a cura di don CURZIO NITOGLIA
18 novembre 2010
SE SIA LECITA LA RESISTENZA PUBBLICA
ALLE DECISIONI DELL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA
Introduzione
La Chiesa insegna che di fronte ad una decisione erronea dell’autorità ecclesiastica al cattolico ben istruito nella dottrina cristiana è lecito non solo negare il suo assenso a questa decisione, ma anche in certi casi estremi ed eccezionali, opporsi a essa perfino pubblicamente. Addirittura, tale opposizione può costituire un vero e proprio dovere.
L’autorità dei vescovi
Dom Prosper Guéranger, abate di Solesmes, scrivendo di san Cirillo di Alessandria, insigne avversario del nestorianesimo, insegna: «Quando il pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersi. Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede i capi. Ma nel tesoro della rivelazione vi sono dei punti essenziali dei quali ogni cristiano, per ciò stesso ch’è cristiano, deve avere la necessaria conoscenza e la dovuta custodia». Analizzando i diversi fattori che contribuiscono a una sempre maggiore esplicitazione dei dogmi nel corso dei secoli, Hervé elogia l’opposizione fatta dai fedeli contro Nestorio, patriarca eretico di Costantinopoli: «Sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, i fedeli possono essere spinti a comprendere e a credere meglio quando aumenta la pietà e il culto, favorendo così il progresso del dogma. Infatti la sollevazione dei fedeli contro Nestorio fu di grande aiuto alla definizione della divina Maternità della Santissima Vergine […]». Mons. Antonio de Castro Mayer, l’illustre vescovo di Campos, ha pubblicato un documento in cui ricorda la dottrina tradizionale sul diritto di resistenza alla autorità ecclesiastica ingiusta. Si tratta della lettera di approvazione al “Vademécum do catolico fiel”, nel quale quattrocento sacerdoti di diversi Paesi, combattendo il progressismo, espongono i principi della fede cattolica autentica ed invitano i fedeli ad opporsi all’eresia neomodernista che oggi invade tutto il mondo. Nella sua lettera di approvazione di questo Vademécum, il vescovo di Campos ne dichiara la grandissima opportunità e aggiunge: «non ci vengano a dire che non tocca ai fedeli – come proclama il Vademécum – giudicare quello che succede nella Chiesa; che devono soltanto seguire docilmente l’orientamento dato dai ministri del Signore. Non è vero. La storia della Chiesa elogia l’atteggiamento dei fedeli di Costantinopoli che si opposero alla eresia del loro patriarca Nestorio». Quindi mons. Antonio de Castro Mayer cita il testo di dom Guéranger che abbiamo riprodotto sopra.
«Gli resistetti in faccia, perché meritava di essere ripreso»
Sarà legittimo, in casi estremi resistere anche a decisioni del Sommo Pontefice? In risposta a questa domanda, trascriviamo soltanto documenti relativi alla resistenza pubblica perché, se in certe circostanze essa è legittima, a maggior ragione la sarà l’opposizione privata a una decisione papale. Nessun autore, a nostra scienza, ha mai sollevato dubbi quanto al diritto di una simile opposizione privata. Questa potrà manifestarsi in due modi: esponendo alla Santa Sede le ragioni che militano contro il documento; o attraverso la cosiddetta «correzione fraterna», cioè con un avvertimento dato in privato, con l’intenzione di ottenere la correzione dell’errore commesso. Passiamo ai testi che ammettono la resistenza pubblica in casi particolarissimi:
a. San Tommaso d’Aquino, in diverse sue opere, insegna che in casi estremi è lecito resistere pubblicamente a una decisione pontificia, come san Paolo ha resistito in faccia a san Pietro: «essendovi un pericolo prossimo per la fede, i prelati devono essere ripresi, perfino pubblicamente, da parte dei loro soggetti. Così san Paolo, che era soggetto a san Pietro, lo riprese pubblicamente, in ragione di un pericolo imminente di scandalo in materia di fede. E, come dice il commento di sant’Agostino, “lo stesso san Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, allontanandosi qualche volta dalla buona strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti” (ad Gal. II, 14)». Nel commento all’Epistola ai Galati, studiando l’episodio in cui san Paolo resistette in faccia a san Pietro, san Tommaso scrive: «La riprensione fu giusta e utile, e il suo motivo non fu di poco conto: si trattava di un pericolo per la preservazione della verità evangelica […]. Il modo della riprensione fu conveniente, perché fu pubblico e manifesto. Perciò san Paolo scrive: “Parlai a Cefa, cioè a Pietro, “di fronte a tutti”, perché la simulazione operata da san Pietro comportava un pericolo per tutti. In 1 Tim. V, 20 leggiamo: “coloro che hanno peccato riprendili di fronte a tutti”. Questo si deve intendere dei peccatori manifesti, e non di quelli occulti, perché con questi ultimi si deve procedere secondo l’ordine proprio alla correzione fraterna». San Tommaso osserva anche che il citato passo della Scrittura contiene insegnamenti tanto per i prelati quanto per i loro soggetti: «Ai prelati [fu dato esempio] di umiltà perché non rifiutino di accettare richiami da parte dei loro inferiori e soggetti: e ai soggetti [fu dato] esempio di zelo e libertà, perché non temano di correggere i loro prelati, soprattutto quando la colpa è stata pubblica ed è ridondata in pericolo per molti».
