lunedì 31 ottobre 2011

L’ABC DEL TOMISMO


*

d. CURZIO NITOGLIA
29 ottobre 2011

Attualità del tomismo

●Nell’attuale disordine ed instabilità degli spiriti la dottrina tomistica, che eleva a scienza filosofica i princìpi insegnati dal senso comune ad ogni uomo, conserva tutte quelle verità immutabili ed ordinate senza le quali è impossibile conoscere la realtà che ci circonda, la natura dell’uomo e la spiritualità della sua anima, l’esistenza di Dio e qualcosa della sua essenza, l’arte di vivere bene in ordine al Fine ultimo. Se non esistono nozioni immutabili, crolla la stabilità dei giudizi razionali e dei dogmi soprannaturali della religione cristiana. Il giudizio (p. es. ‘l’anima è immortale’) è un’affermazione che unisce due concetti o nozioni. Se le nozioni (‘anima’ e ‘spirituale’) non sono precise, definite ed immutabili, il giudizio sarebbe infondato a sua volta e il ragionamento (concatenazione di due giudizi dai quali si trae una conclusione) non giungerebbe a nessuna conoscenza certa, ma sarebbe sconclusionato e porterebbe disordine e sconclusionamento in ogni sfera dell’essere ed agire umano.
●Dal punto di vista del realismo della conoscenza, secondo cui “la verità è la conformità del pensiero alla realtà oggettiva” e per il principio di non-contraddizione, due sistemi filosofico-teologici che si oppongono non possono essere veri entrambi; l’uno è vero, l’altro è falso. Invece dal punto di vista dell’immanentismo moderno, secondo cui “la verità è la conformità del pensiero alle esigenze della vita”, la verità muta incessantemente col cambiare dei bisogni soggettivi dell’uomo. Quindi la verità non esiste, ma diviene o si fa incessantemente. Assieme alla definizione della verità di ordine naturale cambia anche il dogma e la verità della religione rivelata, che - essendo costantemente mutevole - cessa di essere vera. Allora non vi è più verità e non-contraddizione, ma tutto è relativo, soggettivo e contraddittorio. La Fede cattolica viene rimpiazzata dal sentimentalismo soggettivistico e diventa un’esperienza di vita religiosa, che evolve costantemente secondo gli umori dell’uomo. L’attualità e la necessità urgente del ritorno al tomismo consistono nel porre rimedio al disordine intellettuale, morale e spirituale, che scaturisce dalla instabilità o moto perpetuo degli spiriti. San Pio X diceva che “il male di cui soffre il mondo moderno è soprattutto un male dell’intelligenza: l’agnosticismo” (Pascendi, 1907). Dall’agnosticismo si passa al relativismo e al soggettivismo assoluti. È per questo che il magistero della Chiesa da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) sino a Giovanni Paolo II (CIC, 1983; Fides et ratio, 14/9/2011) ha ribadito la necessità di conoscere la dottrina del Dottore Comune o ufficiale della Chiesa ed aderirvi. San Pio X ha insistito nel corso del suo pontificato, dalla Pascendi sino al Giuramento anti-modernista, nell’insegnare che “allontanarsi dalla metafisica tomistica comporta un grave detrimento e pericolo”. La vita può essere considerata realisticamente come oggettivamente fondata nella realtà. In tal caso l’azione è vera e buona se ordinata realmente e oggettivamente al fine ultimo. Questo può essere giudicato come vero solo se corrispondente al reale e non ai bisogni soggettivi di ogni uomo, che cambiano continuamente. Quindi anche in questo caso si ritorna alla definizione classica di verità e si abbandona quella pragmatistica ed immanentistica di Maurice Blondel e dei modernisti. L’azione vera e buona si ridefinisce in rapporto al vero Fine ultimo (S. Th., I-II, q. 19, a. 3, ad 2) e non viceversa, come vorrebbe Blondel, altrimenti resteremmo impantanati nell’agnosticismo relativistico e soggettivistico.
●L’immutabilità dell’essere, come atto ultimo di ogni essenza, fonda l’immutabilità e stabilità dei giudizi filosofici e delle formule dogmatiche. Se l’essere mutasse continuamente secondo le esigenze della vita dell’uomo, i giudizi razionali e le definizioni dogmatiche sarebbero fragili ed in constante evoluzione. Il verbo essere, che è l’anima, il gancio o il ponte che unisce un soggetto a un predicato, deve dare immutabilità ad un giudizio. Ora se l’essere muta continuamente, se anche le nozioni (predicato e soggetto) cambiano costantemente, i giudizi, i ragionamenti razionali e le definizioni dogmatiche o di Fede cambierebbero costantemente e continuamente, nulla sarebbe più vero e stabile sia nell’ordine della ragione che in quello della Fede. Per fare un esempio sarebbe come se si tentasse di tenere immobilmente unite le onde del mare mediante un gancio elasticizzato che è in continuo movimento come le onde stesse. Invece una nave può essere fissata sulle onde del mare mediante un’ancora reale e salda, che si aggancia sul fondale di terra, sotto il fluire delle onde. Questa è la differenza che intercorre tra la “filosofia” moderna del divenire e quella classica e scolastica dell’essere. Perciò la verità si deve definire in rapporto all’essere, come fa la metafisica dell’esse ut actus e il conseguente realismo della conoscenza (agere et cognoscere sequuntur esse). La filosofia dell’azione e del divenire non dà nessuna certezza e stabilità, ma pone solo dubbi, agitazioni e squilibri intellettuali e morali. Così tutti i surrogati di filosofia che si allontanano dall’essere (scotismo e suarezismo), pur non cadendo esplicitamente negli eccessi dell’errore soggettivistico, sono ‘armi spuntate’ con cui non si riesce a debellare l’errore e il pervertimento dell’agire umano e la degenerazione dell’eresia modernistica.
●L’attuale confusione dell’intelletto, dello spirito e della morale, che è penetrata sin dentro il Santuario, richiede da parte dell’uomo la necessità di tornare al tomismo e da parte di Dio un’azione enormemente prodigiosa come quella del diluvio universale: “A mali estremi, estremi rimedi”. Senza quest’intervento straordinario di Dio l’uomo non potrebbe uscire dal “pozzo dell’abisso” di cui parla l’Apocalisse e che venne già citato ad esempio della gravità dell’errore del cattolicesimo liberale da Gregorio XVI nella sua enciclica Mirari vos del 1832.
●Siccome la modernità a partire da Cartesio ha soppresso la relazione essenziale della ragione con l’essere extramentale o reale, l’intelletto umano non può più conoscere con certezza nulla di oggettivo, non riesce a fondare un’etica naturale e non giunge ad elevarsi dalle creature al Creatore. Il cogito moderno-cartesiano parte dall’ego e si ripiega ‘ego-isticamente’ su se stesso per avviarsi verso un’esistenza disperata, che al contrario della grazia è avangusto delle pene dell’inferno. L’esistenzialismo disperato della filosofia nichilistica contemporanea e post-moderna è l’esatto ribaltamento della dottrina ascetica e mistica, la quale conduce l’anima all’unione con Dio, tramite lo sviluppo della grazia, che è semen gloriae aeternae o avangusto della vita eterna. L’uomo non vive più per Dio, ma per se stesso (idealismo) o per il nulla (nichilismo) e si avvia verso l’autismo scisso dalla realtà o l’auto-distruzione. Il tomismo corrisponde ai bisogni profondi e veri del mondo attuale, poiché restituisce l’amore della verità, senza la quale non si può ottenere la carità soprannaturale e l’unione con Dio “Luce intellettual piena d’amore” (Dante), che solo può dare la pace all’animo umano, il quale è aperto all’infinito e “non trova requie se non in Dio” (S. Agostino) conosciuto, amato e servito.
*
I principi fondamentali del tomismo
1°) Il tomismo è la metafisica che considera ogni cosa in rapporto o alla luce dell’essere come atto ultimo e non in rapporto al movimento, all’io, all’azione.
2°) Esso risolve tutti i grandi problemi mediante la distinzione di materia/forma, potenza/atto, essenza/essere dando il primato alla forma, all’atto e soprattutto all’essere, perfezione ultima di ogni altra perfezione. L’essenza creata e finita (anche quella angelica) non è il suo atto di essere, ma lo riceve e lo partecipa, essendo realmente distinta da esso. Solo Dio è l’Essere per sua essenza; ogni altro ente per partecipazione riceve ab Alio l’essere nella sua essenza creata e finita. S. Tommaso insegna esplicitamente che “l’essere è la realtà più perfetta, […] l’attualità di tutte le cose e delle forme stesse” (S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3).
3°) Distingue nettamente essere come atto ultimo, che perfeziona anche le essenze, dall’esistenza, che è il prodotto o l’effetto dell’essere attuante un’essenza dando così luogo al fatto o effetto o prodotto di ex-sistere dell’ente; ossia l’ente esce fuori dal nulla essendo causato efficientemente dall’essere, che perfeziona l’essenza e la rende ente esistente in atto e realmente.
4°) È essenzialmente teocentrico, poiché afferma il primato dell’atto sulla potenza e Dio è Atto puro da ogni potenzialità; inoltre afferma il primato dell’essere su ogni essenza e Dio è l’Essere per essenza. Siccome l’uomo è composto di materia e forma, di potenza e atto, di essenza ed essere, egli è essenzialmente distinto da Dio, assolutamente semplice e privo di ogni composizione, e perciò l’unico centro e fine è Dio (“Rex et Centrum omnium cordium”) e non l’uomo, che è solo un mezzo ordinato al fine e sottomesso a lui. Solo il tomismo, a differenza dello scotismo e del suarezismo “scarsamente reattivi verso le tesi più arrischiate e sovversive” (Reginaldo Garrigou-Lagrange, Essenza e attualità del tomismo, Brescia, La Scuola, 1947, p. 32) riesce a confutare ogni forma, sia pur soltanto tendenziale, di panteismo ed ogni tentativo di far coincidere teo e antropo/centrismo, tentativo riportato in auge dall’insegnamento pastorale del concilio Vaticano II (cfr. Giovanni Paolo II, 1980, “Dives in misericordia” n.° 1[1]), che su questo punto è in contraddizione con la sana ragione, la Tradizione apostolica e il magistero costante della Chiesa.
