“Parvus error in
principio est magnus in fine”
(parte prima)
L’ontologismo o l’immanentismo moderno, che vanno da Cartesio a
Malebranche sino a Rosmini e Gioberti, mascherati da “spiritualismo
cristiano”, sono una variante del soggettivismo cartesiano e del
criticismo kantiano, i quali vengono presentati - soprattutto oggi -
come la “nuova” filosofia “perenne”, che avrebbe
rimpiazzato la “vecchia” metafisica classica
platonico-aristotelica e tomistica nella parte di ‘ancilla
theologiae’. Ebbene questa è un’assurdità, evidente per
quanto riguarda Cartesio e Kant, più subdolamente nascosta
per Malebranche e soprattutto Rosmini. Tuttavia non si sarebbe
arrivati al rosminianesimo se non vi fosse stata l’involuzione della
metafisica dell’essere tomistica con Scoto e Suarez, i quali
aprono la via all’immanentismo e soggettivismo della modernità,
pur non essendo in sé immanentisti e soggettivisti in
maniera esplicita. Questo breve saggio vuole far capire il
pericolo che si corre quando ci si allontana dalla metafisica
dell’essere tomistica e ci si abbevera a fonti non ancora
avvelenate, ma senza dubbio inquinate e torbide
quali sono lo scotismo e il suarezismo, che possono condurre
all’avvelenamento.
*
I
Parte
Introduzione allo scotismo
*
La vita
Personalmente Duns Scoto (+
1308) fu un uomo di Dio, un vero mistico, un gran mariologo,
specialmente per quanto riguarda la ‘Immacolata Concezione’ di
Maria, la sua ‘Corredenzione’ secondaria e subordinata a quella di
Cristo e la di lei ‘Mediazione universale’ di ogni grazia[1].
La dottrina scotista
Tuttavia, dal punto di vista strettamente filosofico e più
specificatamente metafisico, la dottrina scotista è “alternativa
a quella di S. Tommaso, […] più oscura, […] meno ordinata e
sistematica”[2].
Le sue opere più famose sono i tre Commentari al Libro
delle Sentenze di Pietro Lombardo. Di questi tre commenti
il più importante è il primo o Opus oxoniense[3].
Purtroppo nel 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier
condannò 219 proposizioni che, secondo lui, avrebbero riassunto la
dottrina di S. Tommaso
d’Aquino, confusa dal Tempier con il razionalismo di Sigieri di Brabante (+ 1284).
La censura metteva in netta contrapposizione filosofia e teologia,
ragione e fede[4]
e condannava come cattive la filosofia e la ragione naturale per
affermare la validità della sola Rivelazione soprannaturale e della
teologia. Una sorta di fideismo o “tradizionalismo francese” ante
litteram. Assieme a
Sigieri di Brabante (una regione divisa attualmente in due parti di cui una
appartenente al Belgio e l’altra ai Paesi Bassi) veniva condannato
il razionalismo di Avicenna
(+ 1037) ed Averroè (+
1198) e si confondeva l’aristotelismo interpretato in maniera
razionalista da questi due pensatori arabi con la metafisica
aristotelica e soprattutto tomistica. Il pensiero di S. Tommaso fu
frainteso da Stefano Tempier ed accomunato, ingiustamente, a quello di Averroè ed
Avicenna.
Partecipazione, causalità e
analogia
L’Angelico distingue nell’ente finito o creato l’essenza
che ha o riceve l’essere. Mentre l’Ente infinito o
increato, che è Dio, è un Essenza che è il suo stesso Essere. Ogni ente creato riceve o partecipa l’essere da Dio.
Da questa prima distinzione reale di essenza ed essere negli enti
creati, l’Aquinate arriva alla nozione di causalità[5]
(Dio è incausato e Causa prima di ogni ente finito) e al concetto di partecipazione: Dio è partecipato da tutti gli
enti, i quali sono partecipanti o effetti di Dio. L’ente
finito o causato riceve, ha o partecipa in maniera limitata l’essere
da Dio che è incausato. Come ogni effetto anche l’ente creato
partecipa alla Causa che è Dio, ossia possiede, ha o riceve solo un
effetto dell’Essere infinito (“partem-capere, ricevere una
parte”), che è la Causa prima incausata[6].
Partecipazione, causalità e analogia si richiamano a vicenda.
Infatti l’analogia entis dice somiglianza relativa e
dissomiglianza sostanziale tra causa ed effetto, partecipato e
partecipante, Creatore e creature. L’analogia tomistica riprende la
distinzione tra analogia di proporzionalità[7],
che è di derivazione aristotelica, ed è piuttosto orizzontale in
quanto mostra la composizione nella struttura dell’ente, l’ente è
composto in ens ab alio ed Ens a se, ossia l’ente la
cui essenza è distinta dall’essere e l’Ente la cui Essenza è
l’Essere stesso. Il concetto analogo di essere è predicato degli
analogati simili solo relativamente al fatto di esistere, ma
essenzialmente diversi nella loro sostanza. Per esempio Dio,
l’angelo, l’uomo, la bestia, la pianta e il minerale sono simili
quanto al fatto di essere/esistere ma la loro sostanza è totalmente
diversa. Questa è la composizione nella struttura orizzontale
dell’ente. Il Dottore Comune riprende anche il concetto di
analogia di attribuzione[8] che è tipicamente platonico ed è piuttosto verticale, in quanto
mostra la dipendenza dell’ente dall’essere. In senso stretto
l’analogia di attribuzione riguarda un concetto analogo (per esempio
la salute) che è predicato di un analogato principale (per es.
l’uomo) intrinsecamente e formalmente. Ossia l’uomo è formalmente e
in se stesso sano (attribuzione intrinseca). Mentre il concetto
analogo è attribuito agli analogati secondari (colorito,
passeggiata, clima, bistecca, urina) solo estrinsecamente, cioè la
bistecca… non sono sani in se stessi e formalmente, ma la salute è
predicata di loro in quanto sono effetto, segno, causa,
mantenimento, analisi di essa (attribuzione estrinseca)[9].
Tuttavia per quanto riguarda l’essere l’analogia di
attribuzione è chiamata anche analogia mista, ossia l’essere
è formalmente in Dio, che lo causa nelle creature, le quali hanno
l’essere in maniera limitata e finita, ma intrinsecamente e
formalmente (l’angelo, l’uomo, la bestia, l’albero e il minerale)
sono enti o hanno l’essere in maniera finita, ma realmente,
formalmente, intrinsecamente[10]
e non solo per attribuzione estrinseca. Perciò il concetto analogo
di essere si trova nell’analogato principale (Dio) formalmente,
intrinsecamente ed eminentemente (Dio è l’Essere sommo o a se),
mentre esso si trova negli analogati secondari (enti creati) per
partecipazione e in maniera limitata o ab alio. Gli enti
creati hanno, ricevono o partecipano l’essere in maniera finita, ma
reale, intrinseca e formale, però non eminentemente.
