sabato 5 febbraio 2011

La crisi del clero



di Daniele Di Sorco

Alcuni ricorderanno la vicenda di don Yannick Escher, canonico regolare agostiniano, che l'estate scorsa ha abbandonato l'Abbazia di San Maurizio di Agauno, in Svizzera, per unirsi alla Fraternità di S. Pio X. In un video divulgato di recente dall'agenzia DICI (http://gloria.tv/?media=122866), il religioso ha esposto i motivi che l'hanno spinto a tale scelta. Ne risulta un quadro allarmante, ma profondamente realistico, della situazione attuale del clero. Le riflessioni del can. Escher rivestono, a mio avviso, una grande importanza, non solo perché mettono in luce tutti i principali aspetti della crisi, ma anche perché si fondano sulla sua esperienza di sacerdote, tenendosi a debita distanza da qualunque pregiudizio ideologico o intento polemico. Proprio questo è il loro valore aggiunto: lo spassionato realismo. E proprio questo è ciò che manca al cattolicesimo di oggi, ivi compresi certi ambienti che si dicono legati alla Tradizione. L'immersione nella realtà, nella realtà vera, è ciò che serve per dissipare decenni di teorie, equivoci, dubbi, che ancora oggi inducono molti a negare l'esistenza della crisi o ad ignorare le sue cause profonde. Perciò ho creduto opportuno realizzare una traduzione italiana del discorso di don Escher. A tale scopo, mi sono servito della trascrizione pubblicata sulla lettera di aggiornamenti (n. 268) di La paix liturgique. Buona lettura.


I - Il prete di oggi è una vittima

Immaginate un prete qualunque che arriva in una parrocchia. Nella maggior parte dei casi, egli si trova da solo in mezzo alle rovine. Si potrà dire che un'affermazione del genere è eccessiva, caricaturale, ma bisogna guardare in faccia la realtà. Che cosa avviene? Poche persone al catechismo, capelli bianchi, chiese in cattive condizioni - dipende dai luoghi e dai paesi - e un sovraccarico di lavoro, di Messe, di doveri. Il prete fa una vita da funzionario, sempre impegnato a preparare qualcosa, a correre da una parte all'altra; e non vede grandi risultati. E poi, una grande solitudine. Egli è vittima di quanto è accaduto negli anni del post-Concilio, quando tutto il tessuto parrocchiale è stato distrutto.

Troppo spesso si cade nell'errore di dire che è il mondo ad essere cambiato. Non è colpa nostra, è colpa del mondo. Troppo facile. Si scaricano sempre sugli altri le proprie responsabilità, si individua il capro espiatorio e si dice: è il mondo, è la mentalità della gente, la gente non è più cristiana... Ebbene, non è il mondo che ha fatto chiudere le scuole cattoliche, gli ospedali cattolici, i patronati. Non è il mondo, sono i preti che hanno deciso di chiudere, di cambiare.

Vorrei citare una frase pronunciata da don Ducarroz, prevosto della cattedrale di S. Nicola a Friburgo, in un momento di grande lucidità e onestà. Egli è stato ordinato proprio alla fine del Concilio. Parlando alla radio, qualche anno fa, ha detto: "Quando sono stato ordinato, ci hanno detto: toglietevi l'abito talare, chiudete le opere cattoliche [scuole, ospedali, ecc.] - tanto ci sono quelli delle collettività civili - andate dalla gente, apritevi. L'abbiamo fatto, le nostre chiese si sono svuotate, i nostri seminari si sono svuotati: forse ci siamo sbagliati". Un momento di lucidità straordinaria.

Il fatto è che il giovane prete arriva con un certo ideale, pieno di buona volontà, e si trova di fronte alle rovine. Ed è solo, di fronte a queste rovine. È la vittima di questo stato di cose senza esserne responsabile.


2 - Il prete è mal formato

Sulla carta, bisogna attenersi alle disposizioni di Roma, che controlla i corsi accademici. Ma poi occorre valutare la qualità del corso accademico. La filosofia, molto spesso, non è altro che storia della filosofia. Quando Roma parla della filosofia, è sottinteso ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, cioè la filosofia di S. Tommaso, che prepara a comprendere la teologia. Invece no, si studia la storia della filosofia o la filosofia del pensiero moderno. Dunque non si dispone più di strumenti concettuali.