5°) L’essere per il tomismo non è univoco (come dicono Scoto e Suarez), ma analogo. Se l’essere fosse univoco, si ricadrebbe nell’errore del monismo di Parmenide (ripreso da Spinoza e dall’immanentismo moderno) già risolto da Aristotele nella Metafisica con la dottrina della distinzione reale tra potenza ed atto. Infatti ciò che è univoco viene diversificato solo da differenze estrinseche a lui. Ora al di fuori dell’essere non c’è nulla. Quindi tutto sarebbe una sola cosa: mondo e Dio. Da questa divergenza tra tomismo e scolastica decadente (scotismo e suarezismo), che si trova all’inizio della metafisica o della definizione della natura dell’essere, che pian piano ci fa scendere all’Essere stesso sussistente, si giunge alla divergenza, che si situa al vertice della metafisica o teologia naturale: per S. Tommaso solo in Dio l’essenza e l’essere sono la stessa cosa (S. Th., I, q. 3, a. 4), mentre per scotismo e suarezismo anche nelle creature essenza ed essere non sono realmente distinti, ma solo logicamente. Perciò con la loro teoria filosofica come si può confutare il panteismo di Baruch Spinoza e di tutta la filosofia immanentistica, secondo cui l’essere appartiene per natura alla sostanza creata e quindi esiste una sola sostanza ed un solo essere, che sarebbero Dio e il mondo?
6°) Per S. Tommaso solo Dio, l’Atto puro, è il suo proprio essere per essenza. Quindi l’Essere divino non è ricevuto in nessuna potenza o essenza ed è illimitato ed infinito (S. Th., I, q. 3 a. 4; ivi, q. 7, a. 1). L’essere è l’ultima attualità o perfezione di ogni altra perfezione. L’Angelico trascende Platone ed Aristotele, che si son fermati all’idea ed all’essenza senza risalire all’essere che le ultima.
*
L’essere come vertice della filosofia di tomistica e l’essenzialismo aristotelico
S. Tommaso, perciò, è il filosofo dell’essere come atto ultimo di ogni essenza, forma e perfezione. Per essenzialismo (o formalismo) si vuol intendere la filosofia aristotelica, che si ferma all’essenza o alla forma e non giunge all’atto ultimo di ogni essenza, forma e perfezione, che è l’atto di essere. Attenzione! Il tomismo verace, che non si ferma all’essenzialismo o studio dell’essenze, ma lo trascende arrivando all’essere, il quale è la perfezione dell’essenza, non significa neppure ‘esistenzialismo contemporaneo’ o studio dell’esistenza concreta del singolo individuo con i suoi problemi esistenziali, ma neanche ‘esistenzialismo classico-antico’, che viene da ex-sistere ossia uscir fuori dal nulla e dalla propria causa e si ferma allo studio del fatto di esistere degli enti finiti. Il tomismo genuino non nega la positività ontologica dell’essenza o forma dei vari enti e neppure la necessità di studiare l’esistenza positiva e reale dell’ente creato che è il fatto di esistere, il quale è il semplice risultato della presenza reale e positiva dell’ente nella realtà e non va confuso con l’atto di essere, che è l’ultima perfezione metafisica di ogni forma o essenza, termine della metafisica tomistica, la quale trascende Platone ed Aristotele. Tra essere come atto ultimo ed esistere come prodotto dell’essere informante un’essenza passa la stessa differenza che tra causa ed effetto. Ora la causa non è l’effetto e quindi l’essere non è l’esistenza. Purtroppo questa verità fondamentale del tomismo è stata trascurata dalla terza scolastica e padre Cornelio Fabro[2] ne ha fatto il suo cavallo di battaglia.
*
L’atto d’essere
L’Angelico insegna che «l’essenza, prima di avere l’atto di essere, non esiste ancora» (De Pot., q. 3, a. 5, ad 2) e che «è necessario che l’atto stesso di essere stia all’essenza, la quale è realmente distinta da esso, come l’atto alla potenza» (S. Th., I, q. 3, a. 4. Cf. De spir. Creat., a. 1). L’ente è composizione fra essere partecipato (atto) ed essenza (potenza). Ne proviene che l’autentico atto di essere (esse) non va mai confuso col fatto dell’esistenza (ex-sistere), la quale è il semplice risultato, prodotto o ‘effetto’ della presenza dell’ente nella realtà, che non può assurgere alla dignità di atto metafisico, il quale è causa di esistenza. Ossia l’essenza che riceve l’essere come suo atto ultimo produce o dà luogo all’ente, il quale è realmente esistente nella realtà (ex-sistit, esce dal nulla ed entra nella realtà), grazie all’essere che attua ultimamente un’essenza. Il semplice fatto dell’esistenza o di essere presente nella realtà si può predicare anche dei difetti, delle malattie, della morte e dei peccati: tutti danni o deficienze degli enti, esistenti, ma non certo perfezione di enti o ‘enti in senso proprio’. Analogamente il poter fare il male è soltanto segno o difetto di libertà, la quale consiste essenzialmente nel poter fare il bene. Quindi il peccato o male morale è difetto o deficienza di vera libertà, come la malattia è difetto di salute, ma anche segno di presenza nella realtà o esistenza dell’ente ammalato (essentia) e non ancora morto (habens esse). Al contrario, la possibilità di peccare è il più grave limite della nostra libertà. Si pensi, per esempio, alla possibilità di un ingegnere di uccidere i cittadini, sbagliando i calcoli del cemento. L’ingegnere perfetto, invece, è colui che non sbaglia i calcoli e fa vivere tranquilli i cittadini, così l’uomo perfetto è colui che non pecca o non agisce moralmente male e fa il bene.
*
Dall’ente ultimato dall’essere a Dio
È pertanto chiaro che la partecipazione degli enti all’essere (“l’ente è un’essenza avente o partecipante l’essere”) può farci risalire a Dio, secondo l’insegnamento di S. Tommaso: «Alla struttura metafisica di ogni ente per partecipazione consegue la sua dipendenza causale, o creaturale, dall’Altro» (Cf. S. Th., I, q. 44, a. 1, ad 1; ivi, ad 2). Ossia l’ente per partecipazione dipende e riceve l’essere dall’Ente per essenza o Dio. Appunto su tale partecipazione si fonda la “quarta via” tomistica nella quale Dio è qualificato come “causa dell’essere”, ovvero Creatore, di tutti gli enti (S. Th., I, q. 2, a. 3). Questo atto di essere, trascende ogni essenza e forma, per cui si deve parlare del supremo atto metafisico di essere. Il termine “ente” esprime anzitutto e soprattutto l’essenza partecipante l’atto di essere (Cfr. In I Sent., d. 8, q. 4, a. 2; De Ver., q. 1, a. 1, ad 3). Ed è perciò stesso che l’ente per partecipazione, costituito dall’essere partecipato e dall’essenza, fonda il primo collegamento della dipendenza causale, o creaturale, di ogni ente finito dall’Essere infinito. Così il vero essere da San Tommaso è riconosciuto come il costitutivo metafisico proprio di Dio (“Ego sum qui sum”; “Javeh”); il Quale, appunto per questo, è la Causa dell’essere, e dunque il Creatore, di tutti gli enti. Non è difficile, allora, vedere che l’onnipresenza creatrice di Dio negli enti presuppone ed esige la sua infinita trascendenza su di essi tutti (Cf. S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; ivi, I, q. 11, a. 4, ivi, I, q. 8, aa. 1-4; ivi, I, q. 105, a. 5).
*
Analogia di attribuzione e di proporzionalità
Questa trascendenza di Dio sul creato fonda anche l’analogia delle creature con il Creatore: «somiglianza dissomigliante» e «dissomiglianza somigliante». Infatti ogni creatura è più o meno simile a Dio in virtù del suo atto di essere partecipato; ed è più o meno dissimile a Dio in séguito alla sua essenza. Di qui la distinzione tra l’analogia di attribuzione intrinseca rispetto a quella di proporzionalità. L’analogia di proporzionalità (il sasso, l’albero l’animale, l’uomo e l’angelo, sono analoghi a Dio relativamente al fatto di esistere) accentua specialmente l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio (infatti le loro essenze sono infinitamente lontane da quella divina). Invece l’analogia di attribuzione (l’essere appartiene essenzialmente a Dio e solo per partecipazione alle creature anche se realmente e formalmente o intrinsecamente) accentua primariamente la dipendenza causale, o creaturale, degli enti da Dio (Cf. S. Th., I, q.3, a. 7, ad 1; ivi, I, q. 13, a. 5; Comp. Th., c. 130, n. 261). Non bisogna perciò contrapporre i due concetti di analogia, ma servirsene secondo i loro rispettivi compiti e scopi (primo: accentuare l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio; secondo: sottolineare la dipendenza causale degli enti da Dio).
*
S. Tommaso, Platone e Aristotele
S. Tommaso trascende Platone, giunto soltanto all’essenzialismo dell’‘idea’, come pure Aristotele, fermatosi all’essenzialismo della ‘forma’ e della ‘sostanza’, da entrambi presentate senza il riferimento al vero essere, che le perfeziona ed ultima. È S. Tommaso che trascende questi due filosofi elevando al vertice dell’essere come atto che perfeziona idea e sostanza quanto c’è di valido in entrambi gli indirizzi (Cf. De Subst. sep.,c. 3). Si dovrebbe dunque distinguere il tomismo genuino dall’essenzialismo del platonismo e dell’aristotelismo per farlo emergere nella sua genialità originale di atto di essere, perfezione ultima di ogni forma.
*
Intelletto e volontà
La volontà è una tendenza, un desiderio o un appetito razionale, il quale segue la conoscenza intellettuale ed è specificata dall’oggetto conosciuto dall’intelletto e presentatole come buono, anche se in realtà non lo è (bene apparente, male reale). Infatti l’oggetto della volontà è il bene anche solo apparente e non può essere il male in quanto male, perché ciò sarebbe contrario alla natura della volontà. Ma un oggetto, prima di ‘essere buono’, deve ‘essere o esistere’. Quindi in questo senso la volontà dipende dall’intelligenza: l’intelletto conosce l’essere o la natura intima e vera del suo oggetto, mentre la volontà tende all’essere buono o presentatole come tale. Ora ontologicamente l’essere è anteriore all’essere buono. Perciò in senso assoluto l’intelletto precede la volontà.
