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d. CURZIO NITOGLIA
29 ottobre 2011
Attualità del tomismo
●Nell’attuale disordine ed instabilità degli spiriti la dottrina
tomistica, che eleva a scienza filosofica i princìpi insegnati dal
senso comune ad ogni uomo, conserva tutte quelle verità immutabili
ed ordinate senza le quali è impossibile conoscere la realtà che ci
circonda, la natura dell’uomo e la spiritualità della sua anima,
l’esistenza di Dio e qualcosa della sua essenza, l’arte di vivere
bene in ordine al Fine ultimo. Se non esistono nozioni immutabili,
crolla la stabilità dei giudizi razionali e dei dogmi soprannaturali
della religione cristiana. Il giudizio (p. es. ‘l’anima è
immortale’) è un’affermazione che unisce due concetti o nozioni. Se
le nozioni (‘anima’ e ‘spirituale’) non sono precise, definite ed
immutabili, il giudizio sarebbe infondato a sua volta e il
ragionamento (concatenazione di due giudizi dai quali si trae una
conclusione) non giungerebbe a nessuna conoscenza certa, ma sarebbe
sconclusionato e porterebbe disordine e sconclusionamento in ogni
sfera dell’essere ed agire umano.
●Dal punto di vista del realismo della conoscenza, secondo cui “la
verità è la conformità del pensiero alla realtà oggettiva” e per il
principio di non-contraddizione, due sistemi filosofico-teologici
che si oppongono non possono essere veri entrambi; l’uno è vero,
l’altro è falso. Invece dal punto di vista dell’immanentismo
moderno, secondo cui “la verità è la conformità del pensiero alle
esigenze della vita”, la verità muta incessantemente col cambiare
dei bisogni soggettivi dell’uomo. Quindi la verità non esiste, ma
diviene o si fa incessantemente. Assieme alla definizione della
verità di ordine naturale cambia anche il dogma e la verità della
religione rivelata, che - essendo costantemente mutevole - cessa di
essere vera. Allora non vi è più verità e non-contraddizione, ma
tutto è relativo, soggettivo e contraddittorio. La Fede cattolica
viene rimpiazzata dal sentimentalismo soggettivistico e diventa
un’esperienza di vita religiosa, che evolve costantemente secondo
gli umori dell’uomo. L’attualità e la necessità urgente del ritorno
al tomismo consistono nel porre rimedio al disordine intellettuale,
morale e spirituale, che scaturisce dalla instabilità o moto
perpetuo degli spiriti. San
Pio X diceva che “il male di cui soffre il mondo moderno è
soprattutto un male dell’intelligenza: l’agnosticismo” (Pascendi,
1907). Dall’agnosticismo si passa al relativismo e al
soggettivismo assoluti. È per questo che il magistero della Chiesa
da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) sino a Giovanni Paolo II (CIC,
1983;
Fides et ratio,
14/9/2011)
ha ribadito la necessità di conoscere la dottrina del Dottore Comune
o ufficiale della Chiesa ed aderirvi. San Pio X ha insistito nel
corso del suo pontificato, dalla Pascendi sino al
Giuramento anti-modernista, nell’insegnare che “allontanarsi
dalla metafisica tomistica comporta un grave detrimento e pericolo”.
La vita può essere considerata realisticamente come oggettivamente
fondata nella realtà. In tal caso l’azione è vera e buona se
ordinata realmente e oggettivamente al fine ultimo. Questo può
essere giudicato come vero solo se corrispondente al reale e non ai
bisogni soggettivi di ogni uomo, che cambiano continuamente. Quindi
anche in questo caso si ritorna alla definizione classica di verità
e si abbandona quella pragmatistica ed immanentistica di Maurice Blondel e dei
modernisti. L’azione vera e buona si ridefinisce in rapporto al vero
Fine ultimo (S. Th., I-II, q. 19, a. 3, ad 2) e non
viceversa, come vorrebbe Blondel, altrimenti resteremmo impantanati
nell’agnosticismo relativistico e soggettivistico.
●L’immutabilità dell’essere, come atto ultimo di ogni essenza, fonda
l’immutabilità e stabilità dei giudizi filosofici e delle formule
dogmatiche. Se l’essere mutasse continuamente secondo le esigenze
della vita dell’uomo, i giudizi razionali e le definizioni
dogmatiche sarebbero fragili ed in constante evoluzione. Il verbo
essere, che è l’anima, il gancio o il ponte che unisce un soggetto a
un predicato, deve dare immutabilità ad un giudizio. Ora se l’essere
muta continuamente, se anche le nozioni (predicato e soggetto)
cambiano costantemente, i giudizi, i ragionamenti razionali e le
definizioni dogmatiche o di Fede cambierebbero costantemente e
continuamente, nulla sarebbe più vero e stabile sia nell’ordine
della ragione che in quello della Fede. Per fare un esempio sarebbe
come se si tentasse di tenere immobilmente unite le onde del mare
mediante un gancio elasticizzato che è in continuo movimento come le
onde stesse. Invece una nave può essere fissata sulle onde del mare
mediante un’ancora reale e salda, che si aggancia sul fondale di
terra, sotto il fluire delle onde. Questa è la differenza che
intercorre tra la “filosofia” moderna del divenire e quella classica
e scolastica dell’essere. Perciò la verità si deve definire in
rapporto all’essere, come fa la metafisica dell’esse ut actus
e il conseguente realismo della conoscenza (agere et cognoscere
sequuntur esse). La filosofia dell’azione e del divenire non dà
nessuna certezza e stabilità, ma pone solo dubbi, agitazioni e
squilibri intellettuali e morali. Così tutti i surrogati di
filosofia che si allontanano dall’essere (scotismo e suarezismo),
pur non cadendo esplicitamente negli eccessi dell’errore
soggettivistico, sono ‘armi spuntate’ con cui non si riesce a
debellare l’errore e il pervertimento dell’agire umano e la
degenerazione dell’eresia modernistica.