L’oblio della distinzione reale di essenza ed essere nelle creature (v.
Scoto e Suarez) porta a dimenticare l’essere come atto ultimo e
perfezione di ogni essenza, per focalizzare solo l’essenza dell’ente
finito, che senza l’essere partecipato ab alio, ha fatto
giungere la speculazione filosofica sino alla modernità (essenza
umana scissa da Dio, il “panteismo immanentistico”) e al nichilismo
della post-modernità (ente umano contro Dio, la “morte di Dio”).
Invece l’essere come atto ultimo di ogni essenza e perfezione ci
aiuta a cogliere e a parlare sulla verità oggettiva e reale di Dio,
l’Essere stesso per sua essenza, il quale si è definito “Io sono colui che è ” (Ex., III, 14).
Fede e ragione secondo
Scoto
Siccome Scoto aveva iniziato a studiare alla Sorbona di Parigi verso
il 1280, quasi quando uscì la condanna del Tempier (1277), ne fu
influenzato enormemente e si formò in uno spirito eccessivamente
anti-filosofico, come se la ragione e la filosofia fossero
cattive in sé e non solo imperfette e perfezionabili dalla teologia
e dalla Rivelazione. Perciò il sistema scotista fu un’antifilosofia,
una ‘sola theologia’, una reductio philosophiae in
theologiam ed un anti-tomismo radicale, avendo frainteso
la vera dottrina tomistica. Quindi, mentre la metafisica tomistica è
opera della ragione naturale, come deve essere la filosofia, ma
conforme alla Fede, poiché non esiste una “doppia verità”: una di
ragione e una di Fede, contrarie ma entrambe vere, la dottrina
filosofica di Scoto, invece, è assorbita dalla Rivelazione quanto
alla sostanza, anche se quanto al modo è rigorosamente ‘logica
formalmente’, facendo una certa commistione e confusione tra
ragione e Fede, filosofia e teologia, le quali invece sono distinte
ma non contraddittorie.
La ragione quasi distrutta
dal peccato originale
La ragione per il Dottor Sottile dopo il peccato originale è
talmente guasta, che può filosofare correttamente solo se sottomessa
alla Rivelazione. Invece la dottrina comune cattolica insegna che il
peccato adamitico ha ferito l’uomo, ma non ha distrutto le sue
facoltà naturali. Quindi la ragione può riuscire da sé a conoscere
la realtà e cogliere la verità naturalmente accessibile, senza dover
necessariamente essere aiutata intrinsecamente dalla
Rivelazione, la quale gioca un ruolo ausiliario estrinseco
alla filosofia, come il paracarro di una via aiuta l’automobile a
non uscire fuori strada, o come la soluzione riportata alla fine del
problema di matematica aiuta lo studente a vedere se nello svolgere
il suo compito ha errato o ha colto la verità. Se il professore
suggerisse ogni passo del problema allo studente, questi non
imparerebbe mai la scienza matematica (al massimo la “crederebbe”) e
la sua intelligenza si atrofizzerebbe, e se la guida dell’auto fosse
lasciata dall’autista al paracarro, l’automobile non si sposterebbe
di un passo. Certamente le circostanze storiche della condanna di S.
Tommaso da parte del Tempier hanno influito sullo scotismo,
portandolo ad un eccessiva svalutazione della ragione e della
filosofia, ad un’erronea comprensione del tomismo, alla
confusione di quest’ultimo col razionalismo di Sigieri, Avicenna ed
Averroè e quindi ad una falsa lettura dell’aristotelismo concepito
in totale contraddizione metafisica colla Fede e del quale si salva
solo la ‘logica formale’ o le regole di ragionare correttamente.
Per S. Tommaso[11]
la metafisica e la ragione umana non possono conoscere tutta la
realtà e verità, poiché esiste una realtà soprannaturale e una
verità che supera la capacità della ragione naturale. Quindi la
filosofia da sola non basta a conoscere tutto, però può conoscere
realmente le sostanze della realtà naturale. La teologia è scienza
di Dio: Dio rivelante e rivelato è il suo oggetto. La filosofia ha
per oggetto l’esse ut actus omnium formarum, ossia l’ente,
che è un’essenza finita habens esse per participationem[12],
e come termine arriva all’Essere stesso sussistente, risalendo dagli
effetti alla Causa. Ma il Dio della filosofia è solo l’Autore della
natura e non è il Dio rivelante e rivelato o Deus sub ratione
Deitatis, ossia conosciuto nei suoi Misteri o nella sua Natura
intima (Trinità…). Per Scoto, invece, la filosofia non può nulla
e tutto si risolve in teologia: «Scoto pensa che il filosofo,
[…] giungerà fatalmente a risultati intrinsecamente inaccettabili»[13].
Per questo scrive il padre francescano Efrem Bettoni: «Duns
Scoto diffida di una filosofia pura o separata [dalla teologia] ed è
sempre attento a denunciarne non solo i limiti, ma anche gli
inevitabili errori»[14].
Secondo padre Bettoni, Scoto ritiene che «ogni filosofia, la quale
si fonda sulle risorse della ragione umana [ha] dei limiti
insuperabili […], nella concreta situazione in cui è venuta a
trovarsi in conseguenza del peccato originale»[15]. Etienne Gilson dal canto suo ammette che «Scoto
prepara l’affacciarsi delle filosofie moderne e la sua dottrina
è una spiegazione della loro esistenza»[16].
L’oggetto della metafisica
scotistica[17]
Qual è l’oggetto proprio dell’intelletto umano? Per S. Tommaso[18]
è l’ente e quindi anche “l’essenza intelligibile della cosa
sensibile”, poiché l’uomo è composto di anima e corpo e nihil est
in intellectu nisi prius non fuerit in sensu; niente si trova
nell’intelletto se prima non sia passato attraverso i sensi.
Ossia l’intelletto agente astrae una specie intelligibile
dall’immagine sensibile presente nella nostra fantasia e proveniente
da un’immagine impressa nei sensi esterni da un oggetto reale ed
extramentale. Scoto[19],
invece, rigetta la dottrina tomistica sulla conoscenza umana ed
insegna che l’oggetto proprio e primario dell’intelletto umano è
l’essere in genere o universale, l’essere nella sua totalità
[20]. Mentre per S. Tommaso[21]
l’uomo conosce anche mediante l’astrazione di idee razionali da
immagini sensibili perché è naturalmente composto di anima e corpo[22].
