III - Il Maestro
Un’attenzione
particolare va riservata al magistero di Pio IX, non senza dimenticare
che l’espressione più nobile di esso è la sua stessa vita: una lezione
luminosa di dedizione a Dio ed alla Chiesa.
Un po’ per la sua
bonomia, un po’ perché non fu uno studioso, qualcuno potrebbe pensare
che Pio IX abbia dato vita ad un pontificato scialbo dal punto di
vista magisteriale. Niente di più errato. Pio IX aveva il fiuto
dell’errore e l’occhio clinico per individuarlo a prima vista. Ed aveva
pronto, in pari tempo, l’antidoto. Non tutti sanno che la ripresa del
tomismo nei seminari e nelle università, prima che di Leone XIII fu
merito di Pio IX.
Ciò che sorprende in un uomo divorato dallo
zelo per le anime e non dal fascino d’una cattedra universitaria, è
l’informazione. Già da vescovo e da cardinale sapeva riconoscer di
lontano la matrice di certe storture dottrinali, giudicandole "una
meschina fusione dei pensieri di Potter, La Mennais e Bunsen". Sapeva
anzi distinguere "dal primo e dal terzo", accaniti antiromani, il
secondo, il cui equivoco consisteva in un erroneo concetto di
tradizione. Sapeva del giansenismo ed era capace di riconoscerne i
sintomi anche in teologi, e perfino in vescovi, che vi s’ispiravano
più o meno scopertamente, in Italia e all’estero.
Non era cieco
neanche dinanzi agli errori teologico-politici, che attanagliavano il
clero della sua epoca. Non suscita dunque alcuna meraviglia che gran
parte del suo pontificato si caratterizzi sul piano magisteriale, a
difesa del deposito della Fede e a proposta d’indirizzi sicuri.
III - L'Immacolata Concezione
Era
ancora a Gaeta, esule e vittima della prepotenza politica, quando
mise in moto il progetto relativo alla definizione dogmatica
dell’immacolato concepimento di Maria. Non si trattava d’un fatto
puramente devozionale e non era in gioco il suo personale trasporto per
la Vergine Santa. Si trattava di sapere se Maria fosse stata
concepita senza peccato originale e se ciò facesse parte della
rivelazione cristiana.
Una consultazione mondiale fu allora promossa con l’enciclica
Ubi primum.
I vescovi di tutto il mondo dovevan pronunciarsi sulla legittimità e
sull’opportunità o meno d’una definizione dogmatica a tale riguardo.
593 furon le risposte, delle quali 8 soltanto negative, 2 incerte, 35
favorevoli con riserva e tutte le altre, cioè la stragrande maggioranza,
pienamente a favore.
Che Maria fosse stata concepita senza
peccato originale era solo una pia credenza, diffusa peraltro in tutta
la Chiesa, ma priva del vincolo dogmatico. Presente nella preghiera
liturgica, variamente intesa dai grandi teologi del passato dei quali
alcuni non ne erano stati entusiasti, accolta ed approfondita dalla
scuola francescana, garantita per così dire da un avallo
preternaturale (le apparizioni a S.ta Caterina Labouré) e
successivamente confermata da un altro evento preternaturale (le
apparizioni a S.ta Bernadette Soubiroux) la pia credenza s’apprestava a
rivestirsi di portata dogmatica, quando il parere quasi unanime dei
vescovi confortò il progetto di papa Mastai.
Più di sei anni, tuttavia, furono ancora necessari, sei anni di preghiera, di studio e di riflessione, prima che con l’
Ineffabilis
Deus Pio IX promulgasse il nuovo dogma mariano. Ad una preliminare
commissione teologico-consultiva, altre 4 ne seguirono di cardinali,
vescovi e teologi per trattare adeguatamente l’argomento da tre
distinti punti di vista: la definibilità, I’opportunità, la redazione
del testo.
Anche in tale occasione, Pio IX rivelò una prudenza
pari alla fermezza del suo intento. Sottomise al giudizio di 16
teologi il primo abbozzo del testo, redatto da G. Perrone. Altri 7
vennero di volta in volta preparati analizzati e valutati. Bisognava
che ci fosse provata chiarezza non solo sull’esistenza "ab antiquo"
della pia credenza nella Chiesa universale, ma anche sul tenore delle
risposte ricevute e delle obiezioni prima ed allora sollevate. In
particolare, occorreva superarne due, senza dubbio gravi: il silenzio
neotestamentario e l’universalità del peccato originale.
I lavori
delle commissioni e dei singoli teologi furono intensi, accompagnati
dall’interessamento personale del Papa e dalla sua ininterrotta
preghiera. Con Lui pregavano tante altre persone, alle quali Egli
stesso s’era rivolto; in particolare, le claustrali. A quattro giomi
dalla proclamazione, il testo non era ancora perfettamente a posto e
si deve ai suggerimenti diretti di Pio IX il superamento definitivo
delle difficoltà.