Tuttavia quando l’oggetto (per esempio Dio) è più nobile dell’anima umana in cui risiedono l’intelligenza e la volontà, allora - in rapporto a questo oggetto - la volontà è superiore all’intelligenza. Infatti, l’atto intellettivo di conoscere “attira” a sé gli oggetti conosciuti perché la loro rappresentazione entra psicologicamente o logicamente (non fisicamente) nell’intelletto. Perciò Dio è conosciuto secondo le capacità finite e limitate dell’intelletto umano, ossia è rimpicciolito al livello delle nostre idee o concetti intellettuali. La ragione umana può conoscere con certezza l’esistenza di Dio, mediante un sillogismo che parte dagli effetti (creature) per risalire alla Causa prima incausata (Creatore); può giungere a conoscere anche qualche proprietà, nome o attributo di Dio (Essere, Bene, Vero…), ma non tutta la sua Natura, che, essendo infinita, sorpassa illimitatamente le capacità conoscitive dell’intelletto umano ed è infinitamente sproporzionata alla finitezza del concetto intellettuale. L’uomo non può formarsi un’idea adeguata di Dio, altrimenti coglierebbe la sua Essenza infinita e il suo intelletto dovrebbe essere infinito, come vogliono gli ontologisti, ma ciò è evidentemente falso. Solo in Paradiso i Beati vedono Dio faccia a faccia nella sua Essenza come è, ma grazie al Lumen gloriae, che è dato da Dio all’intelletto del Beato e lo sopraeleva soprannaturalmente alla capacità di cogliere intellettualmente e intuitivamente la Natura infinita di Dio (Visione beatifica). L’atto della volontà, che è una tendenza verso un oggetto presentatole come buono, esce, invece, fuori di essa per unirsi all’oggetto conosciuto e amato come buono e possederlo o fruire della sua bontà. Perciò già in terra, quando la volontà ama o desidera Dio, è perfezionata, cresce di grado, poiché esce da sé tende e aderisce ad un oggetto infinitamente più nobile di sé.
Tuttavia bisogna fare attenzione: intelletto e volontà non si possono considerare come due agenti separati, ma sono due facoltà di un solo uomo, facoltà distinte ma non separate, che invece di contrapporsi devono collaborare intimamente (come l’analogia di proporzionalità e quella di attribuzione). Intelletto e volontà sono intimamente legate nella medesima azione: «l’intelletto sa che la volontà vuole e la volontà vuole che l’intelletto conosca» (S. Th., I, q. 82, a. 4, ad 1). Esse sono legate nella libera scelta di un fine, che già Aristotele chiamava “intellezione appetitiva e appetito intellettivo” (Etica Nicomachea, IV, 2). Cronologicamente l’intelletto precede. Infatti la volontà è un appetito o una tendenza razionale, che segue cioè la conoscenza dell’intelletto. Negli scritti di San Tommaso d’Aquino si trova una certa evoluzione o precisazione del suo pensiero. Sino al 1270 (Somma Teologica e De Veritate) l’Angelico attribuisce alla volontà la causalità efficiente e all’intelletto la causalità finale. Invece con la questione De Malo (q. 6, articolo unico) del 1271 san Tommaso specifica[3]: alla volontà spetta la causalità efficiente e finalizzante; all’intelletto spetta la causalità specificante e formale, estrinseca o esemplare, con la quale l’intelletto presenta alla volontà, specificandola, un oggetto conosciuto come bene, un esemplare, un modello o un esempio da volere, il quale è condizione essenziale affinché il bene eserciti la sua attrazione (quale modello) sulla volontà e la volontà eserciti la sua causalità finale e tenda a volere il fine o bene propostole come modello dall’intelletto. Ora il bene è il fine, ma il bene è oggetto della volontà e non dell’intelletto. Infatti ogni bene conosciuto finitamente dall’intelletto (fosse anche Dio) non esercita un’attrazione determinante sulla volontà, che resta indifferente e libera ed è lei a scegliere un bene o un altro bene (reale o apparente) come suo fine. Cajetanus scrive: “voluntas ex se sola flectit judicium quo vult” (In Primam partem, q. 82, a. 4). Quindi il bene, anche se prima è stato presentato dall’intelletto come esempio, esercita una causalità finale solo dopo che è stato scelto liberamente dalla volontà. La proposta o l’illuminazione (come quella di un faro), che rende possibile o occasiona la scelta del bene, viene dall’intelletto, però la scelta o il rifiuto (il movimento avanti o indietro, come quello del motore) vengono dalla volontà, non ciecamente, ma razionalmente poiché la scelta è libera e volontaria, ma valutata e deliberata dall’intelletto: prendo o scelgo con la volontà ciò che con l’intelletto ho valutato come bene per me. Perciò è l’intelletto - nell’ordine statico - che illumina la volontà come causa formale estrinseca o esemplare, che specifica la volontà, presentandole il suo oggetto: l’essere conosciuto come buono, anche se in realtà è cattivo (S. Th., q. 9, a. 1), ma non bisogna misconoscere che la volontà - nell’ordine dinamico o attivo - muove l’intelletto come causa efficiente e finale (S. Th., I, q. 82, a. 4; De Veritate, q. 22, a. 12) sia applicandolo a questo oggetto (matematica) o a quest’altro (filosofia) sia facendogli ponderare il lato buono di un bene finito oppure quello cattivo, poiché l’ente-bene finito è sempre un bonum mixtum malo. L’intelletto offre alla volontà i princìpi o le conoscenze (l’esempio o il modello) per poter tendere verso qualcosa (“niente è voluto se prima non è conosciuto”), le presenta l’essere conosciuto come buono, ma tale presentazione è solo ‘conditio sine qua non’ affinché il bene possa attrarre la volontà. Perciò ogni atto di volontà procede - cronologicamente innanzitutto e materialmente - da un atto dell’intelletto; tuttavia è la volontà che tende poi - formalmente ed efficacemente - all’atto finale dell’intelletto, che è la beatitudine, e in questo senso l’atto di volontà è superiore a quello d’intelletto (S. Th., I-II, q. 4, a. 4, ad 2; Ivi, q. 99, a. 1, ad 3). Perciò la volontà realizza ultimamente l’uomo intero offrendogli il suo fine, che è il bene e la felicità (causalità finale); essa è principio di ogni agire (causalità efficiente) e in questo senso la volontà muove l’intelletto (S. Th., I-II, q. 9, a. 1, ad 3), ma la volontà tende all’atto finale dell’intelletto, che è la beatitudine (S. Th., I-II, q. 4, a. 4, ad 2).
*
La vera libertà
Nella produzione dell’atto libero vi è un influsso reciproco tra intelletto e volontà. Ambedue sono facoltà di un unico uomo e sarebbe falso ipostatizzare intelletto e volontà come due soggetti agenti per se sussistenti, di cui l’uno propone e l’altro dispone separatamente. Invece il soggetto che razionalmente propone e liberamente dispone è l’uomo. L’uomo sceglie il fine o bene e per mezzo del suo intelletto e della sua volontà muove l’intelletto come causa efficiente a conoscere un oggetto piuttosto che un altro e infine spinge l’intelletto ad emettere l’ultimo giudizio pratico. La scelta deliberata e consapevole (volizione o elezione) costituisce l’atto libero con cui un uomo accetta (o respinge) un determinato bene finito come in concreto per lui fine buono e ultimo, in cui trovare la felicità. La fase decisiva della produzione dell’atto libero è una scelta che è dovuta all’uomo, il quale si serve assieme dell’intelletto e della volontà: «la scelta è o un’intellezione appetitiva o, meglio, un appetito intellettuale, e il principio che opera tale scelta è l’uomo» (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 2). La scelta è un atto di giudizio voluto o di volizione ragionata. Il giudizio o valutazione è atto dell’intelletto. Per giungere alla scelta libera, che è atto di volontà, bisogna arrivare dal ‘giudizio speculativo’, che mi presenta un oggetto (“ricchezza”) come felicità/bene/fine in maniera assolutamente astratta, universale, valida per tutti o teorica, a quello ‘speculativo-pratico-prossimo’, ove la volontà spinge l’intelletto a ‘deliberare’ (decidere, interrogarsi o stabilire) quale mezzo prendere (“lavorare o rubare”) considerando (valutando o giudicando) se l’oggetto (“ricchezza”) sia veramente fine buono per me e la mia felicità, concretamente, qui e adesso. L’intelletto delibera mentre la volontà ancora si frena o si inibisce di prorompere in un atto di adesione definitiva che vuole ultimamente un mezzo (“non-rubare, ma lavorare”), come atto a cogliere il fine/bene/felicità. Inoltre è la volontà che spinge efficientemente l’intelletto a concentrare la sua attenzione su un aspetto o un altro del bene in considerazione (“ricchezza”) e a deliberare o decidere in maniera più approfondita quale mezzo prendere (“non-rubare”) per giungervi. Quindi si giunge al ‘giudizio pratico-pratico’ o ultimo pratico, che è la scelta concreta libera e cosciente (o il rifiuto) del mezzo (“non-rubare”) atto a farmi cogliere il fine/bene/felicità (“ricchezza”). Tale bene, che è conosciuto dall’intelletto finitamente ed è così presentato alla volontà, viene scelto dalla volontà come, concretamente, qui e adesso, un bene totale o fine ultimo, in cui trovare la beatitudine. Questa scelta è un giudizio pratico dell’intelletto, che mi fa dire “per me hic et nunc la ricchezza è il bene assoluto, il mio fine ultimo in cui troverò la felicità e per giungervi debbo “non-rubare”, ma lavorare. Ora in questo ‘giudizio pratico-pratico’ intervengono cronologicamente assieme intelletto e volontà, ma l’intelletto influisce sulla volontà come causa esemplare o formale estrinseca (“non-rubare” è l’esempio, il modello da seguire e volere per essere felici o ricchi); tuttavia il giudizio intellettivo diviene pratico-pratico o ultimo poiché la volontà liberamente spinge l’intelletto a dare l’assenso ad esso e poi la volontà lo accetta come bene totale o fine ultimo. Infatti, trattandosi di un bene finito, che è sempre unito ad un certo lato spiacevole (bonum mixtum malo), la deliberazione dell’intelletto (stabilire quale mezzo prendere: “rubare/non-rubare”) da sé sola non può concludersi a un giudizio definitivo o ultimo. Vi è indeterminazione da parte dell’oggetto buono che è finito, ma vi è auto-determinazione della volontà. Infatti “libero arbitrio” significa che la volontà è arbitra o sceglie di prendere un mezzo (“non-rubare”) più che un’altro (“rubare”), senza essere determinata dal giudizio speculativo o intellettuale. L’atto libero è primariamente, formalmente e sostanzialmente un atto di volontà, ossia emesso dalla volontà, che è illuminata secondariamente, materialmente e accidentalmente dall’intelletto quale causa esemplare. Allora è la volontà che spinge come causa efficiente e finale l’intelligenza a soffermarsi su un dato aspetto del mezzo in questione e a giudicarlo come hic et nunc il migliore per me (“non-rubare”) ponendo fine alla ‘deliberazione’ intellettuale e giungendo alla ‘scelta libera’ della volontà. Siccome manca l’evidenza intellettuale di fronte ad un bene finito, allora è la volontà che liberamente muove l’intelletto ad un ‘assenso’ giudicativo e ‘sceglie’ liberamente. Questa scelta, compiuta sotto l’influsso mutuo dell’intelletto e volontà, è formalmente atto della volontà sia perché la scelta non è atto intellettuale ma