b. Francisco De Vitoria. L’eminente teologo domenicano del secolo XVI scrive: «Cajetanus, nella stessa opera in cui difende la superiorità del Papa sul concilio, al cap. 27 dice: “Orbene, si deve resistere in faccia al Papa che pubblicamente distrugge la Chiesa, per esempio concedendo benefici ecclesiastici solo per denaro o in cambio di servigi; e si deve negare, con tutta l’ubbidienza e il rispetto, la presa di possesso di tali benefici da parte di coloro che li hanno comperati” […]. E Silvestro [Pireria], alla parola Papa, paragrafo 4, si chiede “Che cosa si deve fare quando il Papa, con i suoi cattivi costumi, distrugge la Chiesa?” E al paragrafo 15: “Che fare se il Papa volesse, senza ragione abrogare il diritto positivo?” A questo risponde: “Peccherebbe certamente; non gli si dovrebbe permettere di agire così, e non gli si dovrebbe ubbidire in quanto fosse cattivo; ma si dovrebbe resistergli con una riprensione cortese”. […]. Di conseguenza, se volesse dare tutto il tesoro della Chiesa o il patrimonio di san Pietro ai suoi parenti, se volesse distruggere la Chiesa, o fare altre cose di questo genere, non gli si dovrebbe permettere di agire in tale modo, ma si avrebbe l’obbligo di opporgli resistenza. La ragione di questo sta nel fatto che egli non ha il potere per distruggere; quindi, constatando che lo fa, è lecito resistergli.[…]. Da tutto questo deriva che, se il Papa, con i suoi ordini e i suoi atti, distrugge la Chiesa, gli si può resistere e impedire l’esecuzione dei suoi comandi […]. Seconda prova della tesi. Per diritto naturale è lecito respingere la violenza con la violenza (“vim vi repellere licet”). Ora, con tali ordini e dispense, il Papa esercita una violenza, perché agisce contro il diritto, come è stato provato sopra. Quindi è lecito resistergli. Come osserva Cajetanus, non facciamo questa affermazione nel senso che qualcuno possa essere giudice del Papa o avere autorità su di lui, ma nel senso che è lecito difendersi. Chiunque, infatti, ha il diritto di resistere a un atto ingiusto, di cercare di impedirlo e di difendersi».
c. Suarez: «Se [il Papa] emana un ordine contrario ai buoni costumi, non gli si deve ubbidire: se tenta di fare qualcosa di manifestamente contrario alla giustizia e al bene comune, sarà lecito resistergli; se attaccherà con la forza, potrà essere respinto con la forza, con la moderazione propria della legittima difesa [cum moderamine inculpatae tutelae]» .
d. San Roberto Bellarmino: «così come è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito resistere a quello che aggredisce le anime, o che perturba l’ordine civile, o, soprattutto, a quello che tentasse di distruggere la Chiesa. Dico che è lecito resistergli non facendo quello che ordina e impedendo la esecuzione della sua volontà: non è però lecito giudicarlo, punirlo e deporlo, poiché questi atti sono propri a un superiore» .