8 dicembre 1854. Con una solennità inaudita,
nella patriarcale basilica di S. Pietro in Vaticano, alla presenza di
53 cardinali, 43 arcivescovi e 99 vescovi, accorsi appositamente per
testimoniare il consenso della Chiesa universale, il Santo Padre, non
senza commozione, definì come dogma di fede l’immacolato concepimento
della Vergine Maria. Tre anni dopo il Papa stesso rievocò quel momento
paradisiaco: "Quando iniziai a leggere il decreto...sentii la mia
voce incapace di farsi capire dall’immensa moltitudine che riempiva la
basilica vaticana. Ma quando arrivai alla formula, Dio donò alla voce
del suo Vicario una forza tale e tale vigore soprannaturale, da farla
risuonare in tutta la basilica. Ero così impressionato d’un tale
divino soccorso, che dovetti interrompermi un momento per dar libero
sfogo alle mie lacrime".
Questo dogma, sia ben chiaro, s’impone
all’attenzione critica e alla Fede della Chiesa non per le lacrime di
Pio IX, ma per il suo contenuto pienamente conforme alla Fede e per il
valore dottrinario della sua formulazione. Pio IX capiva
l’interconnessione dell’Immacolata con le altre verità rivelate ed
ebbe il coraggio, la fermezza e la coerenza d’insistere su una
siffatta connessione per far diventare dogma una pia ed antichissima
credenza. Aveva anche capito che l’Immacolata s’articolava direi
organicamente con l’Assunta, questa dipendendo da quella; ma a chi lo
sollecitava per procedere anche alla definizione dogmatica di Maria
assunta corpo ed anima nella gloria celeste, rispose di non esserne
degno, anche se sicuro che ciò si sarebbe avverato più tardi.
A scanso d’equivoci, sembra ora opportuno sostare dinanzi al testo per coglierne il significato autentico.
Esso
s’apre con l’appello all’autorità che dà garanzia dogmatica al
magistero papale: "Per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei
Beati Apostoli Pietro e Paolo e nostra". Anche dal punto di vista della
formulazione tecnica, si è di fronte ad un esordio magisteriale.
L’intervento del Papa si giustifica in base al fatto ch’esso dipende
non da una decisione privata del Pontefice stesso (e per tale motivo ho
tradotto "nostra" invece che "la nostra"; quell’articolo indicativo
potrebbe in effetti distinguere l’autorità del Papa da quella di Cristo
e degli Apostoli Pietro e Paolo, mentre si tratta della medesima ed
unica autorità), ma da una decisione "pubblica", dovuta cioè alla sua
"persona pubblica", ovvero al suo ufficio magisteriale di Capo Maestro e
Pastore supremo della Chiesa, al quale lo Spirito Santo assicura
l’autorità stessa di Cristo capo Maestro e Pastore.
"Noi
dichiariamo affermiamo e definiamo". Linguaggio classico, che troverà
conferma, poco dopo, nella "Pastor aeternus" del Vaticano I. Nel "noi"
non risuona un semplice plurale maiestatico, ma la limpida coscienza
dell’ufficio papale: pertanto, non la sola rappresentatività di tutta la
Chiesa, ma la responsabilità universale che tutta la coinvolge, in
ogni tempo, in ogni dove, nella professione del dogma mariano.
"Che
la dottrina, secondo la quale la Beatissima Vergine Maria. fin dal
primo istante in cui venne concepita, per singolare grazia e privilegio
di Dio, in considerazione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del
genere umano, fu preservata immune da ogni macchia del peccato
originale, è da Dio rilevata ed è pertanto fermamente e costantemente".
Sta qui il contenuto dottrinale della definizione piana, dove peraltro
occorre far una distinzione: il contenuto rigorosamente dogmatico è
quello relativo alla dottrina in quanto rivelata e perciò "credenda";
la specificazione di tale dottrina indica i limiti di ciò che fu
rivelato e che bisogna credere: non al di sopra, non al di sotto di
essi. Da notare anche la contraddizione di qualche antica e moderna
traduzione del "praeservatam immunem" con "affrancata"; se affrancata
dal peccato, Maria non ne sarebbe stata immune.
III - Il ConcilioVaticano I
Procedo
per sommi capi, impossibile essendo, ora, un’esposizione analitica
completa sul magistero di Pio IX. Sarebbe di grande interesse il
soffermarsi sul peso magisteriale delle sue non poche encicliche; ma è
di gran lunga maggiore l’interesse che collega il peso suddetto
all’evento epocale la cui sola memoria basta ad immortalare il grande
Pontefice: parlo del Concilio Ecumenico Vaticano I.
Ne parlo non
per tesserne la storia, ormai investigata in ogni suo più piccolo
particolare, ma per documentarne quel peso magisteriale al quale prima
accennavo, e che ridonda in ultima analisi a merito di Colui che quel
Concilio volle, aprì, diresse e promulgò.
Anche il progetto d’un
Concilio ecumenico nacque a Gaeta nel 1849. Nel 1863 fu il card.
Wiseman a parlarne con Pio IX. E questi, il 6 dicembre 1864, confidò
la sua speranza ai 15 cardinali della Congregazione dei Riti. L’anno
successivo entrò in azione una commissione cardinalizia. E così, di
commissione in commissione, di consulta in consulta, non assenti
nemmeno alcune contromanovre da parte sia di circoli massonici ed
anticlericali, sia d’ecclesiastici d’avanguardia, s’arrivò
all’apertura del Concilio: 7 dicembre 1869.
