venerdì 8 aprile 2011

NON POSSUMUS!



Editoriale
di don Davide Pagliarani
È possibile celebrare il XXV anniversario di Assisi 1986, facendo astrazione di ciò che quell’evento ha significato?No, perché i distinguo e le precauzioni, che possono esserci, non raggiungeranno che pochi «addetti ai lavori»: non si può correggere un errore senza riconoscerlo come tale e, tanto meno, celebrandolo.

Freccia bluCalendario 2011 (per il calendario liturgico vedi qui)
Cari lettori,
Il nuovo anno è incominciato con l’annuncio da parte del Pontefice di una nuova riunione dei rappresentanti di tutte le religioni del mondo ad Assisi: «…ho avuto modo di sottolineare come le grandi religioni possano costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana, ed ho ricordato, a tale proposito, che in questo anno 2011 ricorrerà il 25° anniversario della Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace che il Venerabile Giovanni Paolo II convocò ad Assisi nel 1986. Per questo, nel prossimo mese di ottobre, mi recherò pellegrino nella città di san Francesco, invitando ad unirsi a questo cammino i fratelli cristiani delle diverse confessioni, gli esponenti delle tradizioni religiose del mondo e, idealmente, tutti gli uomini di buona volontà, allo scopo di fare memoria di quel gesto storico voluto dal mio Predecessore e di rinnovare solennemente l’impegno dei credenti di ogni religione a vivere la propria fede religiosa come servizio per la causa della pace»[1].
Non è un segreto che il Card. Ratzinger fosse contrario alla riunione del 1986: la sua assenza in tale occasione non passò inosservata. Cosa è successo? È cambiato qualcosa?
A questo proposito non sarebbe onesto tacere sulle puntualizzazioni che il Card. Ratzinger fece, a più riprese, per arginare il rischio di sincretismo e di relativismo, arrivando a denunciare nelle riunioni interreligiose un pericolo oggettivo in questo senso.
È altrettanto evidente che nell’annunciare la giornata dell’ottobre prossimo il Papa evita di parlare di «preghiera »; infatti passò alla storia come poco convincente la precisazione che il Vaticano fece nell’86 per sottolineare che ad Assisi «non pregheremo insieme ma saremo insieme per pregare». Si trattava d’un primo tentativo - un po’ bizantino - per cercare di rispondere alle obiezioni dei “critici” e per tranquillizzare le coscienze dei perplessi.
Cosa succederà esattamente ad Assisi non lo sappiamo ancora: ci limitiamo pertanto ad alcune riflessioni in base agli elementi attualmente a disposizione.
Assisi ’86 rappresenta indubbiamente una delle giornate più tristi della Storia della Chiesa: grazie ai moderni mezzi di comunicazione, il mondo intero ha contemplato i rappresentanti di tutte le religioni riuniti dal Papa per espletare i loro culti idolatrici nelle chiese di una città simbolo del Cattolicesimo. Quella giornata, voluta da Giovanni Paolo II e per la quale questo Pontefice è passato alla Storia, è purtroppo la grande icona del suo pontificato e del progetto ecumenicointerreligioso, impressa per sempre nella memoria dell’umanità intera che non legge i testi del Concilio - né le considerazioni teologiche del Card. Ratzinger - ma che ha visto quelle immagini storiche. Esse hanno contribuito in modo determinante a seminare l’indifferentismo e l’idea che al di fuori di Cristo esistano vie alternative per giungere al Padre e ottenere la pace.
Pertanto nella misura in cui ad Assisi accadesse sostanzialmente ciò che è accaduto 25 anni fa non possiamo che reiterare il nostro nullam partem negli stessi termini utilizzati in quell’occasione.
Nella misura in cui l’attuale Pontefice volesse realmente dare un significato diverso a tale manifestazione, attraverso una serie di misure, di distinzioni e di “precauzioni”, ci viene spontanea qualche riflessione.
Pur cogliendo - in questa ipotesi - la volontà di mettere un freno e di un qualche ripensamento, onestamente ci sembra impossibile rettificare un evento della portata di Assisi ’86 senza sconfessarlo. Spieghiamo perché.
Tale iniziativa è stata un atto voluto da un Papa come applicazione e retta interpretazione - all’atto pratico - di ciò che il Concilio ha decretato in termini di ecumenismo e di dialogo interreligioso: proprio in relazione ai testi stessi del Concilio tale riunione fu ampiamente giustificata nelle colonne dell’Osservatore Romano. Volerla in qualche modo redimere senza denunciare lo scandalo che ha provocato appare come un tentativo inadeguato; ovviamente nessuno nega che potrebbe essere imbarazzante e richiederebbe coraggio smentire ciò che è accaduto nell’86, ma il danno alle anime e alla Chiesa provocato da quell’evento postulano - oggettivamente - una riparazione proporzionata alla quale non ci si può sottrarre: questo non per dare ragione ai “critici” di turno, ma per rimettere Cristo e la Sua Chiesa al loro posto e per ridare alle anime un segnale sufficientemente chiaro in relazione alla confusione generata da quell’evento catastrofico.
Ci sembra riemerga, in questo quadro, una prospettiva analoga a quella dell’ermeneutica della continuità: si cerca di correggere le storture senza mettere in discussione il loro fondamento.
