mercoledì 5 settembre 2012

L’inevitabile approdo del Vaticano moderno: Mons. Müller custode della dottrina cattolica



di Belvecchio

Quando si rese noto che il nuovo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sarebbe stato il vescovo di Ratisbona, Mons. Gerhard Ludwig Müller, da più parti vennero espresse diverse perplessità sulla opportunità di questa nomina, a causa dell’orientamento culturale e teologico manifestato dal vescovo in diverse occasioni.
Quando poi, a giugno scorso, giunse la nomina mentre il Vaticano trattava l’annosa e interminabile vicenda della Fraternità San Pio X, nei confronti della quale il vescovo aveva in passato espresso pesanti giudizi e manifestato inverosimili intenzioni, in ambito tradizionale si avanzarono molte articolate riserve, sia per la vicinanza vissuta per anni dal vescovo con la cosiddetta teologia della liberazione, sia per alcune posizioni teologiche circa i misteri della fede, sia per le reiterate aperture espresse dal vescovo nei confronti dei non cattolici, da considerare, secondo lui, facenti parte della Chiesa.
Le riserve avanzate dalla Fraternità San Pio X, però, finirono col catalizzare l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa, sviandola dalle questioni centrali: concezione dei miracoli, reale Verginità di Maria, realtà dell’Eucarestia, Redenzione, comunione cattolica (si veda:  comunicato italia ecomunicato Germania). Cosa comprensibile, peraltro, visto che da allora sarebbe stato il nuovo Prefetto ad occuparsi dei rapporti con la Fraternità.

Le diverse critiche generarono delle reazioni, a titolo difensivo: furono pochi quelli che provarono a capire in cosa consistesse il vero problema, mentre i molti, com’è umano e inevitabile, si diedero a difendere il nuovo nominato per il solo fatto che il Papa l’avesse chiamato ad un posto di così alta e delicata responsabilità. Se il Papa l’ha voluto a quel posto di “custode della dottrina”, si diceva, non possiamo non fidarci del giudizio del Papa, ergo, Mons. Müller è senza macchia e senza paura.
È stata chiamata in causa perfino la “grazia di stato”, tale che, indipendentemente da ciò che il vescovo avesse detto o scritto in passato, a partire dalla sua nomina non avrebbe mancato di dimostrarsi un perfetto cattolico ortodosso, del tutto aderente alla dottrina del Papa.
Non v’è dubbio che sia le difese ad oltranza e spesso “d’ufficio”, sia il supposto automatismo secondo il quale basta mettere un cattolico eterodosso a fare il catechista perché subito la sua eterodossia si trasformi nella più perfetta ortodossia, richiederebbero intere pagine di chiarimenti e spiegazioni, che qui non è nostra intenzione produrre. Quello che invece ci interessa è cercare di capire se questa nomina a così delicato incarico, possa essere considerata accidentale, per tutta una serie di circostanze, o fiduciaria, per l’annosa amicizia fra il Papa e il vescovo, culminata nell’incarico a Mons. Müller della cura della pubblicazione dell’“opera omnia” di Ratzinger-Benedetto XVI, oppure conseguente e coerente, sia col pensiero del Papa, sia con l’andazzo culturale-teologico, instauratosi nella Chiesa a partire dal Vaticano II.