La dottrina del Dottor Sottile[23], perciò, può portare all’errore (che Scoto non ha
esplicitato) secondo cui anche Dio e l’Angelo, siccome sono
enti, possono essere conosciuti naturalmente per sé e direttamente
dall’intelletto umano (ontologismo), senza un sillogismo o
dimostrazione che risale dall’effetto alla Causa per quanto riguarda
Dio o con un argomento di pura convenienza per quanto riguarda gli
Angeli (conviene che tra Dio ‘Atto puro’ e l’uomo, composto di
materia e forma o ‘atto misto’, vi sia una forma senza materia, ma
non pura da ogni potenza, bensì composta di atto e potenza, che è
l’Angelo)[24].
Padre Efrem Bettoni
riconosce che se l’oggetto proprio dell’intelletto umano è
l’essere nella sua totalità «l’intelligibilità coincide con la
realtà e nessun essere, sia pure l’Essere immateriale per
eccellenza, l’Essere divino, è, in linea di diritto,
escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo»[25].
È per questo motivo che padre
Efrem Bettoni scrive: «Questa è la ragione per cui molti
storici del pensiero del medioevo si sentirono autorizzati a vedere
in Duns Scoto il primo responsabile della decadenza della
scolastica»[26].
Mentre S. Tommaso nella sua metafisica si basa sul concetto forte e
intensivo di essere (esse ut actus) come atto ultimo di ogni
essenza e perfezione di ogni perfezione, Scoto si basa sul concetto
debole di essere (esse commune seu in genere; l’essere
comune o generale)[27].
Debolezza della ‘teologia
naturale’ scotista
Da tutto ciò segue la debolezza della “teologia naturale” o teodicea
scotista, che non riesce, come invece S. Tommaso (S. Th., I,
q. 2, a. 3), a provare positivamente l’esistenza e la conoscenza di
qualche attributo di Dio mediante l’analogia dell’essere[28];
anzi Scoto mette eccessivamente in rilievo la Trascendenza di Dio
così da renderlo assolutamente inaccessibile alla ragione
umana. Ora il Concilio Vaticano I (sess. III, can, 2) ha definito di
Fede divina e cattolica che “la ragione umana può dimostrare con
certezza l’esistenza di Dio mediante un ragionamento, che risale
dalle creature o effetti al Creatore o Causa”. In breve la Chiesa ha
canonizzato le “cinque vie” di S. Tommaso, che provano l’esistenza
di Dio, come si trova anche rivelato nella Sapienza, cap.
XIII, e in San Paolo, Rom., cap. I.
Volontarismo scotista
D’altro canto «Scoto ritiene che l’uomo non può vedere naturalmente
l’essenza di Dio a causa di un decreto della Volontà divina. Infatti
per Scoto Dio avrebbe potuto volere che l’intelligenza umana potesse
vederlo naturalmente e che il Lumen gloriae e la Visio
beatifica fossero una proprietà della nostra natura, ma di fatto
Dio non l’ha voluto. Così la distinzione tra l’ordine naturale e
quello soprannaturale sarebbe contingente e si fonderebbe sopra un
libero decreto di Dio (cfr. D. Scotus, In Ium
Sent., dist. 3, q. 3, nn. 24-25)»[29].
Anche il francescano padre
Efrem Bettoni ammette: «La dimostrazione [scotista su Dio]
farà capo, invece che all’esistenza, alla possibilità
dell’Essere in-causabile. […] Scoto lascia S. Tommaso per
proseguire in compagnia di S. Anselmo: se un Essere
in-causabile è possibile […], dobbiamo concludere che esiste di fatto»[30].
Inoltre per la concezione volontaristica di Scoto «la volontà
dell’uomo non è necessitata da nessun oggetto, neppure dalla
Beatitudine, che è un bene senza difetti»[31].
Sempre volontaristicamente Scoto scrive che “è bene ciò che Dio
vuole e comanda”[32].
Desiderio naturale di Dio
secondo Scoto
Infine, secondo Scoto, «c’è nell’anima nostra un appetito innato e
naturale della Visione beatifica (cfr. D. Scotus, Prologus
Sent., q. 1, In IVum Sent., dist. 49, q. 10). Un residuo
di questa dottrina scotista peggiorata si trova nella potenza
obbedienziale attiva di Suarez (cfr. F. Suarez, De
gratia, Lib. VI, cap. 5)»[33].
La dottrina tomista[34],
insegna, invece, che l’appetito naturale della Visione
beatifica è inefficace da parte dell’uomo e condizionato da parte di
Dio, ossia se Dio vuole liberamente chiamare l’uomo alla
Grazia
santificante e alla Gloria del Cielo tramite la Visione
beatifica,
allora l’uomo può giungervi non con le sue forze naturali,
infinitamente sproporzionate all’ordine soprannaturale, ma
solamente
aiutato dalla mozione soprannaturale di Dio. Questa dottrina
è stata
ripresa dal Magistero ecclesiastico già nella condanna
(1567) da
parte di San Pio V di Michele Bajo, che parlava di esigenza
naturale della Grazia,
la quale sarebbe dovuta e non gratuita (DB, 1001-1080), poi
nella
condanna del modernismo (S.
Pio X, Pascendi, 1907) e infine del neo-modernismo (Pio
XII, Humani generis, 1950) e specialmente del libro
Le surnaturel di padre
Henry de Lubac del 1946 (v. sì sì no no, 30 novembre
2009, pp. 1-4), che riprendeva la tesi scotista e suareziana
sulla
potenza obbedienziale non passiva, ma in atto imperfetto.
Inoltre il
concetto scotista di desiderio naturale della Visione
beatifica[35]
e il concetto suareziano di potenza obbedienziale attiva sono
contraddittori nei termini. Infatti essi sarebbero nello stesso
tempo essenzialmente naturali e soprannaturali. Quod repugnat,
per il principio di non-contraddizione. Quindi la potenza
obbedienziale è puramente passiva e giunge all’atto solo se mossa da
Dio (“ens in potentia non reducitur ad actum nisi per ens in
actu; l’ente in potenza passa all’atto solo per mezzo di un ente già
in atto”; “omne quod movetur ab alio movetur; tutto ciò che
si muove è mosso da un altro”)[36].
Da tale errore filosofico, oltre Bajo, i modernisti e i
neo-modernisti, anche Antonio
Rosmini (v. sì sì no no, 15 ottobre 2009, pp. 1-5 e 15
giugno 2011, pp. 1-6) ha tratto delle conclusioni dogmaticamente
erronee. Per esempio Rosmini pensava che l’uomo con la ragione
naturale può dimostrare positivamente la possibilità della SS.
Trinità (e non solo la sua non-ripugnanza o non-impossibilità).
Invece il Magistero ha definito che ciò che è essenzialmente
soprannaturale non può essere dimostrato naturalmente. Infatti i
Misteri soprannaturali quanto alla sostanza superano infinitamente
la capacità dei princìpi della ragione naturale (DB, 1816 e 1795).