volitivo, sia perché la causalità efficiente della volontà sull’assenso intellettivo è più importante di quella esemplare illuminatrice dell’intelletto sulla volontà. Una volta posto questo ‘giudizio pratico-pratico’ su un dato mezzo come atto hic et ninc a farmi cogliere il bene totale e fine ultimo in cui essere felice, allora la volontà vuole immancabilmente tale mezzo, poiché è appetito razionale, altrimenti sarebbe appetito irragionevole e dall’altra parte rinuncerebbe alla sua felicità, al fine ultimo e al bene totale, ossia vorrebbe il ‘male in quanto male’, ma ciò ripugna alla natura della volontà che è ordinata al bene. La libertà deriva, dunque, dalla mancanza di proporzione tra la volontà razionale, che è specificata da un Bene universale, e un bene finito e particolare, che è buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto e assolutamente sproporzionato alla ampiezza illimitata della volontà specificata dal Bene universale (De Veritate, q. 22, a. 5). Amare Dio, che in sé è infinito ma è conosciuto da me finitamente, è un qualcosa che ha il rovescio della medaglia (bene in sé, misto a male per me). Infatti per amare Dio debbo rinnegare il mio amor proprio e quindi è un bene reale che a me e al mio egoismo appare come un “male” apparente (S. Th. I, q. 83, Ivi, I-II, q. 10, aa. 1-4). Ora, se è l’intelletto a presentare alla volontà un oggetto come indifferente, ossia finito e quindi buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto, è, invece, la volontà che fissa l’intelletto a considerare l’aspetto buono in sé o sgradevole per me dell’oggetto conosciuto e a farmi giudicare pratico-praticamente e perciò scegliere liberamente l’uno o l’altro (S. Th., I-II, q. 57, a. 5, ad 3um; Ivi, q. 58, a. 5): “Video meliora proboque, sed deteriora sequor; vedo le cose buone e le approvo speculativamente, ma praticamente faccio quelle cattive. «C’è qui un influsso reciproco tra intelletto e volontà, come una specie di matrimonio tra le due facoltà» (R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 203; Id., Dieu, son existence et sa nature, Parigi, Beauchesne, 1928, pp. 590-657). Ora il male morale consiste proprio nella difformità tra giudizio speculativo e libera elezione della volontà. Per cui il male morale o peccato non è ignoranza (Socrate), ma cattiva volontà[4].
*
L’uomo è intelligente e libero, non è solo intelletto né è sola volontà
Tomisticamente non bisogna mai dimenticare che è tutto l’uomo anima e corpo, con l’intelletto, la volontà, la sensibilità e le passioni (“nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu”; “nulla entra nell’intelletto se prima non passa attraverso i sensi”), che conosce e vuole ed agisce, per cui bisogna educare la sensibilità e le passioni ad obbedire alla volontà, e questa all’intelletto e viceversa. Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange scrive: «se nego il valore dell’intelligenza retta, comprometto la bontà dell’azione libera e volontaria. La volontà deve essere educata, illuminata e rettificata dalla sana e retta intelligenza e dal giudizio speculativo vero circa il Fine ultimo. Non si può amare Dio, Sommo Bene e Vero, senza la retta conoscenza della realtà. Tuttavia, l’intelletto pratico, che sceglie i mezzi, dipende dalla buona volontà. Ognuno giudica praticamente secondo la propria tendenza: se l’inclinazione del proprio appetito sensibile o razionale è cattiva (l’ambizioso), il giudizio pratico non è retto (per me qui e adesso è bene rubare). La verità del giudizio dell’intelletto pratico dipende dalla buona volontà» (La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 203).
*
L’importanza di una buona volontà
San Tommaso insegna: «Penso […] perché voglio pensare» (De malo, q. 6, a. 1; Summa contra Gent., lib. I, cap. 72). Se mi manca la buona volontà non metto a frutto l’intelligenza o la metto malamente a frutto per fare il male. Perciò si potrebbe vedere l’assioma nihil volitum nisi praecognitum anche dal lato opposto del nihil cognitum nisi praevolitum. Se non voglio pensare o conoscere, non penso e non conosco. Entrambe sono veri: l’intelletto è il faro dell’auto ma se non voglio girare la chiave del motore ed accendere le luci, il faro resta spento. Come pure, se accendo solo il motore senza illuminare la strada, mi schianto sicuramente, poiché la volontà è una facoltà cieca. Per cui bisogna coordinare e far collaborare intelletto e volontà senza contrapporle. «Mediante la volontà ci gioviamo di tutto ciò che si trova in noi. Per cui è chiamata buona non la persona intelligente, ma quella che ha la buona volontà» (S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 3). Infatti la nostra anima mantiene la grazia infusa da Dio in forza della buona volontà (S. Th., I, q. 83, a. 2, sed contra). La libertà vera consiste nella scelta libera di voler amare Dio e «più amiamo Dio, più siamo liberi» (In III Sent., dist. 29, a. 8, quaestiunc. 3, n. 106, sed contra). Per cui «la vera libertà è libertà dal peccato; mentre la vera schiavitù è la schiavitù del peccato» (S. Th., II-II, q. 183, a. 4). Se l’intelligenza rende l’uomo dotto, la volontà lo fa virtuoso. Il peccato, perciò, è l’obitorio della vera libertà. “Il vero filosofo è colui che ama Dio (S. Agostino, De Civitate Dei, l. VIII, c. 1); “L’unica libertà è la vittoria sul peccato” (Cornelio Fabro, Vangeli delle Domeniche, Segni, 2011, II ed., p. 273); «L’uomo poco sapiente e di scarsa intelligenza ma timorato di Dio, è migliore di chi è molto intelligente ma trasgredisce la legge divina» (Sir., XIX, 21). Come d’altra parte insegna anche il Vangelo: è “la Verità che vi farà liberi”, poiché chi cade nell’errore è schiavo di esso; “Caritatem facientes in veritate” (San Paolo). Perciò non si può disgiungere la retta conoscenza dalla buona volontà. “Ubi justitia et veritas, ibi caritas”.
*
Non separiamo ciò che Dio ha unito
Ecco l’importanza di non separare ciò che Dio ha unito in matrimonio: intelletto e volontà, ma di farli cooperare unitamente e subordinatamente come causa formale estrinseca che illumina (intelletto) ed efficiente e finale che muove (volontà) l’uomo a conoscere il vero e ad agire bene. L’uomo è composto di anima (in cui si trovano l’intelletto e la volontà) e corpo (in cui vi sono la conoscenza sensibile: sensi esterni, interni e l’appetito sensibile: irascibile e concupiscibile). La sola intelligenza senza la buona volontà porta al male, la sola volontà senza conoscenza è cieca e devia, sbanda, si schianta. Inoltre le passioni sensibili debbono essere educate a rispondere positivamente alla buona volontà per essere applicate alla conoscenza del vero. Altrimenti prendono il sopravvento e trascinano l’intelletto e la volontà verso oggetti falsi e cattivi. Occorre coltivare il corpo con i suoi sensi esterni (vista, tatto, gusto, olfatto e odorato) ed interni (memoria e fantasia…), l’appetito sensibile (irascibile e concupiscibile), le passioni (ira, odio, amore, timore…); poi l’intelletto a conoscere il vero e rifiutare il falso ed infine la volontà ad amare il bene ed odiare il male. “Fa il bene ed evita il male, questo è tutto l’uomo”. Non siamo solo ‘ragione pura’, nemmeno ‘volontà assoluta’, neppure solo istinti, sensi, passioni, ma un misto di queste cose che debbono lavorare assieme, subordinatamente a farci cogliere il nostro vero Fine ultimo conosciuto ed amato. L’Imitazione di Cristo ci insegna che il giorno del Giudizio non ci verrà chiesto ciò che abbiamo letto, detto o scritto, ma ciò che abbiamo voluto e fatto. L’ideale è la retta scienza accompagnata dalla buona volontà (“doctus cum pietate, pius cum doctrina”), conoscere per amare e voler conoscere per poter amare sempre meglio. Senza dimenticare che abbiamo un corpo con i suoi sensi e le passioni, che vanno educate e innalzate dalla conoscenza amorosa del Fine ultimo e non represse, altrimenti scoppiano e si rivoltano. “Chi vuol far l’angelo, finisce per diventare una bestia”. L’uomo è un’unità sostanziale di anima e corpo, sensibilità, intelletto/volontà e tutto deve essere utilizzato in armonia e gerarchia allo scopo finale. L’uomo completo dovrebbe tendere, pian piano e soprattutto con l’aiuto di Dio, ad acquisire una intelligenza profonda, chiara, riflessiva, penetrante, agile, viva e rapida, non superficiale, non fredda, arida o egoista, ma accompagnata da un caldo e intenso amore di Dio e del prossimo ed una volontà forte, ferma, costante, attiva e tenace, non timida, ma impavida e accompagnata dalla bontà di cuore, evitando la pignoleria e la meticolosità ristrette, la durezza, l’ostinazione, l’insensibilità. Infine la sensibilità, controllata da intelletto e volontà, dovrebbe arricchire l’appetito irascibile con la benignità, la serenità, la compassione, l’affabilità e l’espansività, senza durezza di cuore e l’appetito concupiscibile con la padronanza di sé e la flemma, la costanza, la metodicità, la perseveranza e la prudenza, schivando l’angelismo come pure la schiavitù o la dipendenza dalle passioni o dagli istinti disordinati[5]. Per cui intelletto, volontà e sensibilità debbono concorrere al perfezionamento dell’uomo assieme e subordinatamente.
*
Senza metafisica crolla la morale
Tolto l’ordine metafisico è tolta la normatività, la responsabilità, l’imputabilità e perciò vengono meno le basi dell’ordine morale. Così come tolto l’essere vien meno anche l’agire. Parimenti è tolto l’ordine della libertà: nella scelta del fine la volontà muove se stessa e precede l’intelletto. L’autentica filosofia non si riduce affatto a un esercizio di pensiero, pur indispensabile, ma è esercizio di buona volontà disposta ad accogliere e riconoscere la verità dell’ente, dell’atto di essere e soprattutto dell’Essere perfettissimo. “Il vero filosofo è colui che conosce alla luce della Causa prima, giudica rettamente e ordina ogni cosa al proprio fine e soprattutto la sua vita, vivendo virtuosamente”.
Mi sembra che questi possano essere considerati i rudimenti essenziali della metafisica e dell’etica tomistica, che ci aiutano a conoscere il vero per vivere bene e cogliere il nostro Fine. Che Dio ci conceda di poter conoscere sempre meglio tali princìpi per metterli in pratica e giungere a vederlo faccia a faccia.
d. CURZIO NITOGLIA