Fu davvero un
Concilio Ecumenico: 55 cardinali, 6 patriarchi, sei abati "nullius",
24 abati generali, 29 generali di ordini e congregazioni religiose,
964 vescovi. E’ risaputo che non tutto il materiale preparato venne di
fatto discusso ed approvato. I venti di guerra e le condizioni
politiche italiane determinarono la chiusura precoce del Concilio (18
luglio 1870) e due sole furono le Costituzioni dogmatiche approvate:
la "Dei Filius" e la "Pastor aeternus".
L’una fu discussa per
oltre un mese e concluse il suo itinerario con miglioramenti e
varianti di carattere formale e teologico. Altrettanto avvenne per
l’altra, anche se l’incerto clima politico ne condizionò almeno in
parte la discussione.
La "Dei Filius", approvata in sessione
plenaria il 24 aprile 1870, fu promulgata seduta stante da Pio IX,
evidentemente compiaciuto e grato al Signore. Nel prologo si passavano
in rassegna i principali errori dell’epoca moderna, con particolare
riferimento a quelli sull’esegesi biblica, sul razionalismo e sul
naturalismo, donde si cade "nell’abisso del panteismo, del
materialismo e dell’ateismo". In evidenza, ovviamente, venivan messi
anche gli errori teologici che confondevano i confini della natura e
della grazia e si discostavano dall’insegnamento tradizionale della
Chiesa
Dopo il prologo, quattro brevi capitoli sulla genuina Fede
cattolica: Dio Creatore dell’universo; La Rivelazione divina, la
Fede, la Fede e la ragione. Il contenuto di questi quattro capitoli
trova poi la sua formulazione dogmatica in 18 canoni che infliggono la
scomunica a chiunque osi negarne il contenuto dottrinale, diffondendo
e sostenendo dottrine ad esso contrarie.
Non mancarono, qua e
là, delle critiche: vescovi poco convinti, teologi d’ispirazione
liberale e neogallicana, storici il cui metro per valutare la vita
della Chiesa prescindeva dal soprannaturale. La maggior parte dei
destinatari, però, gioì con Pio IX perché il Concilio aveva raggiunto
uno dei suoi scopi principali: aveva non solo condannato gli errori, ma
a questi aveva contrapposto la verità immutabile della rivelazione
divina.
La seconda Costituzione dogmatica del Vaticano I, la
"Pastor aeternus", è comunemente conosciuta come la costituzione sulla
Chiesa; in realtà i tempi ristretti dei lavori conciliari furon la
causa del loro "cursus in fine velocior". I Padri stessi, o alcuni di
essi, non vedevan l’ora di far ritorno alle loro sedi. Ne fecero le
spese soprattutto i temi ecclesiologici, dei quali si discusse ed
approvò solo una piccola parte (il cap. XI dello schema "de
Ecclesia"), riguardante la dottrina del Romano Pontefice. La si
articolò in tre capitoletti, ai quali fu poi aggiunto il cap. IV
sull’infallibilità papale.
In quella fase conciliare,
infallibilisti ed antinfallibilisti misero in atto sottili ed accorte
manovre, capaci di portare la questione dell’infallibilità al centro
dell’interesse conciliare. Come sempre in casi del genere, le
posizioni andavano dal
si al
no passando attraverso sfumature varie, il cui scopo era quello di mediare gli estremi.
Il
6 marzo 1870 fu consegnato un progetto, frutto di lunghe discussioni,
che s’aggiungeva al cap. XI poco sopra ricordato e che ebbe subito il
massimo interesse dei Padri conciliari. Proseguiva intanto la
discussione del cap. XI sull’ufficio primaziale del vescovo di Roma.
139 furono gli emendamenti proposti e poi discussi ed approvati. Alla
fine, il testo ebbe il gradimento comune circa la dottrina che
stabiliva come dogma di Fede che al solo Pietro il Signore donò il
primato sulla Chiesa universale; che tale primato è per divina
disposizione transpersonale, da trasmettere cioè ai legittimi successori
del principe degli Apostoli; e che esso consiste non in una
supervisione o nella posizione del "primus inter pares", ma in una vera
e propria giurisdizione.
La questione di fondo rimaneva,
tuttavia, quella del progetto aggiuntivo sulla infallibilità papale.
Le proposte s’accavallavano a vicenda. Quelle favorevoli incontravano
la resistenza d’una minoranza teologicamente agguerrita e non incline
al facile cedimento. Nuovi gallicani e frange non indifferenti di
conciliarismo mitigato pretendevano almeno questo: che prima di
procedere ad una definizione dogmatica, nella quale pertanto fosse
impegnata l’infallibilità dell’asserto, il Papa avesse l’assenso dei
vescovi, per la ragione che essi concorrono con Lui al governo della
Chiesa. La maggioranza rispondeva che all’esercizio dell’ufficio
petrino, uno ed indiviso, non ha parte l’episcopato, con la conseguenza
che il Papa di per se stesso, e non mediante il consenso dei vescovi o
della Chiesa, è capace di definizioni infallibili.
Il 4 luglio,
per la sesta volta in quattro mesi, fu proposta una formula aperta ad
alcuni emendamenti, ma ferma sulla sostanza. Una maggioranza
schiacciante l’approvò il 13; ma la minoranza non si dette per vinta.