L’univocità dell’ente
secondo Scoto
«Scoto si discosta nettamente dall’intera tradizione metafisica sia
classica che scolastica quando sostiene che quello di ente non è
un concetto analogo ma univoco»[37].
Padre Bettoni scrive:
«I concetti univoci sono lo strumento logico, che mette l’intelletto
umano in condizioni di […] conoscere l’essere nella sua totalità»[38].
“Il principio da cui Scoto prese le mosse per negare la distinzione
reale tra essenza ed essere[39]
è l’univocità dell’essere”[40].
Scoto intende l’essere come essere comune o generale e
indeterminato, che sta alla base di ogni ulteriore determinazione;
esso è predicabile di tutto ciò che è, quindi di Dio come di
tutte le creature, dall’Angelo alla pietra. Esso è anche
univoco: “esse est unius rationis, l’essere ha un solo
significato” ed “è predicato allo stesso modo di ogni
cosa; ens dicitur per unam rationem de omnibus de quibus
praedicatur”. Scoto «tende ad ammettere, anzi ammette un certa
univocità fra Dio e le creature (Opus oxoniense, I, dist., 3,
q. 2, n. 5 ss; dist. 5, q. 1; dist. 8, q. 3)»[41],
mentre S. Tommaso ha come oggetto della sua metafisica l’esse ut
actus omnium formarum[42], inteso come perfezione massima, determinata e determinante,
specifica. L’Esse ha un primato ontologico sull’ente, che è
un’essenza la quale ha l’esse ut actus, cioè che l’attua e la
rende ente realmente esistente. S. Tommaso studia l’ente, ma sempre
in rapporto alla sua perfezione, l’essere: quindi studia l’esse
intensivo e non comune o indeterminato, ossia come atto ultimo
dell’essenza. L’essere tomistico supera e perfeziona originariamente
e ultimamente l’essenza. In ciò l’Aquinate supera lo Stagirita.
Certamente il primo concetto che ci formiamo è l’essere comune o
universale dell’ente[43].
Ma l’Angelico ha capito subito che quest’essere comune e universale
è un concetto vago e indeterminato, che abbraccia tutti gli enti e
non dà loro la perfezione ultima. Quindi l’Aquinate scruta a fondo
l’esse dell’ens e vede che vi è l’esse come
atto ultimo, il quale, a differenza dell’esse commune,
ha un valore intensivo e una perfezione, che supera tutte le altre
perfezioni, forme, essenze, sostanze ed enti. L’esse ut actus
è l’actualitas omnium actuum, è la più perfetta di tutte le
cose
[44]; l’essere come atto, e non quello
comune, è veramente la perfezione ultima e la radice di ogni altra
perfezione. Scoto, invece, mette al centro del suo pensiero l’esse
commune seu in genere[45], ossia una perfezione minima, indeterminata, universale e
generale o comune a tutte le cose. Ora l’essere comune è
condiviso da tutti gli enti, da Dio sino al minerale, e quindi
l’errore filosofico scotista può aprire le porte al monismo
panteista, mentre la metafisica tomistica dell’essere come atto
ultimo di ogni perfezione le sbarra inequivocabilmente.
Dimostrazione scotista
dell’esistenza di Dio[46]
Scoto definisce Dio come Ente infinito in atto[47].
Ma, «pur cercando di costruire una prova rigorosamente razionale, il
contesto in cui Scoto si colloca è quello religioso: Dio è già
pienamente riconosciuto in tutta la sua grandezza […] sul piano
della Fede. Così l’esordio del De principio di Scoto[48]
presenta molte analogie con quello del Proslogion di S.
Anselmo»[49].
La prova scotista è o vuol essere una rielaborazione scientifica
o strettamente filosofica della conferenza di spiritualità di
S. Anselmo ai suoi monaci contenuta nel Proslogion e chiamata
“prova ontologica”, poiché dall’idea dell’Essere
perfettissimo, cui nulla può mancare (neppure l’essere), si risale
alla Sua esistenza reale. I filosofi e S. Tommaso in
primis hanno obiettato che non è valido il passaggio
dall’idea alla realtà (passaggio su cui si fonda la filosofia di
Rosmini dell’idea di essere) e che inoltre l’uomo, il quale
ha idee e concetti finiti e limitati, non può avere come punto di
partenza un’idea (la quale coglie l’essenza della res) di Dio
che è Ente infinito[50].
Quindi si può arrivare all’esistenza di Dio e alla conoscenza di
qualche sua proprietà, e non della sua Essenza, solo per un
ragionamento che risale dagli effetti alla Causa. Scoto, però
contrappone filosofia e teologia[51],
ragione e Fede. Ora la ragione umana possiede dell’in-finito
solo un concetto negativo (come di ciò che è ‘non-limitato’)
e perciò non può dire nulla di positivo sull’esistenza di Dio
e sui suoi attributi o qualità, ma solo che Egli è in-finito
o non-limitato.
Apofatismo scotista
La prova dell’esistenza di Dio in Scoto, quindi, rischia di far
scivolare verso l’apofatismo maimonideo o il nichilismo
teologico[52]
(v. sì sì no no, 31 gennaio 2010, pp. 1-4): nulla si sa su
Dio, tranne che Egli è l’In-finito. Per sapere qualcosa di
positivamente più consistente su Dio, occorre la Rivelazione e la
Fede[53].
Inoltre Scoto nega la possibilità di provare razionalmente
l’immortalità dell’anima[54].
Infine Scoto, come poi
Francisco Suarez (v. sì sì no no, 15 febbraio 2011,
pp. 1-5), «si rifiuta di ammettere la distinzione reale tra essenza
ed esistenza, tranne che in Dio»[55].
Scoto riprende da Avicenna la concezione della non-distinzione reale
tra essenza ed essere nelle creature e con tale teoria prelude a
Suarez e alle involuzioni antimetafisiche della modernità[56].
Secondo Gilson - che è
stato uno dei più grandi studiosi dal punto di vista
storico/filosofico della filosofia medievale[57]
e di Scoto - lo scotismo è il diffusore di una metafisica dell’essenza,
che segna un ritorno ad Aristotele ed un’involuzione rispetto alla
metafisica dell’esse ut actus di S. Tommaso, la quale dà il
primato all’essere; una metafisica “agli antipodi di quella del
primato dell’esse come era quella di S. Tommaso d’Aquino”[58].
Gilson ha colto bene l’essenzialismo o il ritorno alla metafisica
della sostanza o dell’essenza di Aristotele da parte di Scoto e
l’abbandono dell’ascesa tomistica alle vette della metafisica come
filosofia dell’esse quale “perfezione suprema di ogni
perfezione, atto ultimo di ogni atto, essere ultimo di ogni essenza
e forma”. Tutto ciò a partire dalla negazione scotista della
distinzione reale tra essenza ed essere nelle creature, dichiarata
da S. Tommaso, come insegna anche la XXIII Tesi del tomismo:
“L’Essenza di Dio è identica al Suo Essere, cioè Dio è lo stesso
Essere per Sé Sussistente”[59].