29 ottobre 2011

 
[1] «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo con l’antropocentrismo, la Chiesa [conciliare, ndr] […] cerca di congiungerli […] in maniera organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio».
[2] La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, [1939], Segni, 2005, IV ed. Id., Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino [1961], Segni, 2010, II ed.
[3] Cfr. O. Lottin, Psychologie et morale aux XII et XIII siècles, Gembloux, 1942, I, pp. 225-389; Id., Morale fondamentale, Tournai, 1954, pp. 96-100.
[4] Cfr. C. Fabro, Riflessioni sulla libertà, Rimini, 1983.
[5] Cfr. A. Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, Roma, Desclée, VIII ed., 1954, A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Paoline, 1960.

domenica 30 ottobre 2011

Ognuno per se e il proprio dio con tutti...




Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni. Anzi le ho gia maledette, perché nessuno tra di voi se la prende a cuore.
Voi invece vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d'inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete rotto l'alleanza di Levi,dice il Signore degli eserciti. (Malachia 2)



Il Santo padre incontrando, il 28 Ottobre 2011, i rappresentanti delle false religioni ha detto loro: "Andando per le nostre strade diverse, traiamo forza da quest’esperienza e, ovunque siamo, proseguiamo il viaggio rinnovato che conduce alla verità, il pellegrinaggio che porta alla pace. Vi ringrazio tutti di cuore!"





Capito bene? tutti avanti per la propria strada, quindi niente conversione a Gesù Cristo, tutto in nome di una fantomatica e blasfema pace massonica che nulla di buono porterà...
A noi non ci rimane altro che rigettare tali insegnamenti per mantenere intatta la Fede donataci da Dio...



Pio XI nell'Encilcica "Qas Primas" ha scritto:
La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso”.


Lo stesso Pio VII scrisse:

Lettera al Vescovo di Troyes di Papa Pio VII (1814): “Il nostro cuore è ancor più profondamente afflitto da una nuova causa di dolore che, lo ammettiamo, ci tormenta e fa sorgere profondo scoramento ed estrema angoscia: è l’articolo 22 della Costituzione. Non soltanto esso permette la libertà dei culti e di coscienza, per citare i termini precisi dell’articolo, ma promette sostegno e protezione a questa libertà e, inoltre, anche ai ministri dei quali i culti sono citati....
“Questa legge fa ben più che stabilire la libertà per tutti i culti senza distinzione: mescola la verità con l’errore e pone le sette eretiche e perfino il Giudaismo sullo stesso piano della santa ed immacolata Sposa di Cristo, fuori della quale non ci può essere salvezza. In aggiunta a questo, nel promettere favore e supporto alle sette eretiche ed ai loro ministri non sono semplicemente le loro persone, ma i loro errori che vengono favoriti e tollerati. Questa è implicitamente l’eresia disastrosa e sempre da deplorarsi che S. Agostino descrive in questi termini: ‘Pretende che tutti gli eretici siano sul retto cammino e dicano la verità. Questa è un’assurdità così mostruosa che non posso credere che qualsiasi setta possa realmente professarla.’”


