Fonte: Chiesa e post concilio
Sull'ultimo numero, il 113/Autunno 2011, della Rivista francese di riflessione politica e religiosa Catholica,
cortesemente inviatami dal Prof. Bernard Dumont che ringrazio
sentitamente, tra diversi interessantissimi temi su cui sarà utile
attingere, è stata pubblicata un’intervista di Mons. Gherardini, molto
ricca di spunti interessanti.
La
sto traducendo perché possiate leggerla nel testo integrale, che
renderò disponibile al più presto tra i documenti, perché può donarci
alcune luci in più per sempre meglio delineare e comprendere la crisi
che stiamo vivendo.
Tra
i molti argomenti su cui è stato interpellato Mons Gherardini,
prendendo le mosse dal nuovo linguaggio adottato dalla Chiesa (Benedetto
XVI, discorso del 22 dicembre 2005) per rispondere ad una situazione
nuova in una modernità che ha perso il suo radicalismo iniziale,
affronta anche quello della Liturgia. Ecco, intanto, cosa dice delle forme ordinaria e straordinaria:
Domanda:
se ci misuriamo con l’affermazione che il Nuovo ordo della messa di
Paolo VI e il rito precedente non sono due riti diversi, ma due forme
dello stesso rito, non ci troviamo forse di fronte ad un problema di
metodo?
[La
risposta inizia con una esauriente disquisizione sulla questione del
metodo e sulle sue caratteristiche, molto interessante e rivelativa
delle carenze attuali. Ma la salto per arrivare il punto delle “due
forme”].
[…]
Non so se la sua domanda associa a questa preliminare consapevolezza [una pre-comprensione]
la soluzione del problema di sapere se la Messa di Paolo VI e quella
che si chiama impropriamente « tridentina » sono due forme di un unico e
medesimo rito.
Certamente,
ce ci si attiene alle parole con cui Paolo VI presentò la nuova forma
senza, almeno formalmente parlando, abolire l’altra, si dovrebbe
arrivare a questa conclusione: il rito è unico e due son le sue forme. Nei fatti, egli parlò d’un "ordinamento nuovo" « Novus ordo » in rapporto a quello precedente (o vetus): quindi, sull’asse permanente dell’unico e identico rito, introdusse la specificazione di due ordo distinti. E Benedetto XVI, restituendo legittimità all’utilizzazione dell’ordo antico, ha confermato l’unicità del rito, specificandone le forme in quella « ordinaria » e « straordinaria ».
Sia ben chiaro: è un po’ difficile considerare come « straordinaria
» la forma classica nella quale, nel corso dei secoli, la Chiesa ha
espresso il suo culto pubblico. Ma ciò non infirma la dottrina
sull'unicità del rito e la duplicità delle forme. Sott'un tale profilo,
pertanto, le due forme sarebbero incluse nel rito, ugualmente valide anche se specificate.
Chi
tuttavia si impegnasse in un'analisi rigorosamente critica delle due
forme non avrebbe alcuna difficoltà che quella presuntamente « straordinaria » si distacca sostanzialmente, almeno in certi passaggi, dalla forma cosiddetta « ordinaria ». Troppo lungo sarebbe lo scendere alla dimostrazione esauriente dell'asserto; ma anche un solo esempio può confermarlo.
Si sa che l'offerta è parte integrante del sacrificio: ci sono anzi autori che riconoscono il sacrificio già nell'offerta. in tale ottica si esprimeva si esprimeva l'Offertorio
della Santa Messa nel messale riveduto da San Pio V. Vi si raccolsero
infatti a partire dal XIII sec. le varie preghiere offertoriali che
costituivano la tradizione liturgica della Chiesa cattolica: la Curia
romana le aveva inserite nel messale suo proprio ed il Papa Pio V le
estese alla Chiesa universale.
Eppure, oltretutto con il pretesto non dimostrato e storicamente infondato che si trattava di formule recenti, nuove, individualiste e liturgicamente aberranti, la Messa cosiddetta « di Paolo VI » abolì l'Offertorio.
Se non che la scienza liturgica ha sempre sostenuto e dimostrato il
contrario: Si dispone di manoscritti che comprovano la falsità
dell'assunto: il «Suscipe sancte Pater», il «Deus, qui humanae substantiae», l’«Offerimus tibi Domine », il testo «In spiritu humilitatis», il «Veni sanctificator», il «Suscipe sancta Trinitas» sono preghiere attestate da manoscritti del IX secolo.
Non c'è bisogno di dilungarsi dunque per dimostrare che col nuovo ordinamento venne meno qualcosa di intimamente legato all'essenziale e innestato nella Tradizione. Non dico che la consacrazione delle specie eucaristiche venga con ciò resa impossibile. Mi limito a dire che le due forme non concordano sull'essenziale e che questo «essenziale» non è a pari titolo incluso nell'una e nell'altra forma.
[Dell'Offertorio avevo già parlato qui. Vedi: La berakàh ebraica al posto dell'Offertorio]
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