Beatificazione di Scoto ma
non dello scotismo
Per quanto riguarda la beatificazione di Scoto, avvenuta nel 1991,
Gilson nel 1953, dopo aver concluso la sua opera di oltre ottocento
pagine su Scoto, scriveva: “Si riuscirà a far beatificare Scoto,
nella misura in cui non vorranno cercar di far canonizzare anche lo
scotismo o la dottrina dell’uomo Duns Scoto”[60].
Infatti già nel 1920 la ‘Congregazione dei Riti’ aveva
respinto la Positio super scriptis presentata dal Postulatore generale
della causa di beatificazione di Duns Scoto[61].
Scoto come uomo è stato un vero cristiano ed ha sviluppato la vita
della Grazia pienamente, ma come filosofo ha partorito una
dottrina lontana dalla realtà e dalla verità, anche se come teologo
non ha errato esplicitamente nella Fede. Gilson concludeva:
“Giacché devo scegliere tra l’ens ut ens senza l’esse
e l’ens come essentia habens esse, scelgo
quest’ultimo. Lo scotismo è una posizione dottrinale in opposizione
alla vera metafisica dell’essere di S. Tommaso. Resto contrario alla
metafisica scotistica dell’essere universale. […]. Sentiendum est
de theologia Scoti, sicut sentit Romana Ecclesia”[62].
Ora la Chiesa, come vedremo oltre, ha approvato ufficialmente e
magisterialmente le ‘XXIV Tesi del Tomismo’.
*
Considerazioni conclusive su Scoto
Scoto con il suo volontarismo, il suo criticismo, il suo fideismo, «si
trova a cavallo tra la grande scolastica e quella decadente,
spalanca le porte alla ‘via moderna’»[63].
Secondo Van Steenberghen
Scoto apre le porte sia al nominalismo di Occam (+ 1350)[64]
sia al falso misticismo apofatico di Eckhart (+ 1327)[65]. Il padre francescano Efrem
Bettoni valuta criticamente e severamente lo scotismo: «Scoto
[ha] l’onore di essere considerato il Dottore più rappresentativo
della scuola francescana. In cambio però i punti deboli e i
compromessi del suo sistema […], oggi rendono molti studiosi assai
perplessi sull’intrinseca coerenza e solidità del suo pensiero.
Scoto più che insegnare, incita a pensare»[66].
Perciò se vogliamo veramente e non solo verbalmente sentire cum
Ecclesia dobbiamo ire ad Thomam, non a Scoto e Suarez, e
volgere le spalle a Rosmini. «Molti teologi quando giungeranno
all’altro mondo, si renderanno conto di aver disconosciuto il valore
della grazia fatta da Dio alla sua Chiesa dandole il Doctor
Communis»[67].
d. CURZIO NITOGLIA
4 ottobre 2011
[1] Cfr. R. Zavalloni – E. Mariani, La dottrina mariologica di G. Duns Scoto, Roma,
1987; cfr. sì sì no no, 30 settembre 2011, pp. 1-8.
[2]
B. Mondin,
Storia della metafisica, Bologna, Edizioni
Studio Domenicano, 1998, II vol., p. 664.
[4]
S. Tommaso d’Aquino, C. G., I, 3 e 7; S. Th., I-II, q. 2, a. 4; De Ver., q. 14, a. 10. Contro cui, Duns Scotus,
Opus ox., Prol., q. 3, a. 8, n. 25.
[5] Per il concetto di “causalità”
in San Tommaso d’Aquino v. S. Th., I, q. 14, a. 8;
ivi, q. 19, a. 4; q. 44; q. 65, a. 3; II-II, q. 9, a. 2;
ivi, q. 45, a. 1; q. 46, a. 2; III, q. 7, a. 1; II Phys., lect.
X, n. 240; I
Sent., d. 18, q. 1, a. 5; IV Sent., d. 3, q. 1, a. 1,
sol. 1; De Pot., q. 5, a. 1.
[6] Per la nozione di “partecipazione”
in San Tommaso v. In Johann., Prol., n. 5.
[7] Per l’analogia di
proporzionalità in san Tommaso v. S. Th., I, q. 13,
a. 5 e 10.
[8] Per l’analogia di
attribuzione in s. Tommaso v. S. Th., I, q. 5, a. 6; ivi, I-II, q. 61, a. 1; q. 88, a.1.
[9]
Cfr. S. Th., I, q. 13, a.
10, ad 4.
[10]
Cfr. S. Th, I, q. 13, a.
6, ad 3.
[11] S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2um.
[12]
S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 37, q. 1, a. 1,
sol.; S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; I, q. 5, a. 1, ad 1;
I, q. 29, a. 2; C. Gent., II, 15.
[13]
B. Mondin, cit.,
p. 672.
[14]
E. Bettoni,
Duns Scoto filosofo, Milano, Vita e
Pensiero, 1966, p. 35.
[15]
E. Bettoni, voce
‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario
Enciclopedico di Filosofia” del ‘Centro di Studi Filosofici
di Gallarate’, II ed., Roma, Lucarini, 1982, VII vol.,
col. 526.
[16]
E. Gilson, La
filosofia medievale (1922), tr. it.,
Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito
della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia,
Morcelliana, 1947.
[17]
S. Tommaso d’Aquino, De Pot., q. 7, a. 2, ad 9; C.
G., I, 26;
[18]
S. Th., I, q. 84, a. 7.
[19]
D.
Scotus, Ordinatio
oxoniensis, Prol. q.
I, art. 1., ibidem, I, d. 3, p. 1, n. 113; In Ium
Sent., dist. 3, q. 5.
[20]
D.
Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, n.
126, 137 e 186.
[21]
S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 80, 82-83; De
Malo, qq. 3 e 6; De Ver., q. 22.
[22]
S. Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 85, a. 1; De
Anima, 4; Quodl., VIII, q. 2, a. 2. Al contrario, D. Scotus, Opus
ox., I, d. 3, q. 6, n. 2, 5, 8, 9-14.
[23]
D.
Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 3, a. 1,
n. 2, 4 e 7.
[24]
S.
Tommaso d’Aquino, De
spirit. creat., S.
Th., I, qq. 54-64, 98-103; Comp.
Theologiae, cap. 73-78.
[25]
E. Bettoni, voce
‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario
Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 526.
[26]
E. Bettoni,
cit., p. 44.
[27]
D.
Scotus, Opus
oxoniense, II, d. 3,
q. 1, n. 8-9.