Scrisse ancora, Papa Gregorio XVI:
Mirari Vos” di Papa Gregorio XVI (15 agosto 1832): “Veniamo ora ad un’altra causa, ahimé! fin troppo fruttuosa delle deplorevoli infermità che oggi affliggono la Chiesa. Intendiamo l’indifferentismo, ovvero quella diffusa e pericolosa opinione seminata dalla perfidia dei malvagi, secondo la quale è possible, mediante la professione di qualche sorta di fede, procurare la salvezza dell’anima, posto che la morale di una persona si conformi alle norme of giustizia e probità. Da questa sorgente avvelenata dell’indifferentismo sgorga quella falsa e assurda massima, meglio definita il folle delirio (deliramentum), secondo il quale si deve ottenere la libertà di coscienza e garantirla a chiunque. Questo è il più contagioso degli errori, che prepara la via per quella assoluta e totalmente sfrenata libertà di opinioni che, per la rovina della Chiesa e dello Stato, si diffonde ovunque e che certuni, per eccesso di impudenza, non temono di propugnare come vantaggiosa per la religione. Ah, ‘qual morte più disastrosa per le anime della libertà di errore?’, disse S. Agostino.”
E doloroso constatare che proprio chi è stato messo a pascere il gregge di Dio vada contro il pensiero autorevole di un Sui predecessori, promuovendo una pace senza Gesù Cristo, si Gesù il RE dei RE il Signore dei Signori colui che solo può dare la vera pace viene vilipeso da numerose riunioni con gli infedeli con gli eretici e gli scismatici, promosse dalla Gerarchia della Sua Chiesa. Verrà il giorno che tutto questo cesserà e il Regno Regale di Gesù Cristo regnerà su tutti i popoli, quindi coraggio combattiamo con le armi della Fede questa gloriosa battaglia per il Signore, e per il nostro bene...

Gesu', nostro Signore, parla a Santa Brigida e a noi...




Io sono il Creatore di tutte le cose. Io il re della gloria e il Signore degli Angeli. Io ho costruito per me un nobile Castello e vi ho posto i miei eletti. Ne scavarono le fondamenta i miei nemici e intanto prevalsero contro i miei amici, in quanto dai loro piedi legati al palo, verrà fuori il midollo. La loro bocca è percossa con i sassi e soffre fame e sete. E, di più, perseguitano il loro Signore. Già gli amici miei chiedono aiuto gemendo, la giustizia chiede vendetta, la misericordia dice di perdonare. Allora Dio stesso dice al celeste esercito presente: Che ve ne pare di questi, che hanno occupato il mio Castello? E tutti, quasi a una voce sola, rispondono: Signore, in te è ogni giustizia e tutte le cose in Te vediamo. Tu esisti, senza principio e senza fine, Figlio di Dio, a te è stato dato ogni giudizio, tu sei il loro Giudice. Ed egli dice: Sebbene tutto sapete in me e vedete, tuttavia per questa sposa presente dite un giusto giudizio. E quelli affermano: la giustizia è questa, che quelli che hanno scavato il muro, siano puniti come ladri. E quelli che persistono nella malizia, siano puniti come invasori. E quelli che son prigionieri siano liberati e gli affamati siano saziati.


Quindi parla la Madre di Dio Maria, tacendo della voce di prima e dice: Signor mio e Figlio carissimo, tu fosti nel mio grembo, vero Dio e uomo. Tu, per tua degnazione, santificasti me, vaso di terra. Ti supplico, abbi pietà ancora una volta di loro.


Allora risponde il Signore alla Madre: Benedetta la Parola della tua bocca. Essa sale davanti a Dio, come odore soavissimo. Tu sei la gloria degli Angeli e di tutti i Santi, perché da te è stato consolato Dio e sono rallegrati i Santi. E poiché la volontà tua fin dalla giovinezza era come la mia, così farò ancora una volta come vuoi tu.


E dice all'esercito: Perché voi combatteste virilmente, perciò, per la carità vostra ancora mi placherò. Ecco, per le vostre preghiere ricostruirò il mio muro. Salverò e sanerò quelli che sono stati sopraffatti dalla violenza e li ricompenserò cento volte tanto dell'offesa patita. E anche ai violenti darò pace e misericordia, se la chiederanno. Quelli che l'avranno disprezzata, proveranno la mia giustizia.
E ora ti spiegherò cosa significano queste cose. Il Castello, di cui ti ho detto, è la stessa santa Chiesa, costruita con il Sangue mio e dei miei Santi, cementata con il cemento della mia carità; in essa posi i miei eletti ed amici. Suo fondamento è la fede, e cioè il credere che io sono Giudice giusto e misericordioso. Ma ora è scavato il fondamento, perché tutti mi credono e predicano misericordioso, però quasi nessuno predica e crede che io sono giusto Giudice1. Essi mi ritengono quasi un giudice iniquo. Iniquo infatti sarebbe il giudice, che per misericordia mandasse impuniti gli iniqui, sicché opprimano ancora più i giusti. Ma io sono Giudice giusto e misericordioso, sicché non lascerò impunito neppure il minimo dei peccati, né senza ricompensa il minimo bene. Attraverso il muro scavato sono entrati nella santa Chiesa quelli che peccano senza timore, che negano la mia giustizia, tormentano gli amici miei come quelli che sono legati ai ceppi. Per gli amici miei stessi non c'è infatti gaudio e consolazione. Ma ogni obbrobrio e ogni dolore è dato a loro, come se fossero demoni. Se di me dicono il vero, sono confutati e accusati di menzogna. Desiderano ardentemente ascoltare e dire cose rette, ma non c'è chi li ascolti o chi le dica loro.
Io stesso, Signore e Creatore, sono bestemmiato. Dicono infatti: Non sappiamo se c'è Dio. E se c'è, non ce ne importa. Abbattono e conculcano il mio vessillo, dicendo: Perché ha patito? A che ci giova? Che dia a noi la nostra volontà e ci basta ed egli si tenga pure il suo regno e il suo cielo. Io voglio pur essere in loro, ma essi dicono: piuttosto moriamo, prima di lasciare la nostra volontà.

Ecco, mia sposa, chi sono. Io li ho creati e con una sola parola potrei distruggerli. Come si inorgogliscono contro di me! Ma ora per le preghiere della Madre mia e di tutti i Santi, sono ancora così misericordioso e paziente che voglio far arrivare a loro le parole, che uscirono dalla mia bocca e offrir loro la mia misericordia. Se la vorranno avere, mi placherò; altrimenti sperimenteranno la mia giustizia, in modo che saranno, come ladri, confusi pubblicamente davanti agli Angeli e agli uomini e saranno giudicati dagli uomini. Infatti come coloro che sono appesi alla forca sono divorati dai corvi, così costoro saranno divorati dai demoni e non consumati. Come coloro che, costretti al palo, non trovano pace, così questi soffriranno dovunque dolori e amarezze. Un fiume ardentissimo scorrerà nella loro bocca, né si sazierà il ventre, ma di giorno in giorno si rinnoverà il loro supplizio.

Ma gli amici miei saranno salvati e saranno consolati con le parole che escono dalla mia bocca. Vedranno la mia giustizia con la misericordia. Li rivestirò delle armi della mia carità e li farò così forti, che i nemici cadranno come argilla. E vedendo arrossiranno di vergogna perpetua, avendo abusato della mia pazienza.


Fonte: Non possumus

Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas

 
 
La festa di Cristo Re

nella storia, nella liturgia, nella teologia

di Daniele Di Sorco





1. Uno spostamento apparentemente irrilevante.


Col motu proprio Summorum Pontificum il Papa Benedetto XVI ha definitivamente chiarito che il Messale romano tradizionale, detto di S. Pio V, non è mai stato abolito e che pertanto qualunque sacerdote può utilizzarlo nella sua integralità. La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, in una risposta del 20 ottobre 2008, ha ribadito che “l'uso legittimo dei libri liturgici in vigore nel 1962 comprende il diritto di usare il calendario proprio dei medesimi libri liturgici”. Com'è noto, nel calendario universale del rito romano antico la festa di Cristo Re è assegnata all'ultima domenica di ottobre, mentre il Messale romano riformato, approvato da Paolo VI nel 1969, la colloca all'ultima domenica dell'anno liturgico.
Non mancano coloro che, in nome di una maggiore uniformità tra le “due forme dell'unico rito romano”, insistono per una revisione del calendario che garantisca per lo meno la coincidenza delle feste maggiori (revisione che de facto è stata già compiuta per il rito ambrosiano antico, non però de iure, visto che le norme del diritto richiedono per qualunque modifica liturgica, anche relativa a riti diversi dal romano, l'espressa approvazione della Santa Sede). I più, tuttavia, considerano questo spostamento della festa di Cristo Re come irrilevante: dopo tutto, la ricorrenza è rimasta, anche se leggermente modificata nel titolo (non più "Cristo Re" simpliciter, ma "Cristo Re dell'universo"), e il fatto che sia assegnata ad una data piuttosto che ad un'altra non ne altera la sostanza. Alcuni, sebbene legati al rito antico, giungono a preferire la scelta del nuovo calendario: la festa della regalità di Cristo, infatti, costituisce il perfetto coronamento dell'anno liturgico, mentre non si vede il motivo di collocarla in una posizione apparentemente priva di significato come la fine del mese di ottobre.
Di fronte a tanta variabilità di opinioni, cercheremo, in questo articolo, di ricostruire la genesi storica della festa di Cristo Re, di delinearne - per quanto ci è possibile, in qualità di non specialisti - la portata teologica, e infine di dimostrare perché, a nostro avviso, lo spostamento in questione è tutt'altro che irrilevante.


