche ridefinito profondamente la stessa nozione di martirio, per estenderla ad ogni persona che veniva uccisa, non tanto dall’odio per Cristo, quanto dall’odio per l’uomo o per la libertà religiosa. Egli ha considerato come martiri i milioni di esseri umani morti nei campi di concentramento o vittime della Shoah o anche ad Hiroshima, tanto da far comporre un martirologio ecumenico in occasione del giubileo del 2000.
Questi pochi fatti, presi tra i tanti, mostrano l’asse fondamentale di un pontificato e il tipo di speranza che ne fu la trama. Ora, questa speranza, lungi dall’essere la speranza teologale, la sola degna dell’appellativo di virtù, si oppone in molti punti agli stessi fondamenti di quest’ultima. Lungi dall’essere teologale nel suo oggetto o nei suoi mezzi, lo è ancor meno nella sua motivazione. Credendo di basarsi su una antropologia teocentrica, Giovanni Paolo II ha invece assunto come fondamento l’immanenza vitale condannata dal Papa San Pio X, così che una tale speranza, che certo ben difficilmente sfugge alla condanna pronunciata dal profeta Geremia - «maledetto l’uomo che confida nell’uomo» (17, 5) – non può essere offerta come esempio al popolo cristiano. In questa ottica, beatificare Giovanni Paolo II  significherà, non dare per modello la virtù, ma promuovere un’utopia.

III – Giovanni Paolo II e la virtù della carità (introduzione al cap. III)

Nel suo trattato sulle beatificazioni e canonizzazioni, il Papa Benedetto XIV spiega quali sono i segni richiesti per stabilire che un servitore di Dio ha praticato la carità verso il prossimo in maniera eroica. La carità eroica presuppone innanzi tutto la carità comune e questa si esprime praticando le opere di misericordia corporale e spirituale. Tra i segni della misericordia spirituale si notano i seguenti: correggere coloro che sono nell’errore e riportarli sulla via della salvezza; aver cura della salvezza delle anime e desiderare per queste i mezzi di salvezza che desideriamo per noi stessi. La carità eroica consiste nel compiere queste opere prontamente, facilmente e senza resistenza, con gioia, non una volta tanto, ma spesso, anche se le circostanze rendono difficile il loro compimento.
Ora, la pastorale di Giovanni Paolo II non permette di intravedere questo vero zelo missionario. La sua attitudine all’interno del dialogo ecumenico e interreligioso, lungi dal manifestare una carità applicata alle opere di misericordia spirituale, si rivela essere molto diversa dal comportamento che ha mostrato Nostro Signore Gesù Cristo: « se Gesù è stato buono con gli smarriti e con i peccatori, non ha rispettato le loro convinzioni erronee, per quanto sincere sembrassero (2)». In effetti, Giovanni Paolo II ha manifestato troppo spesso il suo rispetto per i punti di dottrina sui quali i suoi interlocutori ecumenici si opponevano alla fede cattolica. Per di più, lungi dal ricordare loro, con tutta la delicatezza richiesta, la necessità della fede cattolica per essere salvati, egli ha spesso accantonato il messaggio della Chiesa, l’ha perfino deformato. La sua “carità”, dunque, non fu quella della verità e per ciò stesso essa si opponeva anche alla carità comune.
Visto che sarebbe lungo illustrare questo aspetto in ciascuna delle relazioni extra ecclesiali di Giovanni Paolo II, qui ci soffermeremo, a mo’ d’esempio, solo sulle relazioni col giudaismo. Questo esempio è emblematico per due ragioni: innanzi tutto perché si è trattato di uno dei dialoghi maggiormente sviluppati da papa Wojtyla – forse in ragione della sua esperienza personale – e per ciò stesso quello sul quale forse si è maggiormente espresso; poi perché, in ragione stessa del rapporto che il giudaismo mantiene con la Scrittura, sarà più facile constatare se il defunto papa, in forza di questa stessa Scrittura, abbia esercitato la carità della verità o, al contrario, ha messo la lucerna sotto il moggio.

NOTE

– Pio IX, Bolla Ineffabilis Deus,  DzH 2802
2 – San Pio X, Lettera Notre charge apostolique, 42



Fonte: Una Vox

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