Valendosi dell’ampia libertà concessa da Pio IX a chiunque volesse o
avesse da eccepire, Mons. Dupanloup suggerì al Papa d’approvare, si,
come decisione conciliare la dottrina dell’infallibilità sulla quale
confluiva il parere della maggior parte dei Padri, ma d’astenersi dal
promulgarla per non turbare gli spiriti già molto preoccupati. Insomma,
si voleva metter la mordacchia a Pio IX, il quale non era affatto
disposto a lasciarsela mettere.
Arrivò il 18 luglio. Su 535
presenti, 2 soltanto si dissero contrari, una quarantina di vescovi
aveva lasciato Roma, un po’ per la precarietà della situazione
politica, un po’ per non partecipare alla plenaria. Non senza
commozione ma fermo sulle sue posizioni, Pio IX rassicurò i confratelli
nell’episcopato sui rapporti tra l’episcopato stesso e
l’infallibilità, nel senso che questa suprema prerogativa dell’autorità
papale, anziché schiacciare quella episcopale, è a tutela e garanzia
di essa.
In realtà, non si trattava della divinizzazione d’un
uomo né dell’assorbimento, da parte sua, delle responsabilità e
prerogative dei vescovi. Il Papa, chiunque fosse, anche dopo la
definizione dogmatica della sua infallibilità restava l’uomo che era e
come era: con i suoi pregi ed i suoi difetti. In quanto dottore
privato, può sempre cadere in errore come ogni altro privato dottore.
Ma in quanto Capo supremo, Maestro e Pastore di tutta la Chiesa, in
ciò che riguarda le verità da credere e da incarnare nel tessuto
quotidiano, gode d’uno speciale carisma, cioè di quell’infallibilità
che rende le sue decisioni irreformabili di per sé e non per il
consenso della Chiesa.
Tale formula entrò come quarto capitolo
nella "Pastor aeternus". Ognuno dei quattro capitoli venne quindi
specificato da un canone dogmatico. Si chiudeva in tal modo, con una
evidentissima vittoria della Divina Provvidenza che guida i passi
degli uomini verso i suoi traguardi, oltre che con l’oscurarsi
dell’orizzonte politico internazionale ed italiano, il Concilio
Ecumenico Vaticano I. Esso fu pure, in ultima analisi, la vittoria di
Pio IX. A me piace considerarlo, per le sue due Costituzioni
dogmatiche, una perla del magistero piano.
III - Il Sillabo
Affronto
per ultima, anche se cronologicamente avrei dovuto parlarne prima,
una delicata questione, causa di non rari malintesi e d’infondate
accuse sia contro Pio IX sia contro la Chiesa: la questione del
Sillabo.
Il 9 giugno 1862, ad un buon terzo dell’episcopato
mondiale convenuto a Roma per la beatificazione di 26 martiri
giapponesi, Pio IX tenne una ben nota allocuzione sui "terribili mali"
che affliggevano la Chiesa e la stessa società civile. Fu, da parte
sua, l’ennesima denuncia del razionalismo, del panteismo, dell’ateismo
e di ciò che tra breve sarebbe stato chiamato modernismo. In
particolare eran direttamente colpiti quanti giudicavano la divina
rivelazione "imperfetta e soggetta ad un progresso continuo ed
indefinito, conforme al progressivo sviluppo della ragione umana". Pio
IX colpiva inoltre chi riduceva a favole i miracoli e le profezie dei
Libri Sacri, chi nei misteri della Fede null’altro vedeva che il
risultato d’investigazioni filosofiche, chi dava per scientificamente
accertato che Antico e Nuovo Testamento contenessero soltanto dei miti
e che lo stesso Cristo fosse "mito e finzione".
Come si
chiamassero i colpiti da Pio IX era implicito nelle sue parole: David
F. Strauss in Germania; Emesto Renan in Francia; altri seguaci
dell’uno e dell’altro. Il Papa voleva impedire che i loro errori si
propagassero nei Seminari e nelle Università, magari sotto il titolo
di progresso scientifico.
Era insomma un Sillabo "in nuce". Del
resto il Sillabo, cioè l’elenco dei principali errori del tempo, era
cominciato prima di Lui. Pur tacendo altri nomi, una menzione va fatta
per Gregorio XVI, anch’egli invitto difensore della Fede contro
l’attacco portatole dal razionalismo illuministico, dal secolarismo e
dall’ateismo di varia estrazione. Pio IX ne segui le orme già con la
sua prima enciclica (
Qui pluribus del 9 novembre 1846), autentico anticipo della
Quanta cura
e dello stesso Sillabo. Chi non fa questo collegamento corre il
rischio di fermarsi ad un’immagine di Pio IX che intraprende il suo
pontificato con sentimenti e propositi difformi dalla sua spiritualità e
non in linea con le sue preoccupazioni pastorali. Al contrario,
l’alba di questo pontificato, con la
Qui pluribus,
s’illuminava di quella severa vigilanza magisteriale che, già presente
nell’animo del giovane prelato a Roma, in Cile, a Spoleto e ad Imola,
accompagnerà il suo non facile pilotaggio del naviglio petrino e si
evidenzierà in modo speciale proprio con il Sillabo.