2. Istituzione della festa.

La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l'11 dicembre 1925 mediante l'enciclica Quas primas. Si trattava di una festa del tutto nuova, priva - al contrario di altre feste, per esempio quella del Sacro Cuore - di precedenti nei calendari locali o religiosi. D'altronde, se nuova era la festa, non nuova era l'idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non soltanto la Scrittura, i Padri e i teologi, ma anche l'arte sacra e il senso comune dei fedeli concordemente affermano. Perché il Papa abbia avvertito il bisogno di istituire una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero, risulta chiaro dal testo della stessa enciclica: “Se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l'umana società”.
Quale peste?
Quella - risponde il Papa nel paragrafo successivo - del laicismo: “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso”.

Quindi, se il fine generico della festa - nelle intenzioni del Pontefice - era quello di divulgare nel popolo cristiano “la cognizione della regale dignità di nostro Signore” (regalità in senso lato), il fine specifico era quello di porre l'accento proprio su quella specificazione della regalità che il laicismo nega, vale a dire la regalità sociale. Che sia questo l'autentica ratio della festa, emerge non soltanto dal contenuto dell'enciclica, ma anche da una semplice constatazione di carattere liturgico: tutte le feste, infatti, celebrano - direttamente o indirettamente - la regalità, genericamente intesa, di nostro Signore; ma non esisteva, fino al 1925, alcuna ricorrenza espressamente dedicata al suo regno sulle società di questo mondo.
Tale conclusione è confermata dall'indole dei testi liturgici della festa, promulgati dalla S. Congregazione dei Riti il 12 dicembre dello stesso anno.

Nel Breviario, l'inno dei Vespri afferma:
Te nationum praesides
Honore tollant publico,
Colant magistri, iudices,
Leges et artes exprimant.
Submissa regum fulgeant
Tibi dicata insignia:
Mitique sceptro patriam
Domosque subde civium

(traduzione nostra: “Te i governanti delle nazioni esaltino con pubblici onori, Te onorino i maestri, i giudici, Te esprimano le leggi e le arti. Risplendano, a Te dedicate e sottomesse, le insegne dei re: sottometti al tuo mite scettro la patria e le dimore dei cittadini”).

Nell'inno del Mattutino si legge:
Cui iure sceptrum gentium
Pater supremum credidit
(“A Te [Redentore] il Padre ha consegnato, per diritto, lo scettro dei popoli”).
E ancora:
Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas
(“A Te, o Gesù, sia gloria, che regoli gli scettri [= le autorità] del mondo”).

Stessi concetti ribaditi dall'inno delle Lodi:
O ter beata civitas
Cui rite Christus imperat,
Quae iussa pergit exsequi
Edicta mundo caelitus!
(“O tre volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).

Così pure nell'orazione, dove Cristo viene definito “universorum Rege” (non Re di un generico e imprecisato universo, come afferma la nuova liturgia nelle traduzioni volgari, ma Re di tutti, ossia di tutti gli uomini), si dice che il Padre ha voluto in lui instaurare ogni cosa (ivi compreso l'ordinamento sociale), e si auspica che “cunctae familiae gentium” (diremmo, in linguaggio moderno, “ogni società umana”) si sottomettano al suo soavissimo impero.

Dei testi della Messa, ci limiteremo a ricordare le letture scritturistiche. Nell'epistola, S. Paolo insegna l'assoluta e completa dipendenza di ogni cosa, nessuna esclusa, da Cristo “in omnibus primatum tenens” (Col. 1, 18).
Dal Vangelo, poi, apprendiamo che il regno del Signore dev'essere inteso non solo in senso trascendente (regalità spirituale) ma anche immanente (regalità temporale o sociale). Quando infatti Pilato pone a Gesù la fondamentale domanda: “Ergo rex es tu?” si riferisce senza dubbio al concetto di regalità che egli, come romano e come pagano, possedeva, vale a dire al regno su questo mondo.


3. Regalità spirituale e regalità temporale.

Né deve trarre in inganno il fatto che Gesù risponda che il suo regno non è di questo mondo. Si noti, anzitutto, la scelta dei termini: il regno non è “di questo mondo”, ossia non è secondo le modalità dei regni terreni, come Gesù stesso precisa nello stesso passo: “Se il mio regno fosse di questo mondo, le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei: ma il mio regno non è di questo mondo”, e come la Chiesa ha sempre interpretato. Ma ciò non significa che non sia un regno su questo mondo. È ancora Gesù che, poco dopo, lo specifica: “Tu lo dici: io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è per la verità, ascolta la mia voce” (Gv. 18, 33-37).
La differenza, quindi, sta nel modo, non nell'oggetto. Gesù dichiara di essere venuto nel mondo per regnare su di esso, non però al modo dei monarchi terreni, che regnano per autorità delegata, direttamente e valendosi (in modo legittimo) della forza, ma al modo del Monarca eterno ed universale, che regna per autorità propria, indirettamente e pacificamente (“Rex pacificus vocabitur”, come ricorda la prima antifona dei Vespri, tratta da Isaia).
“L'origine di questa regalità è celeste e spirituale, anche sei poteri regali sono esercitati nel mondo” (S. Garofalo, Commento al Vangelo di Giovanni, in La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, Torino, Marietti, 1960, vol. III, p. 273).

Lo scopo della festa, vale a dire la celebrazione della regalità sociale di Cristo, ne illumina anche la collocazione nel calendario. Esistono diversi motivi per cui essa fu assegnata all'ultima domenica di ottobre.
Il primo e più importante è quello delineato dal Papa nell'enciclica: “Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti”. In altre parole, la festa di tutti i Santi, che regnano per partecipazione, viene fatta precedere dalla festa di Cristo, che regna per diritto proprio.
La ricorrenza della regalità di Cristo, inoltre, costituisce il coronamento di tutto l'anno liturgico, e pertanto viene posta verso la sua fine.
È lecito domandarsi: perché non proprio alla fine?
Probabilmente - è l'unica spiegazione veramente plausibile - per non confondere la regalità escatologica (di ordine spirituale), che la liturgia tradizionale ricorda nell'ultima domenica dell'anno liturgico mediante la pericope evangelica sulla fine del mondo, con la regalità sociale, che costituiva l'oggetto specifico della nuova festa.
Vi è poi un altra ragione, non esplicitata nell'enciclica, ma ragionevolmente presumibile. Il mese di ottobre era il mese dedicato alle missioni e nella sua penultima domenica si pregava specialmente per la propagazione della Fede tra i pagani. Quale modo migliore, per concluderlo, che ricordare il fine ultimo delle missioni, vale a dire il regno sociale di Cristo su tutti i popoli?
L'intenzione del Pontefice espressa nell'enciclica, l'indole dei testi liturgici, la collocazione originaria della festa: tutti questi elementi consentono di concludere in modo sicuro che la ricorrenza di Cristo Re fu istituita al preciso scopo di ricordare la regalità sociale di nostro Signore e di costituire così un efficace antidoto al laicismo dilagante.
Occorre, a questo punto, vedere che cosa si intenda per “regalita sociale di Cristo”. Cercheremo di farlo senza esorbitare dai limiti di una trattazione che non è e non intende essere specialistica.
Il fondamento dogmatico della regalità di Cristo genericamente intesa è l'unione ipostatica, “per mezzo della quale la natura assunta dagli uomini è unita alla seconda Persona della SS. Trinità: per tale ragione, dunque, Egli non solo è stato costituito Mediatore dal primo momento della sua Incarnazione, ma è anche divenuto, per questo ammirabile avvenimento, Re di tutta la creazione, in ragione della propria divinità” (P. Radó, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi-Barcinone, 1961, vol. II, p. 1309).
Lo afferma chiaramente il Papa nella citata enciclica: “In questo medesimo anno, con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l'impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli”.
L'origine della regalità di Cristo in quanto uomo - prosegue Pio XI - è duplice: egli infatti è re non solo per diritto (nativo) di natura, poiché la sua umanità appartiene alla Persona del Verbo divino, ma anche per diritto (acquisito) di conquista, “in forza della Redenzione”, cioè per aver riscattato col suo Sangue il genere umano dal peccato. “Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell'unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature”.
L'estensione del Regno del Verbo incarnato è universale, come universali sono la creazione e la redenzione donde esso promana. Perciò si estende indiscriminatamente a tutte le cose.

Quanto alla sua natura, poiché il mondo consta di realtà trascendenti e di realtà immanenti, è invalso l'uso di distinguere tra regalità spirituale e regalità temporale. Delle due, è la prima ad avere la preminenza, poiché il temporale è per sua natura ordinato allo spirituale.
Si legge infatti nell'enciclica: “Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire”. Tuttavia - prosegue il Sommo Pontefice - “sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio”.
Ora, se la regalità temporale di Cristo, al pari di quella spirituale, si esercita su tutte le cose, essa riguarda non soltanto l'individuo (regalità individuale), ma anche l'insieme degli individui, vale a dire la società (regalità sociale). Ne consegue che le istituzioni sociali hanno nei confronti di Cristo gli stessi doveri dell'individuo singolarmente considerato: devono riconoscerlo, adorarlo e sottomettersi alla sua santa Legge. “Né v'è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli”, precisa l'enciclica.
Sarebbe dunque in errore chi pensasse che l'obbligo morale di aderire alla divina Rivelazione riguardi soltanto il singolo, mentre la società, nelle sue istituzioni, potrebbe e dovrebbe limitarsi al solo diritto naturale (o addirittura ai soli cosiddetti "diritti umani"). Di qui l'esortazione, rivolta dal Papa ai capi delle nazioni, “di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all'impero di Cristo insieme coi loro popoli”.