In secondo luogo il Papa intende celebrare un anniversario: egli si recherà ad Assisi, a distanza di venticinque anni, «allo scopo di far memoria di quel gesto storico voluto dal mio Predecessore», di cui contestualmente viene annunciata l’imminente beatificazione. Ci sembra impossibile rettificare il significato di Assisi ’86 proprio celebrandone l’anniversario, previa beatificazione di colui che ne è l’artefice, rievocando così tutto ciò che quell’evento ha significato nella coscienza della cristianità e dell’umanità: è questo, infatti, l’effetto oggettivo della celebrazione di un anniversario.
In terzo luogo nessun uomo di buona volontà può ignorare che l’ermeneutica di un evento eminentemente mediatico non è data dai distinguo teorici che possono accompagnarlo, né tantomeno dalle considerazioni teologiche che - a malapena - gli addetti ai lavori conoscono, ma dall’impatto che tale evento può avere, valutabile attraverso ciò che evoca immediatamente: questa osservazione, più pastorale e concreta, dovrebbe essere assolutamente primaria nel momento in cui ci si ispira ad una prassi pastorale; purtroppo Assisi è un fatto storico, un evento reale, non un testo accademico correggibile con qualche nota in calce.
Inoltre, sempre su questa linea, ci sembra opportuno sottolineare che al di là di ciò che può accadere in tale o tale altra riunione ecumenica, ormai si è consolidato lo spirito di Assisi, così come oltre al Concilio si è consolidato lo spirito del Concilio; ritornare ad Assisi dopo venticinque anni significa, nella percezione comune, riconfermare tale spirito canonizzato da Giovanni Paolo II in quell’occasione e in quelle che ad essa si sono ispirate: è questo spirito, incarnato in una prassi divenuta comune, che determina il tono reale e mediatico degli eventi che ad esso si ricollegano. È questo spirito che - purtroppo - non viene minimamente smentito nemmeno oggi.
Infine nessuno nega che la gerarchia cattolica, avendo de facto una autorità morale universale, possa e debba lavorare per la pace, al limite coinvolgendo rappresentanti di altre religioni: tale intento però deve restare su un piano eminentemente civile e non religioso. In questa prospettiva, il fatto che un Papa parli di pace davanti - ad esempio - ai rappresentanti delle nazioni o a qualche imperatore, rientra perfettamente in un ruolo storico a cui la Chiesa non si è mai sottratta; costruire, invece, la pace attraverso l’apporto specifico che le grandi religioni possono fornire come tali, significa, a prescindere da ogni altra considerazione, collocarsi direttamente su di un piano religioso, quantunque non si preghi insieme e quantunque si eviti qualunque forma di sincretismo nel senso tecnico del termine. Questa prassi non solo è nuova, ma appare incompatibile con il Magistero e la prassi costante della Chiesa.
Illuminanti e profetiche ci sembrano a questo proposito le parole di Pio XI nell’incipit dell’enciclica «Mortalium Animos»: «Forse in passato non è mai accaduto che il cuore delle creature umane fosse preso come oggi da un così vivo desiderio di fraternità - nel nome della stessa origine e della stessa natura - al fine di rafforzare ed allargare i rapporti nell’interesse della società umana. Infatti, quantunque le nazioni non godano ancora pienamente i doni della pace, ed anzi in talune località vecchi e nuovi rancori esplodano in sedizioni e lotte civili, né d’altra parte è possibile dirimere le numerosissime controversie che riguardano la tranquillità e la prosperità dei popoli, ove non intervengano l’azione e l’opera concorde di coloro che governano gli Stati e ne reggono e promuovono gli interessi, facilmente si comprende - tanto più che convengono ormai tutti intorno all’unità del genere umano - come siano molti coloro che bramano vedere sempre più unite tra di loro le varie nazioni, a ciò portate da questa fratellanza universale.
Un obiettivo non dissimile cercano di ottenere alcuni per quanto riguarda l’ordinamento della Nuova Legge, promulgata da Cristo Signore. Persuasi che rarissimamente si trovano uomini privi di qualsiasi sentimento religioso, sembrano trarne motivo a sperare che i popoli, per quanto dissenzienti gli uni dagli altri in materia di religione, pure siano per convenire senza difficoltà nella professione di alcune dottrine, come su un comune fondamento di vita spirituale. Perciò sono soliti indire congressi, riunioni, conferenze, con largo intervento di pubblico, ai quali sono invitati promiscuamente tutti a discutere: infedeli di ogni gradazione, cristiani, e persino coloro che miseramente apostatarono da Cristo o che con ostinata pertinacia negano la divinità della sua Persona e della sua missione. Non possono certo ottenere l’approvazione dei cattolici tali tentativi fondati sulla falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni, in quanto tutte, sebbene in maniera diversa, manifestano e significano egualmente quel sentimento a tutti congenito per il quale ci sentiamo portati a Dio e all’ossequente riconoscimento del suo dominio. Orbene, i seguaci di siffatta teoria, non soltanto sono nell’inganno e nell’errore, ma ripudiano la vera religione depravandone il concetto e svoltano passo passo verso il naturalismo e l’ateismo; donde chiaramente consegue che quanti aderiscono ai fautori di tali teorie e tentativi si allontanano del tutto dalla religione rivelata da Dio».


[1] Discorso di Benedetto XVI dopo l’Angelus del 1° gennaio 2011.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.