Inoltre, la questione del dogma, per esempio, è ridotta a storia del dogma con un po' di speculazione. Poi - almeno, a quanto ho potuto vedere io all'università di Friburgo - si porrà l'accento sulla pastorale, l'omiletica, la pedagogia religiosa, che non costituiscono certo il fondamento della formazione sacerdotale. Queste cose si imparano sul terreno, fuori dell'ateneo, alla fine del corso. Invece, le materie importanti sono insegnate in modo poco approfondito, non costituiscono più l'ossatura della teologia e della formazione. Ecco il problema.

Certo, c'è ancora qualche nozione, qualche vaga nozione, ma dai seminari e dalle università, da quanto ho potuto vedere a Friburgo, non escono più dei teologi in quanto tali. E poiché il livello non è elevato, si abbassano, a poco a poco, anche i requisiti. Per esempio, il corso di storia della Chiesa, che avrebbe dovuto essere di livello universitario, in realtà era adatto, tutt'al più, a un'ultima classe di liceo. E confrontandosi con gli studenti della stessa età che frequentavano corsi di storia tenuti da professori laici - storia contemporanea, storia moderna - emergeva che essi frequentavano dei veri corsi di storia, con un intento accademico, scientifico. Per la storia della Chiesa, era completamente diverso: si trattava di una specie di riassunto abbozzato a grandi linee.Si aveva l'impressione di trovarsi di fronte ad una specie di fai-da-te accademico. Ma senza alcuno strumento concettuale.

Ovviamente, la storia, la Tradizione, tutto comincia col pre-Concilio o col Concilio. È uno dei principi guida. Ma se questa generazione di preti non conosce ciò che c'era prima, è perché i preti che hanno avuto [come maestri] hanno criticato ciò che c'era prima. Si è detto loro: "Ora non è più come prima".

Posso fare un tipico esempio: corso di pastorale, università di Friburgo. Ero studente. Il prete [professore] si presenta con un pannello e ce lo illustra: "Prima la Chiesa era questo", mostrandoci, disegnata sul pannello, una piramide. Poi gira il pannello: "Ora la Chiesa è questo": c'era disegnato un cerchio. Ero al secondo o terzo anno di università. Lo scopo era quello di farci capire che cos'era la Chiesa in teologia pastorale.

È tutto un confronto, un'opposizione... Prima [del Concilio] non c'è niente o, se c'è qualcosa, viene confinata nell'ambito della storia o dell'aneddotica.

La liturgia, per esempio. Ci dovrebbe essere una certa continuità, per usare le parole del Santo Padre, un'ermeneutica della continuità. Invece, secondo le lezioni di un professore di Friburgo, la liturgia si è pervertita al tempo di Costantino e ha recuperato le sue fonti primitive e meravigliose solo col rinnovamento liturgico, soprattutto con la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e la sua realizzazione nella Messa di Paolo VI. Tutto ciò è molto chiaro. Poi vi è una parentesi nella parentesi, cioè la riforma tridentina. Tutto chiaro.


3 - Il prete è prigioniero

Un prete che ha sperimentato la Tradizione della Chiesa, ciò che la Chiesa ha sempre fatto, si sente come prigioniero, perché si trova preso in ostaggio tra i suoi confratelli, i fedeli, i collaboratori pastorali e il suo Vescovo.

Mi ricordo di un giovane prete che diceva di essere stato obbligato ad imparire un'assoluzione collettiva per la confessione, pratica interdetta ancora oggi dalla Chiesa, ma largamente diffusa in diverse diocesi, con la tacita approvazione del Vesovo.

Ma era stato obbligato a farlo, e subito dopo si era confessato con un altro prete. Ne era ancora sconvolto. Tutto ciò è tragico. Egli è come un prigioniero, perché deve farlo ma sa che non è giusto. È tragico in questo senso. E se si appella ai documenti del Sommo Pontefiche sulla confessione, o al motu proprio di Giovanni Paolo II sugli abusi liturgici, o ai decreti sul ruolo dei laici in chiesa, sui rapporti tra i laici e i preti; se si appella, dicevo, a questi documenti, peraltro abbastanza chiari, gli viene risposto: "Per foruna tra noi e Roma ci sono le montagne". Oppure: "Questo documento dice cose in sé giuste, ma non è adatto alla nostra situazione ecclesiale".