Sembra che
il suggerimento di catalogare e condannare pubblicamente gli errori
moderni sia stato rivolto a Pio IX per la prima volta, già nel 1849,
dal card. Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII: un collegamento
significativo, che annulla sul nascere troppo precipitose
contrapposizioni dei due Pontefici. Nel 1851 toccò ad un laico di
Torino Emiliano Avogadro della Motta, a sollecitare dal Papa la
pubblica condanna dei numerosi e perniciosi errori moderni. E nel
maggio di quel medesimo anno, Pio IX ordinò un primo sondaggio su vasta
scala in ordine ad una tale prospettiva.
Nuove indagini vennero
condotte tra il 1859 ed il 1860. L’esito si concretò in 79
proposizioni condannabili, raccolte sotto il titolo "Syllabus errorum
in Europa vigentium". La prospettiva andava verso il suo epilogo; ma
il cammino non era stato ancora percorso per intero.
L’episcopato,
nella sua grande maggioranza, assecondava Pio IX e procedeva nella
stessa direzione. E’ nota la pastorale di Mons. Gerbert, vescovo di
Perpignano: una nuova raccolta di errori. Pio IX, anzi, decise di
rifarsi ad essa per la redazione del
suo Sillabo, cioè di
quello ufficiale. Nominò nel maggio del 1861 una commissione speciale
perché esaminasse le 85 proposizioni di Mons. Gerbert. La commissione
lavorò alacremente e, dopo decine di sedute, il documento ufficiale era
pronto. Il Papa l’esaminò e lo fece consegnare ai vescovi presenti in
Roma per la già ricordata beatificazione dei martiri giapponesi.
Come
si vede, Pio IX non era l’uomo dei "colpi di testa". Prudente e
rispettoso delle idee altrui fino allo scrupolo, chiedeva ai vescovi
ch’esprimessero liberamente il loro pensiero su un problema di tanta
importanza e di tanta incidenza nell’atmosfera culturale del tempo. E
circa un terzo dei vescovi interpellati, pur d’accordo sull’essenziale,
giudicò inopportuna l’iniziativa.
Nel contempo, e precisamente
nel dicembre del 1862, visto 1’aggravarsi della situazione in ambito
teologico e filosofico, il Papa condannò l’abate Jacob Frohschammer,
professore di filosofia all’università di Monaco, perché accordava
"alla ragione umana forze che non le competono affatto", traendone la
conseguenza d’una libertà senza freni, con pregiudizio per "i diritti,
le funzioni e l’autorità della Chiesa". Tale condanna s’inseriva nel
contesto d’altre severe prese di posizione nei confronti di tutta la
corrente liberaloide tedesca, ma anche francese e belga. Il tempo era
ormai maturo per una condanna a più vasto raggio, la qual cosa avvenne
1’8 dicembre 1864 con 1’enciclica Quanta cura e con il Sillabo.
Questo, anche perché non datato, seguiva l’enciclica come un suo
allegato. Ne faceva parte, dunque.
L’enciclica richiamava ancora
una volta l’attenzione del mondo cattolico sui pericoli che correva la
Fede cristiana a causa del propalarsi, a livelli sempre meno
controllabili, d’errori gravissimi. Ancora una volta era messo a fuoco
il naturalismo, che sopprime ogni legame tra società e religione; la
libertà di coscienza e di culto, che già sant’Agostino aveva definito "libertà di perdizione"; l’
estromissione della Chiesa da ogni compito educativo nei confronti dei giovani, che veniva riservato soltanto allo Stato; la
sottomissione di essa, privata dei suoi nativi diritti temporali, allo Stato stesso; la
negazione
della divinità di Cristo. Pio IX parlava a tale riguardo d’ "insolenza
criminale" e di "cospirazione...contro il Cattolicesimo e la Sede
Apostolica".
Il Sillabo, richiamandosi ai precedenti atti papali
d’analogo contenuto, condensava in 80 proposizioni, queste
distinguendo in 10 settori, tutte riguardanti la "cospirazione" sopra
accennata. In particolare cadevano sotto condanna:
- il
naturalismo, il
panteismo ed il
razionalismo assoluto;
- il
naturalismo moderato, con riferimento a Gunther, Frohschammer, Dollinger ed altri;
- l’
indifferentismo ed il
latitudinarismo;
- il
socialismo, il
comunismo, le
società segrete ed altre società
clerico-liberali;
- le
idee eversive della natura della Chiesa e negatrici dei suoi diritti;
- gli
errori sulla natura della società civile, specie su quello che asservisce la Chiesa allo Stato;
- gli
errori relativi alla morale naturale e cristiana;
- gli
errori sul matrimonio cristiano;
- gli
errori sul potere temporale del Romano Pontefice;
- gli
errori che sottopongono il Papa e la Chiesa al progresso, al liberalismo, ed alla moderna civilizzazione.