e. Cornelio a Lapide. L’illustre esegeta mostra che secondo sant’Agostino, sant’Ambrogio, san Beda, sant’Anselmo e molti altri Padri, la resistenza di san Paolo a san Pietro è stata pubblica «perché in questo modo lo scandalo pubblico dato da san Pietro fosse riparato da un richiamo anch’esso pubblico» . Dopo aver analizzato le diverse questioni teologiche ed esegetiche sollevate dall’atteggiamento assunto da san Paolo, Cornelio a Lapide scrive: «che i superiori possano essere ripresi, con umiltà e carità dagli inferiori, affinché la verità sia difesa, è quanto dichiarano sulla base di questo passo [Gal. II, 11] sant’Agostino (Epist. 19), san Cipriano, san Gregorio, san Tommaso e altri sopra citati. Essi insegnano chiaramente che san Pietro, pur essendo superiore, fu ripreso da san Paolo […]. A ragione dunque, san Gregorio disse (Homil. 18 in Ezech.): “Pietro tacque, affinchè, essendo il primo nella gerarchia apostolica, fosse anche il primo nella umiltà”. E sant’Agostino affermò (Epist. 19 ad Hieronymum): “Insegnando che i superiori non devono rifiutare di lasciarsi richiamare dagli inferiori, san Pietro ha dato alla posterità un esempio più eccezionale e più santo di quello di san Paolo, insegnando che, nella difesa della verità, e con carità, ai minori è dato avere l’audacia di resistere senza timore ai maggiori”» .
f. Wernz e Vidal. L’opera Ius Canonicum di Wernz-Vidal ammette, citando Suarez, che, in casi estremi, è lecito resistere a un cattivo papa: «I mezzi che si possono usare contro un cattivo Papa senza offendere la giustizia sono, secondo Suarez (Defensio fidei catholicae, lib. IV, cap. 6, nn. 17-18), l’aiuto abbondantissimo della grazia di Dio, la speciale protezione dell’Angelo Custode, la preghiera della Chiesa universale, l’ammonimento o correzione fraterna in segreto o anche in pubblico, e perfino la legittima difesa contro, una aggressione sia fisica che morale» .
g. Peinador. Gli autori contemporanei fanno loro le affermazioni degli antichi sull’argomento che stiamo analizzando. Così Peinador, citando ampi brani di san Tommaso, scrive: «“anche il suddito può essere obbligato alla correzione fraterna del suo superiore”. (S. Theol., II-II, q. 33, a. 4). Infatti anche il superiore può essere spiritualmente bisognoso, e niente impedisce che da tale bisogno sia liberato dal suddito. Tuttavia “nella correzione nella quale i sudditi riprendono i loro prelati, bisogna agire in modo conveniente, cioè non con insolenza e asprezza, ma con mansuetudine e riverenza” (S. Theol., ibidem). Perciò, in generale il superiore deve sempre essere ammonito privatamente “Si tenga però presente che, essendovi pericolo prossimo per la fede, i prelati devono essere richiamati dai sudditi anche pubblicamente” (S. Theol., II-II, q. 33, a. 4, ad 2)» .
Una divergenza apparente
Come si è visto, gli autori che dichiarano lecito, in casi straordinari, opporsi anche pubblicamente a qualche decisione erronea dell’autorità ecclesiastica e anche della Sede romana, sono numerosi e di grande valore. Se aggiungiamo gli esempi storici di santi che si sono comportati in questo modo concludiamo che si tratta di una tesi pacifica nella Chiesa. Esiste però, un fatto che a qualcuno sembrò togliere a questa tesi il suo carattere pacifico: in testi tanto di dogmatica che di morale è frequente – e anche comune – la sentenza secondo cui non è mai lecito al fedele rompere il “silenzio ossequioso” verso un documento papale, anche di fronte alla evidenza che in esso vi è qualche errore. In uno studio precedente, abbiamo già affrontata la delicata questione del “silenzio ossequioso”. Solo per fissare i dati fondamentali del problema, riassumiamo rapidamente ciò che allora abbiamo scritto:
1) un documento del Magistero è di per sé stesso infallibile solo quando ottempera alle condizioni esplicitate dal Concilio Vaticano I;
2) i documenti che non ottemperano a queste condizioni non sono di per sé infallibili, e quindi possono in via di principio e anche se in casi rarissimi, contenere qualche errore;
3) quindi, in via di principio, non si può escludere l’ipotesi che una persona dotta, dopo un accurato esame di un determinato documento del magistero non infallibile, giunga all’evidenza che in esso vi è qualche errore;
4) in questa ipotesi, sarà necessario agire con circospezione e umiltà, usando tutti i mezzi ragionevoli per chiarire la questione, tra i quali ha particolare rilievo la domanda di spiegazione presso l’organo del magistero da cui è stato emanato il documento;
5) se, dopo aver usato tutti i mezzi consigliabili, rimane l’evidenza dell’errore, sarà lecito, a questo punto, sospendere l’assenso interno che di per sé il documento postula.