[28]
Cfr. T. Tyn,
Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia
entis,
Bologna, ESD, 1991; rist., Verona, Fede & Cultura,
2009; S. Tommaso d’Aquino, S. Th. .I, q. 3, a. 1, ad 3; I. Sent., d.
19, q. 5, a. 2, ad 1; ivi, d. 8, a. 1, ad 4.
[29]
R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr.
it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 89.
[30]
E. Bettoni, voce
‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario
Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 529. Cfr. D. Scotus, Op.
ox., I, d. 2, q. 2, n. 11 e 16.
[31]
P. De Töth,
Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli &
Stianti, 1932, p. 41.
[32]
D. Scotus,
Reportatio parisiensia, IV, dist. 28 (“Voluntas
divina est causa boni et ideo eo ipso quod Deus vult aliquod,
ipsum est bonum”); cfr. Opus oxoniense, 3, dist., 37.
[33]
R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr.
it., Brescia, Queriniana, 1953, pp. 92-93.
[34] S. Th., I, q. 12, a. 1.
[35]
S. Tommaso d’Aquino, C. Gent, III, 26; S. Th.,
I-II, q. 62, a. 1; III Sent., d. 27, q. 2, a. 2, ivi, d. 33, q. 1, a. 2, sol.; De Ver., q. 28, a. 8, ad 2.
[36]
Cfr. R. Garrigou-Lagrange, cit., pp. 91-94;
Id., L’appetit naturel et la puissance obédientielle,
in “Revue thomiste”, n. 35, 1928, pp. 474-478; P. Parente, voce
‘Desiderio
di Dio’, in “Dizionario di teologia dommatica”, Roma,
Studium, 1947.
[37]
B. Mondin, cit.,
p. 676. Cfr. D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 3,
p. 1, n. 26; ib., I, d. 3, q. 2, n. 5-6, 8, 10; ib., I, d. 3,
q. 3, n. 6, 8-9, 12; ib., I, dist., 8, q., 3.
[38]
E. Bettoni, voce
‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario
Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 527.
Cfr. D. Scotus, Op.
ox., I, d. 3, q. 7, n. 20 e 26; Id., Quaestiones
in Metaph., l. VII, q. 18, n. 11
[39]
S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 19, q. 2, a. 2;
De Ver., q. 27, a. 1, ad 8.
[40]
P. De Töth,
Errori e pericoli dello scotismo, cit., pp. 64-65.
[41]
R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 94.
[42]
S.
Tommaso d’Aquino, III
Sent., d. 6, a. 2;
C. Gent., I, 12; S. Th., I, q. 3, a. 4, ad 2.
Invece, D. Scotus, Opus
ox., I, d. 3, q. 7; Op. ox., d. 3, q. 4, ibidem, I, d. 39, q. unica, n. 13, ib, IV, d. 43, q. 2, n.
10.
[43] De ente et essentia, cap. VI.
[44] De pot., VII, 2, ad 9; De
ente et essentia, cap. VI; De pot., II, 2, ad 9;
In I Sent., XVII, 1, 2, ad 3; C. G., III, 56; In I
Sent., XIX, 2, 2; C. G, I, 36; S. Th., I, q.
7, a. 1; Quodl., XII, 5, 1; S. Th., I, q. 4, a. 1,
ad 3. Invece, D. Scotus, Op. ox., d. 3, q. 2, n. 24; ib., I, d. 3q.
3, n. 8, 12, 24.
[45]
D. Scotus,
Op. ox., I,
d. 3, q. 6, n. 17; Quaest. in Metaph., Prologo, n. 5 e 9; Q. in Metaph., lib.
II, q. 3, n. 22; ibid.,
lib. IV, q. 1, n. 5.
[46]
S.
Tommaso d’Aquino, S.
Th., I, q. 2, a. 3.
[47]
d.
Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 2, n. 5; ib., I, d. 3, q. 2, n. 6-17; ib., I, d. 2, n. 43,
53, 57-58, 71-73, 118, 130-133, 136, 147.
[48]
D. Scotus, De
primo principio, I, 1; III, 42; IV, 80;
IV, 155.
[49]
B. Mondin, cit.,
p. 682.
[50]
S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 7, aa 1-2.
[51]
S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 1; I Sent., Prol, aa. 1-5; De Trin., q. 2, aa. 1-3; C. G.,
I, 3-8; Quodl., IV, q. 9, a. 3; De Pot., q. 9, a.
5.
[52] Contro cui cfr. S. Tommaso d’Aquino, In De Trin., q. 1, a. 2, ad 1;
De Pot., q. 7, a. 5, ad 13 e 14; I Sent., d. 8, q. 1,
a. 1, ad 4.
[53]
D. Scotus,
Ordinatio oxoniensis, I, d. 2, p. 1, q. 1; q.
2, n. 43; ivi, nn. 111-113 e 125; ivi, nn. 130-131
e 137; De primo principio, IV, nn. 134-135.
[54]
D. Scotus,
Opera omnia, Ed. Vivès, vol. XIII,
p. 66; vol. XIII, p. 79; vol. XX, p. 26; vol. XXIV, p. 499;
Opus ox., II, d. 17, q. 1, n. 3. Cfr. M. Cordovani, Il
Salvatore, Roma, Studium, II ed., 1946, p. 399. S. Tommaso invece
la prova nel suo De anima, XIV, ad 16 e ad 18; C. G, II, 55 e 79; S. Th., I, , q. 75, a. 6; ivi, q.
104, a. 4.
[55]
R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr.
it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 88.
[56] Cfr. E. Gilson,
L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988,
pp. 119-131.
[57]
E. Gilson, La
filosofia medievale (1922), tr. it.,
Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito
della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia,
Morcelliana, 1947. Cfr. il magistrale articolo di padre G. Perini,
Thomae doctrinam Ecclesia suam fecit, in Aa. Vv.,
L’Enciclica “Aeterni Patris” nell’arco di un secolo, vol. I
degli “Atti dell’VIII Congresso Tomistico internazionale”, Città
del Vaticano, 1981, pp., 89-121.
[58]
E. Gilson,
L’essere e l’essenza
(1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, p. 122.
[59] Cfr. E. Gilson,
Giovanni Duns Scoto (1952), tr. it., Milano, Jaca
Book, 2008, pp. 222-227.
[60]
L. K. Shook,
Etienne Gilson (1984), Milano,
Jaca Book, 1991, p. 143.
[61] Cfr. P. De Töth,
Errori e pericoli dello scotismo, cit., p. 80.
[62]
Cfr. L. K. Shook,
Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991, p.
451.
[63]
B. Mondin, cit.,
p. 698.
[64] Cfr. C. Giacon,
Occam, Brescia, La Scuola, 1945.
[65]
F. Van Steenberghen – A. Forest – M. De Gandillac, Il movimento dottrinale
nei secoli IX-XIV, in Storia della
Chiesa, a cura di A. Fliche – V. Martin, Milano, Siaie, vol. XIII, p. 496.