Dal momento che i critici dei critici hanno ripetutamente fatto notare che non si possono estrapolare dei brani da un contesto per avanzare delle critiche che inevitabilmente finiscono col dimostrasi poco fondate e quindi ingiuste, noi abbiamo riprodotto un discorso intero di Mons. Müller e una intervista, intera, rilasciata in concomitanza con quel discorso. Il tutto datato 2008, in occasione del conferimento del dottorato honoris causa “in riconoscimento del suo esemplare e fecondo contributo agli studi teologici contemporanei”, da parte della Pontificia Università Cattolica del Perù.
Ovviamente, siamo ben coscienti del fatto che si obietterà che oggi siamo nel 2012 e che quel conferimento e quel discorso e quella intervista del 2008, non possono costituire “prova a carico”, per la loro episodicità. Ma è bene chiarire subito che non abbiamo la pretesa di fare l’esegesi di Mons. Müller, dei suoi pensieri, dei suoi convincimenti, delle sue preferenze, noi ci limitiamo a cercare di capire qual è la sua formazione culturale e la sua visione teologica, nell’ottica dell’incarico che svolge dal luglio di quest’anno come Prefetto custode della dottrina cattolica. E questo lo facciamo in un articolo che non ha la pretesa di ottenere un qualche dottorato, ma semplicemente di apportare un contributo circa la reale forma mentis che contraddistingue una buona parte dell’attuale gerarchia cattolica, Papa compreso.
Tranne che non ci si volesse impedire, per principio, l’esame critico del pensiero dei nostri pastori, quasi fossimo costretti, per fede, a fidarci a occhi chiusi degli uomini, piuttosto che dell’insegnamento di Dio.

Nel discorso in questione, che invitiamo a leggere per intero, Mons. Müller afferma:
«Quindi, non parlo della teologia della liberazione in forma astratta e teorica, tanto meno ideologica, per adulare il gruppo ecclesiale progressista. Allo stesso modo, non temo che essa possa essere vista come mancante di ortodossia. La teologia di Gustavo Gutiérrez, indipendentemente dall’angolo di visuale da cui la si guarda, è ortodossa perché ortopratica e ci insegna il corretto agire cristiano, perché viene dalla fede vera. Una breve lettura del libro Beber en su propio pozo dimostra che la teologia della liberazione si basa su una profonda spiritualità. Il suo substrato è la sequela di Cristo, l'incontro con Dio nella preghiera, la partecipazione alla vita dei poveri e degli oppressi, la disposizione ad ascoltare il loro grido di libertà e il loro anelito ad essere pienamente riconosciuti come figli di Dio; è il partecipare alla loro lotta per porre fine allo sfruttamento e all’oppressione, al loro desiderio per il rispetto dei diritti umani, alla loro esigenza di giusta partecipazione alla vita culturale e politica della democrazia. Si tratta dell’esperienza di non sentirsi estranei nel proprio paese e del fatto che la Chiesa e lo Stato vogliano essere rifugio e garanzia della libertà spirituale e civile. Lo scopo è, l’inizio e lo svolgimento di un processo dinamico che mira a liberare l’uomo dalla sua dipendenza culturale e politica.»

Né in questo brano, né in tutto il discorso, vi è un minimo accenno alla prima e suprema legge della Chiesa, e quindi del Papa e dei vescovi: la salus animarum. Qui si presenta la religione cattolica come avente lo scopo di rendere libero l’uomo nella e per la sua umanità. Punto e basta.
Una religione con la quale «Gesù manda i suoi discepoli a predicare a tutti gli uomini il Vangelo della salvezza e della liberazione». Una religione che, pur con una residua soprannaturalità, esprime una primaria e prevalente preoccupazione naturale e mira ad «Un nuovo inizio radicale [che] sarà possibile solo con un processo che porti ad una società più giusta, con i diritti umani garantiti da parte dello Stato. Ma è anche necessaria una spiritualità dei diritti umani. La più grande aspirazione di ogni persona, nel profondo della sua coscienza, dovrà essere l’acquisizione della consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e dello spirito di fraternità».
Non occorre perdere tempo a spulciare tutti gli scritti e i discorsi dell’emerito vescovo di Ratisbona, per capire che egli è convinto che la sua funzione in seno alla Chiesa consista nel realizzare una società umana “giusta e solidale”, perché sarebbe questo il vero motivo dell’Incarnazione.