Qui si pone il problema che ora ci impegna: sarà pure lecito, almeno in casi estremi, rifiutare alla dichiarazione pontificia il rispetto esterno, cioè il cosiddetto “silenzio ossequioso”? In altre parole: in qualche ipotesi sarà lecito opporsi esternamente, forse anche pubblicamente a un documento del magistero romano? Nella risposta a questa domanda gli autori apparentemente divergono. Da una parte, infatti, grandi teologi come quelli sopra citati ammettono in via di principio che, in certe circostanze, il fedele ha il diritto e anche il dovere di “resistere in faccia” a Pietro. Dall’altra, teologi eminenti sembrano sostenere che assolutamente in nessuna ipotesi sarà lecito rompere il cosiddetto “silenzio ossequioso”. Prima, però di proporre la soluzione che ci sembra conciliare le opinioni degli uni e degli altri vogliamo mettere sotto gli occhi del lettore alcuni testi caratteristici nei quali sembra chiusa ogni porta per rompere il “silenzio ossequioso”.
Il “silenzio ossequioso” sembra imporsi sempre
a) Straub. Egli espone il problema in questi termini: «Può accadere, per accidens, che […] a qualcuno il decreto appaia come certamente falso, o come opposto a un argomento tanto solido, […] che la forza di questo argomento non sia assolutamente annullata dal peso della sacra autorità; […] nella prima ipotesi, sarà lecito dissentire; nella seconda, sarà lecito dubitare, o anche considerare probabile la sentenza divergente dal sacro decreto; tuttavia, in considerazione della riverenza dovuta alla sacra autorità, non sarà lecito contraddirla pubblicamente […]; ma dovrà essere conservato il “silenzio”, detto “ossequioso”» .
b) Merkelbach. Nella Summa Theologiae Moralis, padre Merkelbach chiude l’esame dell’argomento con queste parole: «se per accidens, in una ipotesi per altro rarissima, dopo un esame molto accurato, a qualcuno sembra esistano ragioni gravissime contro la dottrina così proposta, sarà lecito, senza temerarietà, sospendere l’assenso interno; tuttavia, esternamente sarà obbligatorio il “silenzio ossequioso”, in ragione del rispetto dovuto alla Chiesa» .
c) Mors. Padre José Mors teorizza il “silenzio ossequioso” in questo modo: «è la sottomissione esterne e rispettosa alla autorità ecclesiastica; consiste nel fatto che non sia detto nulla [in pubblico] contro i suoi decreti. Questo silenzio è richiesto dall’apprezzamento dovuto alla autorità ecclesiastica e per il bene della Chiesa, anche nel caso in cui il contrario fosse autenticamente evidente» . E padre Mors, dopo avere esposto la dottrina tradizionale sull’assenso dovuto ai documenti del magistero, conclude: «Tuttavia, nel caso vi siano contro il decreto ragioni autenticamente evidenti, cesserò l’obbligo dell’assenso interno; ma anche allora rimarrà l’obbligo del silenzio. questo caso, però, non si darà facilmente» .
d) Zalba. «Per accidens, l’assenso interno potrà essere negato, nel caso consti con certezza la falsità [dell’insegnamento di una Congregazione Romana]; allo stesso modo, sarà lecito dubitare, quando ve ne siano ragioni veramente solide. Ma tanto in un caso come nell’altro, bisogna mantenere il “silenzio ossequioso” esterno» .
Due esempi illuminanti
Vi è autentica contraddizione tra la sentenza dei teologi che sostengono la liceità, in casi molto rari, di resistere pubblicamente a decisioni papali, e quella di coloro che dichiarano sempre illecita la caduta del “silenzio ossequioso”? Si tratta di due orientamenti diversi che realmente ed effettivamente dividono gli autori? Non lo crediamo. Un’analisi accurata della questione mostrerò che è facile armonizzare le due sentenze – che quindi, a nostro modo di vedere sono contraddittorie soltanto in apparenza. In teologia, infatti, e soprattutto in morale – e il nostro caso è prima di ordine morale che di dogmatica – si incontrano con frequenza affermazioni generiche, tassative, assolute, che però non hanno il valore universale che sembrano presentare. L’autore risolve la questione in via di principio, non prendendo in considerazione tutta la ricchissima casistica che potrebbe portare maggiori precisazioni alla soluzione proposta. Oppure, mirando alla soluzione di un caso concreto, presenta la sua conclusione in termini astratti e generali, e questo può far credere – contro il suo stesso pensiero più profondo – che la norma enunciata non ammetta eccezioni. Due esempi renderanno più facile la comprensione del fatto cui facciamo allusione. [….].