[66]
E. Bettoni, voce
‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario
Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 531.
[67]
R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, cit., p.
410.
Chi volesse approfondire il tema dello scotismo può consultare:
C. Balic, “La
scolastica post-tomistica: Giovanni Duns Scoto”, in
Grande
Antologia filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. IV,
p.
1349; Id., voce “Scotismo”, in “Enciclopedia Cattolica”,
Città del Vaticano, 1953, vol.
XI, coll. 151-162; G.
Lauriola, Introduzione a Duns Scoto, ‘Antologia’,
Alberobello, 1996; G.
Zavalloni, Giovanni Duns Scoto, maestro di vita e
pensiero, Bologna, 1992; D. Scaramuzzi,
D. Scoto. Summula scelta di scritti coordinati in
dottrina,
Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1932; O. Todisco,
Lo
spirito cristiano della filosofia di Giovanni Duns
Scoto,
Roma, 1975; Id., La nozione metafisica di essere
nell’ascesa a Dio del beato
Giovanni Duns Scoto, Napoli, 1966; M. Damiata, I e
II tavola. L’etica di G. Duns Scoto, Firenze-Pistoia,
1973;
B. Bonansea,
L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano, 1991;
P. Stella,
L’ilemorfismo di Duns Scoto, Torino, 1955; Antonio
Coccia, Attualità di Duns Scoto: conoscere per
amare, in “Ideali politici e problemi religiosi in
alcuni
grandi Filosofi”, Roma, Miscellanea Francescana, 1977;
Id., L’uomo di
fronte all’Infinito, Palermo-Roma, Mori, 1969; Id.,
Contributi
scotistici. Storia, dottrina, spiritualità, Roma,
“Miscellanea Francescana”, 1966; L. Jammarrone,
Il problema della creazione nel pensiero di Giovanni
Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Contingenza
e creazione nel pensiero di Duns Scoto, Roma,
“Miscellanea
Francescana”, 1966; Id., Giovanni Duns Scoto metafisico e
teologo, Roma,
“Miscellanea Francescana”, 1999; S. Vanni-Rovighi, La
Filosofia Patristica e Medievale, Giovanni Duns Scoto,
in “Storia della Filosofia”, diretta da C. Fabro, I
vol., Roma, Coletti, 1954, pp. 242-247; S. Vanni-Rovighi, L’immortalità
dell’anima nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, in “Rivista di Filosofia
neoscolastica”, Milano, 1931, pp.
78-104; G. Pini, Scoto e l’analogia, Pisa, Scuola
Normale Superiore, 2002;
P. De Töth,
Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli &
Stianti,
1932; N. Petruzzellis, Studi sull’etica di Scoto, in
“Archives de
Philosophie”, Parigi, 1940, pp. 68-87; Andrea
Dalledonne, Duns Scoto, in “Grande Antologia Filosofica”, Milano,
Marzorati, Aggiornamento bibliografico*, vol. XXXII,
1984, pp.
675-682. Il più acuto confutatore dello scotismo è
Johoannes Capreolus
(+ 1444), chiamato princeps thomistarum, che nelle sue
Defensiones theologiae Divi Thomae Aquinatis (ultima
edizione Tours, 1900-1908) accosta al ‘Commento alle
Sentenze’
di Pietro Lombardo’ fatto da S. Tommaso i testi della
‘Somma
Teologica’ e delle ‘Questioni disputate’
dell’Angelico, difendendoli contro gli scotisti e i
nominalisti,
tanto che gli scolastici hanno creato il motto
scherzoso: “si
Scotus non sonasset, Capreolus non saltasset; se Scoto
non
avesse suonato, Capreolo non avrebbe danzato”; cfr. R.
Garrigou-Lagrange, De Revalatione, Roma, Ferrari,
1918: sull’univocità dell’ente secondo Scoto, vol. I,
pp. 303,
363; sul Desiderio naturale efficace di veder Dio, vol.
I, p.
390; sulla confusione tra ordine naturale e
soprannaturale, vol.
I, p. 340, 365, 482.
[68] Se generalmente i
gesuiti seguono la dottrina di Suarez non sono mancati tra loro
quelli che si son distinti per la fedeltà e penetrazione del
tomismo, specialmente con la terza scolastica e il neotomismo
rilanciato dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879):
il card. Giuseppe Pecci,
fratello di Leone XIII, p.
Luigi Taparelli D’Azeglio, p. Serafino Sordi, p. Matteo Liberatore,
p. Giuseppe Kleutgen,
p. Giovanni Cornoldi,
p. Vincenzo Remer,
p. Guido Mattiussi,
p. Carlo Giacon, p. Paolo Dezza.
[69] Dizionario di
teologia dommatica, Roma, Studium, 4a ed.,
1957, voce “Soprannaturale”.
[70] Cfr. B. Mondin, I
grandi teologi del ventesimo secolo, Torino, Borla, 1969, 1°
vol. I teologi cattolici; H. Urs von Balthasar, Il padre Henry de Lubac. La Tradizione fonte di
rinnovamento, Milano, Jaca Book, 1978; A. Russo, Henry de Lubac: teologia e dogma nella storia.
L’influsso di Blondel, Roma, Studium, 1990.
[71] Cfr. G. Siri,
Getsemani, Roma, Fraternità della SS. Vergine Maria, 1980,
p. 54.
[72] Introduzione a San
Tommaso,
Milano, Ares, 1983, p. 321.
[73]
R. Garrigou-Lagrange, Sintesi tomistica, Brescia,
Queriniana, 1953, p. 400.
[74]
Ibidem, p. 403.
[75]
Ibid., p. 405.
[76]
Ibid., p. 409.
[77] Ibid., p. 541.
[78]
Cfr. B. Mondin,
Storia della Metafisica, Bologna, ESD, 1998, 3° vol., pp.
426-427.
[79]
Ibidem, pp. 426-427.
[80]
Ibidem, p. 429.
[81]
Ibidem, pp. 430-432.
[82] Storia della filosofia contemporanea, dall’Ottocento ai
giorni nostri, Brescia, La Scuola, 3a ed., 1° vol., 1990, p.
34.
[83] L. Malusa, (a cura
di), Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo Uffizio, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 33.
[84]
L. Malusa, cit., p.
35.
[85]
Cfr. L. Malusa, (a
cura di), Antonio Rosmini e la Congregazione del Santo
Uffizio, Milano, Franco Angeli, 2008.
[86]
Ibidem, pp. 13-14.
[87]
È quello che si cerca di fare anche col Vaticano II, non
condannare o rettificare le novitates in esso contenute,
ma re-interpretarle alla luce della “ermeneutica della
continuità”, che tutto concilia, storicizzando e relativizzando
ogni cosa. Se l’idea di essere rosminiana è compatibile
con l’essere intensivo tomistico, allora anche il
Vaticano II è in continuità “ermeneutica-soggettiva”, ma non
“reale-oggettiva” con la “Traditio Ecclesiae”.