Come
si sa, tanto l’enciclica quanto e soprattutto il suo elenco degli
errori moderni suscitarono (e tuttora suscitano) un’infinità di
critiche. Ne risenti la stessa causa di beatificazione, almeno nel senso
che anche tali critiche contribuirono ad allungarne smisuratamente i
tempi. Dico smisuratamente, perché le critiche si son poi rivelate,
tutto sommato, infondate. A giustificarle non era certo sufficiente il
taglio netto dell’espressione formale e meno ancora qualche sbrigativa
ricostruzione delle posizioni condannate. Era ed è del pari riduttivo
il giudizio sul Sillabo inteso come forma puramente negativa del
magistero di Pio IX. Gli elementari criteri d’ermeneutica insegnano che
da una dottrina condannata si desume la vera, d’altra parte, di
magistero al positivo è pieno il pontificato di papa Mastai.
Bisogna
inoltre capir bene che cosa Pio IX intendesse colpire: non il
sacrario inviolabile della coscienza, ma l’indifferentismo religioso e
non si riesce a spiegare come e perché un teologo del calibro di Y.
Congar, senza calarsi nell’atmosfera piana, abbia messo in antitesi il
Sillabo e la dichiarazione
Dignitatis humanae del Vaticano
2. Chi infatti si colloca nell’ottica di Pio IX, non solo non
contrappone i due documenti, ma potrebbe perfino individuare un
passaggio logico (alludo alla "logica della Fede") dall’uno all’altro.
E’
doveroso infine osservare un’altra fondamentale legge interpretativa:
nessuno è autorizzato a leggere con gli occhi d’oggi i fatti di ieri.
Lo storico in questo si distingue dal cronista: ricupera la mentalità e
la cultura del periodo studiato e dei protagonisti in esso operanti.
Se qualcuno non lo fa, il
suo Pio IX resta sospeso all’alea della manomissione, dell’incomprensione, ed in ultima analisi della falsificazione.
III - Il Santo
La
spiritualità di Pio IX, già ben definita negli anni della giovinezza
(che pur conobbe in Lui alti e bassi e non fu priva di pericoli e
tentazioni) venne affinandosi nel tempo. E’ una legge comune: nessuno
nasce con l’aureola. Quando Pio IX morì, l’accompagnava alla tomba non
solo l’odio bieco ed astioso dell’anticlericalismo piazzaiolo, ma
anche e soprattutto una fama di santità, diffusissima e al di sopra di
ogni sospetto. "E’ morto un santo", fu il grido che attraversò l’orbe
cattolico; e non mancarono riconoscimenti in tal senso anche da parte
acattolica. Don Bosco, che gli era stato vicino e lo conosceva a
fondo, pronosticò subito la gloria degli altari.
Dopo un esame minuzioso e lungo quasi un secolo, la Chiesa scioglie oggi ogni riserva e lo proclama pubblicamente beato.
Il lettore, tuttavia, ha diritto di sapere su quali basi.
III - Un vero prete
Sono
innumerevoli le grazie attribuite al grande Pontefice sia prima, sia
dopo la sua morte. Certo, nessuna di esse può esser addotta a
fondamento della sua santità, anche se è un indice della richiesta "Fama
sanctitatis": il fondamento unico ed irrefragabile della santità è
"la perfezione della carità". E’ questa l’angolatura dalla quale
occorre posare lo sguardo su Pio IX, nel chiedersi se fosse o meno un
vero santo.
Tuttavia, nel complesso delle grazie sopra accennate
ce n’è una che, attentamente analizzata e valutata dalla Consulta
Medica della Congregazione per le Cause dei Santi, è stata dichiarata
miracolo. La detta Consulta, infatti, I’ha definita naturalmente e
scientificamente inspiegabile. Da questa base è poi partito il
giudizio teologico per approdare al miracolo e riconoscere in esso il
dito di Dio, ossia l'avallo soprannaturale del giudizio di santità.
Sopra
ho accennato alla perfezione della carità; santo infatti non è colui
che va in estasi e sposta le montagne, ma colui che ama Dio al di
sopra di tutto e di tutti e tutti gli altri per amore di Dio. E proprio
questa è la nota che rifulge nella personalità di Pio IX: amava Dio
immensamente, intensamente e, sotto certi aspetti, fanciullescamente
traducendo il suo medesimo amore di Dio in amore del prossimo, di
qualunque prossimo anche dei suoi nemici. Fu così nel fervore dei suoi
anni verdi, preludio di ciò che sarebbe maturato negli anni del suo
ministero vescovile e papale, fino alla vecchiaia e alla morte.
Visse
il suo eccezionale momento storico, così ricco d'eventi che
cambiarono il corso della storia in Italia, nella Chiesa e nel mondo,
in perfetta amorosa unione con Dio ed altrettanto amorosa
disponibilità per gli altri. In mezzo a vicende che oltrepassavano di
gran lunga il limite dell'ordinario, oggetto non di rado d'accuse
ingenerose e di lotte a tutto campo, continuava a dar il suo alto
esempio d'amor di Dio e del prossimo, in tutto e per tutto abbandonato
alla divina Provvidenza. Tale abbandono, che a qualcuno è sembrato
debolezza, "mancanza di senso politico, pericoloso misticismo, attesa
inerte e passiva". era la sua arma politica. Non soggiaceva alla
prepotenza, ma la collocava nel Cuore del suo Cristo e tutto risolveva
in un atto d'amore.