Demolizione di una divergenza apparente
Ciò posto, invitiamo il lettore a rileggere attentamente i passi sopra citati, o qualsiasi altro in cui teologi dichiarino essere sempre illecito rompere il cosiddetto “silenzio ossequioso”. Il testo e il contesto di tali passi rendono evidente che in essi si stabilisce soltanto un principio generale, valido per i casi ordinari. Non vi si prendono in considerazione ipotesi ammissibili, ma rare e straordinarie, più proprie della casistica, come sono quelle che avevano presenti san Tommaso d’Aquino e gli altri autori precedentemente citati. Non si prende in considerazione, per esempio:
1. l’ipotesi di un errore che comporti per il popolo cristiano un “pericolo prossimo per la fede” (come è accaduto, spiega san Tommaso, nell’episodio in cui san Paolo resistette in faccia a san Pietro);
2. l’ipotesi di un errore che costituisca una “aggressione alle anime” (espressione di san Roberto Bellarmino).
In altri termini, la lettura dei passi in cui gli autori dichiarano proibita ogni e qualsiasi rottura del “silenzio ossequioso” mostra che essi prendono in considerazione soltanto il caso di qualcuno che, “in sede dottrinale” , cioè sul semplice terreno della speculazione teologica, diverge su un punto dal documento magisteriale. Essi non intendono con questo dichiarare che anche sul terreno pratico nella soluzione di un concreto caso di coscienza che affligge il fedele, sia sempre illecito agire pubblicamente in disaccordo con la decisione del magistero. Perciò, se tali autori fossero messi di fronte a un “pericolo prossimo per la fede” (san Tommaso), possiamo sostenere con assoluta sicurezza che anch’essi, seguendo le orme del Dottore Angelico, per non parlare di quelle di san Paolo, autorizzerebbero una resistenza pubblica. Se si trovassero di fronte a una “aggressione alle anime” (san Roberto Bellarmino) o a uno “scandalo pubblico” (Cornelio a Lapide) in materia dottrinale; oppure a un Papa “che si fosse allontanato dalla buona strada” (sant’Agostino) con i suoi insegnamenti erronei e ambigui; o a una “colpa pubblica” che ridondasse in pericolo per la fede di molti (san Tommaso) – come potrebbero negare il diritto di resistenza e, se necessario, di resistenza pubblica? A nostro modo di vedere sarebbe assolutamente insufficiente per fino errata la spiegazione che potrebbe venire in mente a qualcuno – che la citata divergenza tra gli autori potrebbe risolversi con la distinzione tra le decisioni disciplinari e quelle dottrinali. Alle prime sarebbe lecito resistere, alle seconde no. Tale spiegazione ci sembra falsa per due ragioni principali:
1. gli argomenti addotti dal primo gruppo di autori citati valgono per decisioni sia dottrinali che disciplinari. Le une e le altre possono, per esempio, comportare il “pericolo prossimo per la fede” su ci san Tommaso fonda il suo ragionamento. E, d’altro canto, anche gli argomenti del secondo gruppo di autori valgono tanto per le decisioni disciplinari che per quelle dottrinali. Se, per esempio, il “rispetto dovuto alla sacra autorità” esige un silenzio assoluto di fronte a decisioni dottrinali erronee, perché non lo esigerà di fornite a decreti disciplinari ingiusti?
2. se si ammette la possibilità di errore dottrinale in documenti del magistero - possibilità che non si vede come possa essere esclusa in via di principio - è fuori di dubbio che anche sul terreno dottrinale vi sarà posto per casi di coscienza gravissimi, che rendano lecita o perfino obbligatoria la resistenza del fedele. Sostenere il contrario significherebbe misconoscere o negare la parte fondamentale della fede nella vita cristiana.
Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira
«Catolicismo» n° 224, agosto 1969, San Paolo del Brasile.
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