Ora, qualcuno potrebbe far notare che quell’occasione e quel contesto sono gli stessi che giustificherebbero il linguaggio adottato da Mons. Müller, tale che cambiato il contesto si potrebbe sentire lo stesso vescovo esprimersi con un linguaggio diverso e magari più apprezzabile da parte nostra. È vero, e non abbiamo alcuna difficoltà ad ammetterlo, ma a parte il fatto che così si sosterrebbe che per un vescovo sarebbe lecito e sacrosantamente cattolico affermare in pubblico il contrario di ciò che pensa e crede; a parte questo trascurabile dettaglio: può un vescovo cattolico, un successore degli Apostoli, un dispensatore della dottrina, esimersi dal parlare della salvezza eterna, che è il vero scopo dell’essere cristiani? Può un tale responsabile della vita spirituale degli uomini, limitarsi a parlare loro del benessere terreno, al pari di un qualsiasi benpensante?  Può esimersi dal predicare, soprattutto in pubblico e in forma ufficiale, l’insegnamento di Cristo? Può limitarsi a compiacere il suo uditorio, trascurando di compiacere Dio?
A leggere il discorso, l’unica risposta è: Certo che può! Oggi! Dopo il Vaticano II!

E così si rende del tutto evidente che questo vescovo è perfettamente convinto che predicare e praticare l’insegnamento di Cristo significhi apportare agli uomini la buona novella della loro liberazione con la «lotta per porre fine allo sfruttamento e all’oppressione, al loro desiderio per il rispetto dei diritti umani, alla loro esigenza di giusta partecipazione alla vita culturale e politica della democrazia». Perché «Lodare Iddio incoraggia ad assumere la responsabilità per il mondo. E l’impegno per la giustizia sociale, la pace e la libertà, per la protezione della natura come base per la vita individuale e sociale, hanno il loro fondamento sull’azione divina creatrice e liberatrice».

Per qual fine Dio ci ha creati? – interrogava un tempo il Catechismo della Santa Chiesa, e rispondeva: Dio ci ha creati per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa vita e per goderLo poi nell’altra in Paradiso.

Un tempo!

Oggi i vescovi insegnano, come fa Müller, che Dio ci avrebbe creati per affermare i nostri diritti umani (!?) ed aspirare alla “giusta partecipazione alla vita culturale e politica della democrazia”.
Invero una concezione alquanto bizzarra della vera Religione di Dio. Una concezione dove non c’è posto né per il peccato né per il Paradiso. Basta perseguire “la giustizia sociale, la pace e la libertà, … la protezione della natura” ed ecco compiuto il nostro dovere di veri credenti in Dio e in Suo Figlio Gesù Cristo.
E questo lo spiega pubblicamente un successore degli Apostoli, che è convinto di adempiere così al suo compito di insegnare “ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt. 28, 20) e che secondo cui Nostro Signore non avrebbe certo insegnato: “Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?” (Mt. 16, 26).

E questi concetti, il vescovo, li ribadisce nell’intervista, dove afferma che
«Abbiamo bisogno di realizzare il benessere individuale e sociale, in conformità col messaggio di Gesù. In questo senso, la grande missione dell’Università cattolica consiste, non solo nel generare e preservare le sue idee all’interno del mondo cattolico, ma anche nel far sì che queste servano per lo sviluppo del mondo. … riflettere sulla relazione fra fede e ragione, ma anche fra la fede, l’amore e tutte le attività che rendono possibile che venga il Regno di Dio concretamente e realmente. La nostra missione come cristiani e come universitari è di aiutare a risolvere i problemi del mondo. Quando Gesù verrà, la prima cosa che ci chiederà è che cosa abbiamo fatto a favore di coloro che hanno fame e che soffrono di più.».
Dove cioè si parafrasa lo stesso Pater nosterconfondendo il Regno di Dio col regno di questo mondo e scambiando la salvezza delle anime col benessere individuale e sociale. Affermare che la missione dei cristiani consisterebbe nell’“aiutare a risolvere i problemi del mondo”, significa semplicemente concepire la Chiesa come un prodotto della filantropia umana e la funzione vescovile come un incarico di responsabilità in un organismo non governativo dell’ONU.