Egli è prigioniero, eppure vorrebbe fare qualcosa, perché molto spesso si accorge che c'è un problema...

Altro esempio, recente. In una parrocchia, un prete della mia età mi ha detto: "Il direttore del coro è divorziato, tutti sanno che convive, ma io sono costretto a dargli la Comunione, perché, se mi rifiuto, io non avrò più un coro e lui si lamenterà pubblicamente. Ho provato a parlargli, ma non vuole sentire ragioni. Che devo fare?".

Un altro prete mi ha detto: "Sono stato nominato ad una parrocchia nella quale non potevo fare nulla: i catechismi erano già stati distribuiti dai laici prima che io arrivassi; non ho alcun ruolo nella preparazione ai sacramenti, né alla prima Comunione né alla Cresima, perché sono i laici ad occuparsene; non ho neppure il diritto di occuparmi dei chierichetti della Messa, è un laico che se ne fa carico. Quindi non posso fare nulla. Servo solo per dire la Messa e per confessare le poche persone che ancora si confessano. E basta".

In questo senso il prete è prigioniero. Anche se è armato della migliore buona volontà. E so bene che non si tratta di casi isolati.


4 - Il prete DEVE obbedire

Ecco il grande paradosso. Tutto è stato svenduto, ma esiste ancora un'arma, quella dell'obbedienza. I Vescovi sono Papi nelle loro diocesi. Lo dissi ad uno che faceva appello al mio dovere di obbedienza: "Se vuole l'obbedinza del suo clero, Eccellenza, sia lei per primo a dare l'esempio, obbedendo al Santo Padre, altrimenti non può pretendere obbedienza dal suo clero". La discussione è finita lì.

È assai significativo che si insista continuamente sull'obbedienza. I preti finiscono per farsene un complesso, pensando: "Sono disobbediente, sono un cattivo prete, non va bene". Quindi, in coscienza, meglio sbagliare obbedendo che fare le cose giuste disobbedendo.


5 - Il prete snaturato

Credo che vi sia una reale volontà di non avere più la pastorale sacramentale che la Chiesa ha sempre praticato, vale a dire la confessione e la santa Messa. Oggi bisogna andare agli incontri con la gente - cosa in sé positiva, nella Chiesa tutti i missionari l'hanno fatto - ma per risvegliare in essi il desiderio di Cristo, suscitare un'esperienza trascendente del sacro perché essi stessi scoprano Cristo.

Non bisogna più essere dogmatici o imporre delle formule. La chiamano la pastorale della formazione. Ma queste pastorali cambiano ogni anno, anzi ogni cinque anni ci si trova di fronte ad un nuovo metodo pastorale, si scrive, si organizzano simposi, poi ci si accorge che non funziona, si cambia, si adatta... Chi dobbiamo biasimare?

Oggi la gente, i giovani - io ho lavorato molto coi giovani - hanno sete della verità. La verità ha un nome, un volto, non è una semplice teoria, è una persona, è Gesù Cristo, e bisogna essere capaci di portare loro nostro Signore Gesù Cristo. Certo, con molto tatto, delicatezza, bisogna presentare la verità in modo amabile, non vogliamo uccidere nessuno a colpi di catechismo, su questo siamo tutti d'accordo; ma non possiamo limitarci ad essere animatori di un "villaggio turistico" spirituale: non avrebbe alcun senso. Siamo, come dice san Paolo, gli ambasciatori di Cristo. Vorrei sapere quanti, oggi, considerano il prete come ambasciatore di Cristo.


