Note a margine di una favola di don Alfredo Morselli.
Quando si ricorre ad una metafora, o ad una similitudine, si vuole fornire una alternativa leggibile ad un evento reale di difficile comprensione. Così procedeva anche Nostro Signore, che con le Sue parabole ha saputo rendere comprensibili ai semplici le verità della Fede. Così hanno fatto anche i Dottori della Chiesa, i predicatori, i parroci; nel loro piccolo, lo fanno ogni giorno i maestri e i genitori. Va però ricordato che una similitudine implica, nell'atto stesso in cui viene concepita, l'esercizio di un giudizio critico, che si esplicita proprio nella semplificazione e nella morale che essa rende immediatamente chiara.
La parabola di don Morselli parte dalla complessa realtà ecclesiale del Postconcilio, la traduce con una similitudine e ne ricava una morale. Così la Chiesa è la Mamma della favola; il Concilio è la torta; San Pietro è il signor Pietro; il Denzinger è il ricettario dell'Artusi; i modernisti sono i dipendenti traditori e via dicendo. Ma questa favola è frutto di una personale lettura di don Alfredo, che semplifica – certamente con le migliori intenzioni – ma interpreta a modo suo una realtà ahimé ben più complessa. La semplificazione fa comunque parte del processo di creazione di una parabola: quello che può non essere necessariamente condiviso è la semplificazione di una valutazione opinabile della realtà.
Don Morselli presenta la Mamma della favola come autrice della torta pastorale, ed attribuisce l'avvelenamento degli ospiti al veleno messo nei piatti dai dipendenti infedeli. Questa è una interpretazione dei fatti su cui è lecito – se non doveroso – dissentire. Si potrebbe essere più d'accordo sulla metafora cui è ricorso mons. Williamson, che non si sbilancia su quanto sia autorevole l'autore della torta, ma si limita a considerare che se vi è anche solo un ingrediente avvelenato, essa è da gettare per intero: in questo caso la similitudine è più calzante perché è meno complessa. Costruire intorno alla torta una pasticceria, un amministratore delegato, una pasticcera, i piatti avvelenati ecc. finisce col rendere la favola troppo vicina alla realtà che vuole semplificare, proprio nel momento in cui si complica quella per avvicinarla a questa. Sembra piuttosto di aver a che fare con un'indagine di Mrs. Fletcher, la Signora in giallo o un caso per Ercule Poirot: l'assassino è il maggiordomo? O anche con un racconto edificante per converse fin de siècle, tanta è la dose di caramello e di giulebbe con cui don Alfredo – per mantenere la metafora – cerca di rendere appetibile l'indigesta satura conciliare.
Non crediamo sia il caso di cimentarci in altre fiabe: finiremmo per cadere a nostra volta nella piège della similitudine, spaccando la realtà a colpi d'ascia. Ma ci piacerebbe sentir citare i documenti papali e magisteriali non solo quando si mette in dubbio l'autorità del Vaticano II, ma anche quando qualcuno – magari proprio da Roma o proprio in occasione di quel Concilio – si discosta dai Concili Cattolici e dal Magistero della Chiesa. Perché chi dall'interno ha devastato la pasticceria, avvelenato le torte e i pasticcini, corrotto i cuochi ecc. è convinto di aver messo alla porta la Mamma ancora prima di iniziare a fare la torta: quando ha gettato la sua ricetta e ne ha scritta un'altra pessima assieme ai cuochi tedeschi e olandesi, usando ingredienti adulterati o scaduti. Per quanta glassa si versi sopra quella torta, non sarà mai opera della Mamma, anche se è uscita dalla stessa pasticceria. E se in più ci sono pure dipendenti che aggiungono del veleno nei piatti su cui sono messe le indigeste porzioni, rimane comunque una realtà oggettiva: mai, in tutta la storia di quella pasticceria, era uscito un dolce così mal riuscito.
Che la torta sia pessima e che abbia avvelenato, intossicato o anche solo fatto star male un'infinità di clienti, è sotto gli occhi di tutti. Ergo, delle due l'una: o la Mamma non è una buona cuoca, o quella torta non è opera sua. Tertium non datur. Con buona pace di don Morselli e di don Girolamo.
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