Ora, che questa forma mentale possa essere propria di un prete impegnato nel sociale, come si usa dire oggi, che possa informare la predicazione di un qualsiasi vescovo desideroso di farsi battere le mani nel corso di una rivendicazione sindacale, è già cosa molto grave, ma che possa essere propria del custode della dottrina, del prelato incaricato del compito delicatissimo di vegliare che nella Chiesa si insegni solo la Verità e la dottrina di Cristo… è cosa che lascia oltremodo sconcertati e preoccupati, per non dire indignati, poiché fa temere fortemente per i destini futuri dell’insegnamento cattolico e della stessa fede.
D’altronde, bisogna riconoscere che Mons. Müller avrà sicuramente attinto a fonti autorevoli, basta aver letto, infatti, i documenti del Vaticano II e i relativi discorsi dei papi del Concilio, soprattutto di Paolo VI, per stupirsi poco di questa professione di fede nell’uomo anteposta alla professione di fede in Dio. 
«Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo», diceva già Paolo VI (Discorso di chiusura del Concilio, 7 dicembre 1965), vantandosene. E il povero Paolo VI forse non si rendeva conto che incamminandosi per quella strada, ciò che lui allora diceva essere «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio», si sarebbe inevitabilmente evoluta nella “religione dell’uomo che si fa Dio, che prevale su quella del Dio che s’è fatto Uomo”. 
È l’inevitabile epilogo del volersi muovere sul versante del mondo, che è talmente scosceso da condurre irrimediabilmente in basso… sempre più in basso!

In questo senso, leggendo le dichiarazioni di Mons. Müller, si notano, tra l’altro, due espressioni che possono considerarsi emblematiche e che rivelano tutta la portata del capovolgimento di mentalità che caratterizza gran parte dell’attuale gerarchia cattolica: il passaggio dalla cura per la religione di Dio alla cura per la religione dell’uomo.

1 - Ma è anche necessaria una spiritualità dei diritti umani
Qualcuno potrebbe chiedersi in cosa consista la “spiritualità” dei diritti umani, ma non riuscirebbe a trovare in nessuno studio cattolico una risposta decente, tranne il dover ricorrere alla profondità spirituale della concezione di uno dei padri della Rivoluzione francese, il noto “uomo di Dio” Massimiliano Robespierre.
Ma, a parte la supposta “spiritualità”, noi sappiamo che per prima cosa un uomo di Chiesa dovrebbe ricordare che nell’ambito dell’intero creato l’unico ad avere dei diritti è Dio, mentre gli uomini hanno solo dei doveri nei confronti di Dio. Questa oggettiva realtà è l’unica che fondi legittimamente il conseguente sorgere dei doveri e dei diritti degli uomini tra di loro. Senza la consapevolezza che l’uomo è su questa terra per amare e servire Dio e che ama il suo prossimo per amore di Dio, senza questo presupposto, non ci sono diritti umani, se non nelle moderne elucubrazioni diaboliche che hanno condotto all’attuale stato disastroso del mondo e della stessa compagine cattolica, dove l’uomo è stato messo al posto di Dio.

2 - alla loro esigenza di giusta partecipazione alla vita culturale e politica della democrazia
La partecipazione alla vita culturale e politica, è una di quelle affermazioni gratuite che riempiono bene la bocca di chi le pronuncia e le orecchie di chi le ascolta, ma consiste esattamente nel nulla, perché può significare qualsiasi cosa.

E dire che un tempo in Chiesa si insegnava che ogni uomo deve compiere il proprio dovere di stato, di padre, di madre, di figlio, di superiore, di sottoposto, di prete, di laico, di vescovo, di papa, ecc. Ma queste sono cose d’altri tempi, dei tempi in cui l’educazione cattolica discendeva direttamente dagli insegnamenti di Cristo e non dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e dall’ONU.
Quando poi a questa espressione si aggiunge “della democrazia”, si manifesta per intero la rivoluzione che si è prodotta nell’intelletto dei moderni. Chiunque, sano di mente, oggi sa, dopo due secoli di “democrazia”, che non v’è mai stato tempo storico così pesantemente contrassegnato dalla dittatura “democratica”, in cui tutti possono dire e fare ciò che vogliono, basta che non pretendano di professare la verità e di praticare i comandamenti di Dio, semplicemente perché la verità non esiste, esistono solo le verità, e Dio è un concetto lodevole che va rispettato come espressione del libero pensiero di ogni uomo: che ognuno abbia il proprio Dio e viva in pace con gli altri. Chiunque contraddica queste umanissime e modernissime verità è considerato un asociale e in molti Stati viene addirittura perseguito come intollerante e processato e condannato. 