6 - Uno stato di liquefazione

Sono fatti che io stesso ho sperimentato quando ero studente. Molti altri, in seminario, hanno sperimentato la stessa cosa. Il mio scopo è quello di illustrare una tendenza. Non bisogna generalizzare, ma al tempo stesso occorre mostrare lo stato di liquefazione che caratterizza la formazione clericale e che si cerca di imporre ai seminaristi: musiche da liscio per l'adorazione del Santissimo, una lunetta per l'adorazione eucaristica posta ai piedi dell'altare sopra un ceppo d'albero per simboleggiare l'umiltà di nostro Signore, e altre cose di questo genere. Lo scopo non è generalizzare. Vi sono episodi ben precisi, che sono il segno di una più generale perdita di senso.


7 - Vaticano II, il vitello d'oro

È il vitello d'oro, è un idolo. Non lo si legge mai. Sarei curioso di sapere chi l'ha letto da capo a fondo, commentato, annotato. Se si avesse per lo meno l'audacia, il coraggio di leggere integralmente il Concilio, se ne potrebbe discutere. Ma chi l'ha letto integralmente? Si parla per slogan. È lo spirito del Concilio, è un evento. La scuola di Bologna, marcatamente liberale, che ha studiato il Concilio e pubblicato una storia del Concilio in cinque o sei volumi, tradotti in parecchie lingue tra cui il francese, mostra assai bene che il Concilio non sono i testi, il Concilio è un evento, che prosegue nella durata e nel tempo. È uno spirito. Così ci viene risposto. Se si prova ad invocare il Concilio, per esempio la costituzione sulla liturgia: "il Concilio afferma che il latino resta la lingua della Chiesa, che il canto gregoriano resta il canto proprio della Chiesa latina", ci si sente dire: "Ora siamo andati oltre, il Concilio è spirito, apertura, rinnovamento".

Si tratta davvero di un idolo, continuamente invocato, che distrugge l'interiorità. Perché, al di fuori di tutto questo, non c'è nulla. Dall'idolo deriva l'ideologia e l'ideologia è sempre, sempre totalizzante. Esclude tutto il resto, distrugge tutto il resto. E la caratteristica dell'ideologia è quella di distruggere anche coloro che la professano, di acciecarli completamente. Questo è il problema: siamo di fronte ad un acciecamento. Non penso che ci sia stata veramente della mala fede, ma piuttosto una forma di acciecamento.

Come è possibile che, con la pratica religiosa al 5%, si cerchi la soluzione in rimedi puramente umani, come l'accorpamento delle parrocchie? Ma dove si vive? A un certo punto, bisogna sedersi, affrontare la situazione e dire: "Così non va bene". Invece no, si continua. Si arriva perfino a giustificare i fallimenti pastorali dicendo: "Nostro Signore si è umiliato: la Chiesa vive la stessa condizione, è umile e povera", e si cade in una sorta di vittimismo che è completamente falso. Ma non si cessa di giustificare tutto questo col Concilio.


8 - Il "peccato" di Tradizione

Credo sia il peccato più grave.

Nella Chiesa vi perdonano molte cose. Vi perdonano se avete una relazione amorosa, se non dite Messa tutti i giorni, se trascurate il Breviario, se deridete preghiere approvate, se sostenete opinioni eterodosse, e molto altro ancora. Tutto ciò vi sarà perdonano. Perché bisogna essere molto caritatevoli. Una sola cosa non vi sarà perdonata.

Il peccato supremo è quello di guardare con simpatia alla Tradizione e, peggio ancora, di guardare con simpatia alla Fraternità di S. Pio X. Vi sarà permesso di partecipare al culto protestante, di fare la "comunione" in una funzione protestante (è già accaduto), di organizzare un dialogo interreligioso coi buddisti, di andare a ritiri zen. Anzi, si dirà che siete i preti più aperti del mondo, che siete meravigliosi, che siete da prendere ad esempio.

Invece, celebrare la santa Messa in latino, non necessariamente la Messa di S. Pio V, ma anche quella di Paolo VI, oppure portare l'abito talare, è sospetto. Recitare il rosario e confessare nel confessionale significa essere sospettati di integralismo.

Fuguratevi, allora, mettersi a parlare positivamente, con amore ed amicizia, di mons. Lefebvre, per esempio, o della sua opera: imperdonabile. Vi sarà perdonato tutto, tranne questo.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.