Quando poi parlava del divino Amore, voce e gesti s'infiammavano a tal punto che l'uditorio ne rimaneva conquiso e commosso.
Il
suo amore per il prossimo come riflesso e testimonianza di quello per
Dio non era mai puramente verbale, ma concreto e risolutivo. Mite,
buono e comprensivo, a quanti ne avessero bisogno lasciava dietro i suoi
passi un aiuto che superava talvolta le attese. E' risaputa la sua
carità per le claustrali e le religiose in genere; ma anche per i
poveri, i perseguitati, i prigionieri. Lenì più volte i deleteri
effetti della guerra, sottrasse alla cattura da parte degli Austriaci
non pochi rivoluzionari in fuga, raccomandò e per quanto era in suo
potere Egli stesso concesse condoni e riduzioni di pene. Visitò gli
ammalati e non esitò ad assistere personalmente i colerosi dei vari
ospedali. Non solo disse parole di pace e di perdono ai garibaldini,
prigionieri dopo la battaglia di Mentana in Castel Sant'Angelo, ma li
rifornì anche di cibo e di vestiario ed infine li fece rimetter in
libertà. Ho già ricordato che passeggiava per Roma con accanto il
Segretario, nelle cui mani era sempre una borsa per sovvenire ai
bisognosi che incontrava.
Pensò perfino a forme di pensionamento,
non ancora previste nemmeno dagli ordinamenti più avanzati
dell'epoca, per quei civili e militari della vecchia amministrazione
pontificia, che dopo l'occupazione di Roma non avevano aderito al
nuovo governo.
Ma fu soprattutto
un prete. Un
prete vero, perché "uomo di Dio" (2Tm 3,17) tutto preso dal suo amore e
votato al bene degli altri. Per i preti ebbe sempre speciali
preoccupazioni. Curò la formazione sacerdotale, promosse i seminari,
caldeggiò i buoni studi. Certo, non poté risolvere tuttti problemi da
Lui incontrati, benché tutto facesse quant'era nelle sue possibilità
per risolverli. Ebbe anch'egli, come uomo, i condizionamenti della sua
natura; e come papa, i problemi immani dell'epoca in trapasso, cui
rispondeva come sapeva e poteva. Ma su una cosa dovrebbero tutti
concordare sostenitori e critici: sul fatto che fu prete esemplare,
specchio delle più belle virtù sacerdotali e cristiane.
Specie
negli ultimi anni del suo pontificato, crebbe la considerazione comune
della sua santità in base alle sue virtù. Peccato, umanamente
parlando, che il riconoscimento ufficiale di esse sia venuto così tardi
!
III - Pio di nome e di fatto
Se
la carità ebbe tanto rilievo nella sua vita, fu perché tutto il
complesso delle sue virtù trovò in essa la sua radice e la sua sintesi.
Fu vibrante d'amore, quindi fu pieno di fede e di speranza,
proiettato in Dio e sicuro del suo aiuto, da Lui solo attendendo la
soluzione umanamente impossibile dei suoi gravissimi problemi. Dio solo
cercava quando opponeva un irremovibile
no all'onda montante
del liberalismo anticlericale, del secolarismo che addormentava il
senso religioso dell'esistenza e dell'ormai diffuso ateismo. Dio era
la sola motivazione del suo tetragono atteggiamento di resistenza agli
eventi inarrestabili, per cui anteponeva i diritti della Chiesa,
della religione cristiana e delle Sede Apostolica, della stessa legge
naturale ad ogni prospettiva secolarizzante. Fu e visse soltanto come
"homo Dei".
Incarnò nel suo tenore quotidiano la
pietà
non soltanto come ragione del suo personale rapporto con Dio, la
Vergine Immacolata, San Giuseppe ed altri Santi, ma anche come punto di
riferimento e faro del suo senso pratico, del suo dovere d'ogni
giorno e degli imprevisti che, pure ogni giorno, s'affacciavano
sull'ingresso della sua stanza di lavoro.
"Non è un mistico - è
stato scritto - o un asceta nel senso stretto dei termini quantunque le
sue effusioni spirituali, che si rintracciano dovunque nelle sue
lettere e nei suoi discorsi, possano talora farlo pensare, ma è un uomo
che aspira del continuo alla perfezione". Forse si voleva soltanto
osservare che era non privo di qualche difetto, ma deciso ad
emendarsene, tanto da aspirare "del continuo alla perfezione". Lo
strumento da Lui a tal fine adoperato, il rimedio assunto, continua il
medesimo biografo, "è la
preghiera; in ogni evenienza prega e fa pregare; Egli è principalmente l'uomo della preghiera...Tale sarà sempre fino alla morte".