E dire che un tempo in Chiesa si insegnava che ogni autorità discende da Dio, e non dal popolo (!?), e che quindi la vera e unica compagine sociale auspicabile per un cattolico è il Regno sociale di Nostro Signore a cui sottostanno tutti gli uomini, piccoli e grandi, ricchi e poveri, ignoranti e colti, singoli e gruppi, famiglie e Stati. Ma anche queste sono cose d’altri tempi, tempi i cui non si andava dalla Germania al Perù per imparare la teologia della liberazione (!?), ma si studiavano le encicliche dei papi sulla libertà, sull’autorità, sull’assetto sociale e sulla sottomissione dell’uomo e degli Stati all’imperio di Cristo.

Vero è che i tempi sono cambiati e che oggi il mondo vive a prescindere da Dio e contrastando in tutti i modi la Sua Chiesa, ma questo non autorizza nessun cattolico, chierico o laico, a seguirne l’andazzo per sentirsi più vicino al mondo piuttosto che a Dio. Anzi, questo dovrebbe indurre i cattolici, quelli veramente tali, a contrastare sempre più il mondo, a tenerlo sempre più lontano, se possibile, pronti ad affrontare tutte le conseguenze, semplicemente in nome di Nostro Signore. 
Tranne che, ovviamente, non si sia dato un immeritato credito all’insegnamento del Vaticano II che, come diceva Paolo VI, si è sforzato di essere il primo e più grande cultore dell’uomo.

È in questa ottica che vanno lette le diverse dichiarazioni rilasciate da Mons. Müller a proposito dell’accettazione del Concilio.
Quando egli afferma che occorre accettare tutto del Vaticano II, comprese la libertà religiosa, l’ecumenismo, la dichiarazione Nostra Aetate e le altre novità che quest’assise ha preteso di insegnare ex novo ai cattolici, a suo modo è nel giusto. Poiché il rifiutarle, dice lui, comporta il negare l’assenso a importanti questioni teologiche e quindi all’interezza della fede.
Ed è nel giusto, a suo modo, perché per i nuovi preti della nuova Chiesa l’interezza della fede non sta nell’interezza dell’insegnamento di Cristo, nella Tradizione apostolica, non più… ma sta nell’insieme di questo e di tutto ciò che insegnano anche gli uomini, sta in quel composto tutto moderno che oggi passa sotto il nome di “tradizione vivente”. Un insegnamento, cioè, che si evolve con l’evolversi dei tempi, un insegnamento che attinge al mondo e alla storia, perché, dicono i moderni teologi, il mondo è creatura di Dio e la storia è permeata dalla presenza del Suo Figlio Unigenito, venuto a salvare il mondo.
Mons. Müller ha perfettamente ragione quando afferma che queste novità inaudite insegnate dal Concilio hanno una valenza teologica, perché è indubbio che attengono alla stessa tenuta della fede.Ma è proprio per questo che un cattolico deve rifiutarle, perché costituiscono una sovversione del vero insegnamento cattolico, una sorta di rivoluzione che trasforma la dottrina insegnata dalla Chiesa per due millenni in una credenza filosofica dove ciò che prevale non sono i diritti di Dio, ma i diritti dell’uomo.

Cosa possiamo aspettarci da questo nuovo custode della dottrina della fede?
Forse la risposta sta nell’amara constatazione che ci spetterà ciò che ci meritiamo come cattolici che hanno ceduto alle lusinghe del mondo. Ragion per cui, per i cattolici che vogliono rimanere fedeli alla Tradizione della S. Chiesa è inevitabile che, con l’arrivo in Vaticano di Mons. Müller, si sia accentuata la necessità di dover inasprire quella resistenza che un vero cattolico deve praticare nei confronti dell’attuale gerarchia, fino a quando, come Dio vorrà, il Vaticano non torni ad insegnare, a predicare e a praticare la sana dottrina tradizionale della Santa Chiesa.

Fonte: Una Vox

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