4. La "nuova" festa di Cristo Re dell'universo.

Uno dei capisaldi del pensiero moderno è la riduzione della religione alla sola dimensione privata, senza alcuna influenza diretta sulla vita pubblica. Si tratta del "laicismo" (che oggi molti preferiscono chiamare "laicità") di cui parla l'enciclica, già individuato e condannato dai Pontefici precedenti. La festa di Cristo Re - nelle intenzioni di Pio XI - doveva fungere da rimedio a questa pericolosa tendenza e ricordare al popolo cristiano che la regalità di Cristo si estende anche alle realtà temporali. Ci domandiamo: tali concetti emergono con la stessa chiarezza anche nella versione attuale, riformata nel 1969, della festa?
Procederemo, anche in questo caso, con l'analisi dei testi liturgici e della collocazione del calendario.

Nella Liturgia delle Ore, l'inno dei Vespri è lo stesso (Te saeculorum Principem), ma da esso sono state soppresse proprio quelle strofe, citate sopra in questo articolo, che parlano esplicitamente della regalità sociale
(“Te nationum praesides...” e “Submissa regum fulgeant...”).
Nella seconda strofa, inoltre, il riferimento al laicismo
(“Scelesta turba clamitat: / Regnare Christum nolumus” = “La folla empia grida: Non vogliamo che Cristo regni”)
è stato rimpiazzato da una frase generica e indefinita
(“Quem prona adorant agmina / hymnisque laudant cælitum” = “Ti adorano prone le schiere celesti e ti lodano con inni”).

Completamente diverso l'inno dell'Ufficio delle Letture (il vecchio Mattutino), privo anch'esso di qualunque riferimento alla dimensione sociale e temporale del Regno di Cristo. Le letture tratte dall'enciclica Quas primas, che il Breviario antico assegnava al secondo Notturno, sono state rimpiazzate da un brano di Origene, di carattere marcatamente spirituale.

Così pure si cercherebbe invano un'allusione o un accenno alla necessità che Cristo regni sulla società civile nel nuovo inno delle Lodi mattutine.
La nuova orazione ricalca lo schema della vecchia, modificandone però completamente il senso. Non si domanda più che la società umana, disgregata dalla ferita del peccato, si sottometta al soavissimo impero di Cristo, ma che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, serva e lodi Dio senza fine. La regalità sociale e temporale dell'antica formula, resa necessaria dalla disgregazione del peccato, lascia il posto alla regalità individuale e spirituale della nuova, nella quale peraltro non vi è alcun accenno esplicito all'impero di Cristo.
Inoltre, sebbene l'originale latino parli ancora di Cristo “universorum Rex”, le versioni moderne hanno tradotto questa espressione con “Re dell'Universo” (cfr. inglese "King of the Universe", francese "Roi de l'Universe", spagnolo "Rey del Universo"), indebolendone ulteriormente la dimensione immanente, concreta, storica del suo Regno.

Le stesse considerazioni valgono a proposito del nuovo titolo della festa (“Cristo Re dell'Universo”) nei libri liturgici in lingua moderna.

La Messa si articola, come di consueto nel nuovo rito, in tre cicli scritturistici.
Il primo (anno A) ha carattere eminentemente escatologico, è incentrata cioè sulla pienezza del regno spirituale di Cristo alla fine dei tempi e non contiene alcun cenno alla regalità sociale.
Il secondo (anno B) prevede il vangelo del formulario tradizionale, ma nella seconda lettura l'epistola di S. Paolo è stata sostituita da un brano dell'Apocalisse che ribadisce la natura spirituale del Regno di Cristo.
Il terzo (anno C) denota una situazione simile ma inversa: l'epistola è quella del formulario antico, mentre il vangelo parla del regno ultraterreno e spirituale che Gesù assicura al buon ladrone. Nel secondo e terzo ciclo scritturistico, quindi, la regalità sociale è presente, ma in misura meno esplicita, e diremmo quasi irriconoscibile, che nel formulario tradizionale.
Del tutto scomparso il testo dell'antico graduale, tratto dal salmo 71, che, alludendo al Messia, affermava: “Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum” (espressioni ebraiche che denotano l'interezza del mondo immanente).
E ancora: “Et adorabunt eum omnes reges terrae, omnes gentes servient ei” (altro chiaro riferimento all'ossequio dei governanti e della società).

Lo spostamento della festa di Cristo Re verso una dimensione essenzialmente spirituale e trascendente è confermato dalla sua nuova posizione nel calendario. Essa non è più posta in riferimento ai Santi che regnano con Cristo e alle missioni che diffondono il suo regno temporale, ma si trova alla fine dell'anno liturgico, nella posizione che la liturgia romana assegna tradizionalmente al ricordo della fine del mondo e del giudizio universale. Il che, se da un lato spiega l'indole del ciclo scritturistico A, dall'altro rafforza l'idea che nella nuova liturgia il Regno di Cristo a cui si allude con la corrispondente festa non è primariamente, come intendeva Pio XI, quello sociale, storico, temporale, che del resto avrà fine con la sua venuta escatologica, ma piuttosto quello trascendente, spirituale, eterno, che troverà il suo perfetto compimento nella Parusia.


5. Conclusione.

Sulla base di tutti questi elementi, è possibile affermare che, nel nuovo rito, la festa di Cristo Re ha subito un sorprendente allontanamento dal significato voluto al momento della sua istituzione. E non ci sembra azzardato ravvisare, in questo, un certo influsso del pensiero moderno, penetrato negli ultimi decenni anche in ambiente ecclesiastico, che se da un lato accetta - come espressione del pluralismo - la regalità di Cristo sui singoli, dall'altro la rifiuta sulle istituzioni sociali.
C'è da auspicare, pertanto, che almeno nel rito antico alla festa di Cristo Re siano mantenuti, non soltanto il suo formulario, ma anche la sua collocazione originaria. Spostarla al termine dell'anno liturgico, infatti, ne accentuerebbe la dimensione escatologica a discapito di quella sociale, e finirebbe in qualche modo per alimentare la credenza, oggi assai diffusa anche nel mondo cattolico, secondo cui la società civile - intesa nel suo complesso e nelle sue istituzioni - avrebbe il diritto e persino il dovere di prescindere dal soavissimo giogo del Regno di Cristo. “Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l'intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l'autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza” (Pio XI, enciclica Quas primas).
 
In onore di Cristo Re pubblichiamo – nella sua versione integrale - la preghiera composta da Leone XIII che Pio XI prescrisse per l’ultima domenica di ottobre, nella festa liturgica da lui istituita in onore della regalità sociale. Nel 1959 Giovanni XXIII fece censurare le parti relative alla conversione dei giudei, dei musulmani e dei pagani. Nelle chiese dell’Ecclesia Dei e “motu proprio” quale versione verrà recitata? Quella secondo lo spirito del Vangelo o quella secondo lo spirito di Assisi?

Consacrazione del genere umano al Sacratissimo Cuore di Gesù da recitarsi ogni anno all’ultima domenica di ottobre.
O Gesù dolcissimo, o Redentore del genere umano, riguardate a noi umilmente prostrati innanzi al vostro altare. Noi siamo vostri, e vostri vogliamo essere; e per vivere a voi più strettamente congiunti, ecco che ognuno di noi, oggi spontaneamente si consacra al vostro sacratissimo Cuore. Molti, purtroppo, non vi conobbero mai; molti, disprezzando i vostri comandamenti, vi ripudiarono. O benignissimo Gesù, abbi misericordia e degli uni e degli altri e tutti quanti attira al vostro Sacratissimo Cuore. O Signore, siate il Re non solo dei fedeli che non si allontanarono mai da voi, ma anche dì quei figli prodighi che vi abbandonarono; fate che questi, quanto prima, ritornino alla casa paterna, per non morire di miseria e di fame. Siate il Re di coloro che vivono nell'inganno e dell'errore, o per discordia da voi separati; richiamateli al porto della verità, all'unità della fede, affinché in breve si faccia un solo ovile sotto un solo pastore. Siate il re finalmente di tutti quelli che sono avvolti nelle superstizioni dell’Idolatria e dell’Islamismo; e non ricusate di trarli tutti al lume e al regno vostro. Riguardate finalmente con occhio di misericordia i figli di quel popolo che un giorno fu il prediletto; scenda anche sopra di loro, lavacro di redenzione di vita, il sangue già sopra essi invocato, Largite, o Signore, incolumità e libertà sicura al la vostra Chiesa, largite a tutti i popoli la tranquillità dell'ordine. Fate che da un capo all'altro della terra risuoni quest'unica voce: Sia lode a quel Cuore divino da cui venne la nostra salute; a lui si canti gloria e onore nei secoli dei secoli. Amen