[88]
Cfr. G. Mattiussi, Il veleno kantiano, Monza, 1907.
Id., Le XXIV
tesi della filosofia di San Tommaso, Roma, 1917.
«S. Pio X,
nell’enciclica Pascendi, aveva notato come la causa
principale degli errori modernisti era stato l’abbandono dei
princìpi fondamentali della filosofia tomista; perciò
incaricò il Mattiussi di raccoglierli in brevi proposizioni.
Egli allora redasse appunto le 24 tesi: individuò, con acume
penetrante, i primi princìpi della metafisica tomistica e li
formulò, con ferrea logica, nel modo più sistematico e preciso»
(AA. VV.,
Dizionario dei filosofi, Firenze, Sansoni, 1976, p. 801).
[89]
Tra le proposizioni condannate nel 1897 si legge: «Nella sfera
del creato si manifesta immediatamente all’intelletto
umano qualcosa di divino in se stesso, ossia che
appartiene alla Natura divina. […] Quando parlo di divino
nella natura, non uso questo termine ‘divino’ per significare
un effetto creato ‘non-divino’ di una Causa divina e neppure
‘divino per partecipazione’ [ma per essenza, ossia Dio in
Sé, nda]. […] L’Essere che l’uomo intuisce, deve essere
necessariamente qualcosa di necessario ed eterno: e questo è
Dio». Come si vede queste frasi che sono estratte dalle opere di
Rosmini. (Ciò è un “fatto
dogmatico”, ossia quando la Chiesa decide circa il senso
ortodosso o meno di alcune tesi, formule o libri, dogmaticamente
rilevanti. Il Magistero in tali casi può prendere decisioni
vincolanti ed obbliganti, ossia infallibili. Alessandro VII nel
1656 - riguardo al libro Augustinus di Giansenio -
dichiarò solennemente che le proposizioni condannate dalla
Chiesa sono esattamente quelle che si trovano nel libro
condannato nello stesso senso o significato e non in un altro
significato, cfr. Denz. 1092-1098 e 1350; così le 40
proposizioni di Rosmini condannate nel 1887, si trovano
infallibilmente sia nelle opere di Rosmini stesso e sia nello
stesso significato per il quale sono state condannate), non sono
solamente suscettibili di interpretazioni erronee, ma sono
panteiste e ontologiste in se stesse. Onde “il rosminianesimo
riassunto nelle 40 proposizioni” è e resta infallibilmente
condannato da Leone XIII e il card. J. Ratzinger nel 2001 ha
solo cercato di mettere in guardia da ulteriori, estrinseche,
interpretazioni eterodosse di Rosmini, senza poter cassare la
condanna intrinseca del Roveretano, che è un fatto dogmatico e
quindi irreformabile. Il card. Pietro Parente
scrive: «Non si può negare che l’oscuro sistema rosminiano
(almeno nella sua oggettiva espressione) presti il fianco
all’accusa di Ontologismo, quando asserisce che l’intelletto
umano intuisce l’essere indeterminato […]. La Chiesa ha
condannato esplicitamente l’Ontologismo riassunto in 7
proposizioni (Decreto del S. Uffizio del 1861, DB 1659 ss.) e in
altre 40 proposizioni (Decreto del S. Uffizio del 1887, DB 1891
ss.) ha rigettato il pensiero rosminiano, […] Filosoficamente
l’Ontologismo confondendo l’essere in generale o comune con
l’Essere divino, porta al Panteismo» (Dizionario di
Teologia Dommatica, Roma, Studium, 4a ed., 1957, p. 292). .
[90] L. Malusa, cit., p.
58.
Altri autori seri,
profondi e ben preparati, ma ‘limitati’ da un certo filo
rosminianismo, sono soprattutto il geniale Michele Federico Sciacca
ed anche Pier Paolo Ottonello, Adelaide Raschini e molti altri
specialmente dell’Università di Genova ove ha insegnato per
lungo tempo lo Sciacca che può essere considerato il caposcuola
dello ‘spiritualismo cristiano’. Anche Augusto Del Noce,
grande e lucido critico della modernità e postmodernità, dà
un’interpretazione positivamente riabilitatrice ma scarsamente
convincente di Rosmini, cercando di riconquistare Cartesio alla
sana filosofia e leggendolo in linea di paternità
spirituale-filosofica con Malebranche e Rosmini, in funzione
spiritualista e antimaterialista.
●Purtroppo anche Romano Amerio, che
apprezzo molto per quanto riguarda il suo “Iota unum”,
non è immune dall’influsso rosminiano, anche se temperato da una
profonda conoscenza del Dottor Comune, cfr. E.M. Radaelli,
Romano Amerio. Della verità e dell’amore, Lungro di Cosenza,
Marco Editore, 2005, p. XIX e p. 238. Quanto alle obiezioni che
l’Editore di Amerio è stato il laicista esoterico e in odore di
massoneria Raffaele Mattioli suocero di Enrico Cuccia (cfr. G. Galli, Il
banchiere eretico. La singolare vita di Raffaele Mattioli,
Rusconi, Milano, 1998;
Id, Il
Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di
Mediobanca e il
capitalismo italiano, Garzanti, Milano, 1995; S. Gerbi,
Raffaele Mattioli e il filosofo domato, Milano, Rizzoli,
2002), con la casa editrice Riccardo Ricciardi, rispondo
che non
si può identificare l’Editore con l’Autore. Se vi sia
stata
amicizia tra i due, occorre distinguere un’amicizia
privata (transeat) da un’amicizia o comunanza dottrinale, la quale per
quel che
ne so è tutta da provare e solo allora sarebbe
significativa. Se
qualcuno ha le prove di quest’ultima le fornisca
oggettivamente
e se ne parlerà serenamente, sine ira et studio. Infine
quanto al fatto che l’Editrice Lindau di Torino, la
quale tra
l’altro stampa i testi dei teo e neo conservatori
ebraico-americanisti, stia ripubblicando l’opera omnia
di
Amerio, vale lo stesso discorso di sopra, con l’aggiunta
che
Amerio non c’è più e dunque non gli può essere imputato.
[91]
Cfr. B. Gherardini, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare,
Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009.
[92]
Cfr. F. Marìn Sola, L’évolution homogène du dogme catholique, Friburgo, 1924.
[93]
Per quanto riguarda il Campanella cfr. Opere di Giordano
Bruno e Tommaso Campanella, a cura di Augusto Guzzo e Romano Amerio,
Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1966.
Id. Il
sistema teologico di Tommaso Campanella, Milano-Napoli, Riccardo
Ricciardi Editore, 1972.
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