Da
questa sua qualità di orante discendono alcuni indirizzi particolari
che, nulla togliendo all'insieme e nulla al centro della sua
religiosità, la specificano e ne definiscono le componenti varie. Fin da
giovane, il Mastai si rivelò devotissimo del Sacro Cuor di Gesù e fin
dai primissimi anni del suo ministero episcopale s'impegno a
diffondere questa devozione. Ne percepiva con chiarezza il senso
teologico. Sapeva che ogni omaggio al Sacro Cuore ridondava sulla
persona adorabile di Cristo e sulla sua umanità sacrosanta. Ne
derivava non solo il suo devoto atteggiamento, ma anche lo zelo con
cui ne parlava ed operava. E' qui praticamente impossibile riferire
quanto Egli fece per il Sacro Cuore; ma non posso tacere su alcuni
discorsi da Lui tenuti agli albori del suo presbiterato e come
piattaforma del suo sviluppo futuro. Si tratta di due tridui, già nei
quali il Sacro Cuore si poneva in evidenza come un chiaro coefficiente
della sua spiritualità, la quale pertanto già preludeva alle
caratteristiche e dimensioni che avrebbe assunto in seguito. E quante
opere videro la luce, da Lui promosse o da Lui approvate, riguardanti
il Sacro Cuore: confraternite, chiese, famiglie religiose. Si capisce
così la ragione per la quale consacrò al Sacro Cuore la Chiesa.
Un
altro aspetto non meno significativo del suo orientamento spirituale è
la devozione alla Madonna. Anche questa seppe ben radicare in
opportune ragioni teologiche ed innestare sul suo costume personale,
come un'espressione tipica di esso. Era una delle devozioni nate nel
suo animo fin dalla fanciullezza; e fu il suo distintivo per tutta la
vita. Avrebbe potuto ben dire anch'Egli: "Totus tuus"; era davvero
tutto di Maria. A Lei riferiva tutto quanto ebbe una speciale
rilevanza nella sua lunga giornata: la guarigione da una malattia che
per qualcuno fu epilessia, anche se la fondatezza di tale diagnosi non
fu mai dimostrata, la vocazione sacerdotale, l'episcopato spoletino
ed imolese; la stessa porpora cardinalizia. Sotto il manto della
Vergine Immacolata e segnatamente della Madonna di Loreto Egli pose
poi il suo ministero papale. Tutta la sua esistenza si svolse in
atmosfera mariana.
Si conoscono, inoltre, i suoi discorsi
giovanili su Maria Assunta in cielo. Col loro impianto
biblico-teologico, già preludevano al suo futuro e ben consolidato
convincimento circa il vincolo esistente tra Immacolata Concezione ed
Assunzione. Ho già ricordato codesto convincimento. Nel 1864 ne parlò
una volta alla Regina di Spagna, che già pregustava la gioia d'una nuova
definizione dogmatica: "Non c'è dubbio che l'Assunzione...è una
conseguenza del dogma della sua Concezione Immacolata...io non mi credo
degno istrumento per pubblicare come dogma anche questo secondo
Mistero; ma tempo verrà..." La medesima speranza aveva del resto
espresso in altre occasioni, anche molto prima.
In un certo
senso, Maria era nel suo cuore; la causa di Lei faceva parte di Lui,
perciò non poteva non parlarne e lo faceva non senza personale
trasporto.
La storiografia ricorda anche la sua devozione a San
Giuseppe, che culminò, 1'8 dicembre 1870, con la proclamazione del
verginale Sposo di Maria a patrono della Chiesa universale.
Ma
il giudizio sulla sua spiritualità né si evince del tutto da queste
sue devozioni, né s'esaurisce in esse. Queste, anzi, potettero
sussistere solo grazie alla qualità teologale della sua vita. Era
davvero "I'uomo di Dio" tutto proteso verso di Lui; Dio, a sua volta,
era nell'intimo del suo Servo fedele: la sua forza, la sua luce, la
ragione unica del suo essere ed operare. Se qualcuno continuerà a
valutarlo prescindendo da questo rapporto, continuerà pure a non
capirlo e a diffonderne un'immagine irreale.
E' un rapporto, del
resto, che traspare da tutte le sue scelte: non solo, e son le più
importanti, da quelle decise sul soglio di Pietro, ma anche da quelle
anteriori, queste pure colme dello stesso significato. Son le scelte
che hanno in Dio il loro senso e la loro motivazione. Si, la loro
causa immediata, che forse sarebbe meglio chiamare occasione, è
riconoscibile nei gravi problemi che Pio IX dovette affrontare, nelle
non facili relazioni inteme ed esterne della Chiesa, nelle mire nemmeno
tanto coperte del mondo massonico ed anticlericale, ma la causa
profonda è quella che tutto riconduceva a Dio e alla "pietas" filiale
del novello Beato verso di Lui.
Non posso terminare questo paragrafo senza accennare, almeno di sfuggita, ad un'altra componente della sua spiritualità: la
direzione delle anime.
Figurano tra queste molte religiose: Sr. Castellano di Spoleto, Sr.
Rosa Felice Mayer di Fognano, Sr Maria Nazarena Zampieri di Santo
Stefano in Imola, Sr. Chiara Teresa del Sacro Cuore di Maria di
Montefalco. E tante altre ancora. Logicamente, tale direzione non si
fermò alle Religiose. Erano i virgulti del giardino di Dio, dovunque si
trovassero, ad esser da Lui coltivati. Giovani, seminaristi, preti,
personalità insigni o no, trovarono nella persona del Mastai il
"cultore" illuminato e pio. Il fatto è che il Santo comunica sempre,
per via diretta o per le articolazioni misteriose della Comunione dei
Santi, i segreti e i benefici della santità. E Pio IX, in codesta
comunicazione, si distinse egregiamente.