●L’attuale confusione dell’intelletto, dello spirito e della morale, che
è penetrata sin dentro il Santuario, richiede da parte dell’uomo la
necessità di tornare al tomismo e da parte di Dio un’azione
enormemente prodigiosa come quella del diluvio universale: “A mali
estremi, estremi rimedi”. Senza quest’intervento straordinario di
Dio l’uomo non potrebbe uscire dal “pozzo dell’abisso” di cui
parla l’Apocalisse e che venne già citato ad esempio della
gravità dell’errore del cattolicesimo liberale da Gregorio XVI nella sua
enciclica Mirari vos del 1832.
●Siccome la modernità a partire da Cartesio ha soppresso la relazione
essenziale della ragione con l’essere extramentale o reale,
l’intelletto umano non può più conoscere con certezza nulla di
oggettivo, non riesce a fondare un’etica naturale e non giunge ad
elevarsi dalle creature al Creatore. Il cogito
moderno-cartesiano parte dall’ego e si ripiega ‘ego-isticamente’
su se stesso per avviarsi verso un’esistenza disperata, che al
contrario della grazia è avangusto delle pene dell’inferno.
L’esistenzialismo disperato della filosofia nichilistica
contemporanea e post-moderna è l’esatto ribaltamento della dottrina
ascetica e mistica, la quale conduce l’anima all’unione con Dio,
tramite lo sviluppo della grazia, che è semen gloriae aeternae
o avangusto della vita eterna. L’uomo non vive più per
Dio, ma per se stesso (idealismo) o per il nulla (nichilismo) e si
avvia verso l’autismo scisso dalla realtà o l’auto-distruzione. Il
tomismo corrisponde ai bisogni profondi e veri del mondo attuale,
poiché restituisce l’amore della verità, senza la quale non si può
ottenere la carità soprannaturale e l’unione con Dio “Luce
intellettual piena d’amore” (Dante), che solo può dare la pace
all’animo umano, il quale è aperto all’infinito e “non trova requie
se non in Dio” (S. Agostino) conosciuto, amato e servito.
*
I principi fondamentali del
tomismo
1°)
Il tomismo è la metafisica
che considera ogni cosa in rapporto o alla luce dell’essere come
atto ultimo e non in rapporto al movimento, all’io, all’azione.
2°)
Esso risolve tutti i grandi
problemi mediante la distinzione di materia/forma,
potenza/atto, essenza/essere dando il primato alla forma,
all’atto e soprattutto all’essere, perfezione ultima di ogni altra
perfezione. L’essenza creata e finita (anche quella angelica) non è
il suo atto di essere, ma lo riceve e lo partecipa, essendo
realmente distinta da esso. Solo Dio è l’Essere per sua essenza;
ogni altro ente per partecipazione riceve ab Alio l’essere
nella sua essenza creata e finita. S. Tommaso insegna esplicitamente
che “l’essere è la realtà più perfetta, […] l’attualità di
tutte le cose e delle forme stesse” (S. Th., I, q. 4, a. 1,
ad 3).
3°)
Distingue nettamente
essere come atto ultimo, che perfeziona anche le essenze, dall’esistenza,
che è il prodotto o l’effetto dell’essere attuante un’essenza dando
così luogo al fatto o effetto o prodotto di ex-sistere
dell’ente; ossia l’ente esce fuori dal nulla essendo causato
efficientemente dall’essere, che perfeziona l’essenza e la rende
ente esistente in atto e realmente.
4°)
È essenzialmente
teocentrico, poiché afferma il primato dell’atto sulla potenza e Dio
è Atto puro da ogni potenzialità; inoltre afferma il primato
dell’essere su ogni essenza e Dio è l’Essere per essenza. Siccome
l’uomo è composto di materia e forma, di potenza e atto, di essenza
ed essere, egli è essenzialmente distinto da Dio, assolutamente
semplice e privo di ogni composizione, e perciò l’unico centro e
fine è Dio (“Rex et Centrum omnium cordium”) e non l’uomo,
che è solo un mezzo ordinato al fine e sottomesso a lui. Solo il
tomismo, a differenza dello scotismo e del suarezismo “scarsamente
reattivi verso le tesi più arrischiate e sovversive” (Reginaldo
Garrigou-Lagrange, Essenza e attualità del tomismo,
Brescia, La Scuola, 1947, p. 32) riesce a confutare ogni forma, sia
pur soltanto tendenziale, di panteismo ed ogni tentativo di far
coincidere teo e antropo/centrismo, tentativo riportato in auge
dall’insegnamento pastorale del concilio Vaticano II (cfr. Giovanni Paolo II,
1980, “Dives in misericordia” n.° 1[1]),
che su questo punto è in contraddizione con la sana ragione, la
Tradizione apostolica e il magistero costante della Chiesa.
5°)
L’essere per il tomismo non
è univoco (come dicono Scoto e Suarez), ma analogo. Se l’essere
fosse univoco, si ricadrebbe nell’errore del monismo di Parmenide
(ripreso da Spinoza e dall’immanentismo moderno) già risolto da
Aristotele nella Metafisica con la dottrina della distinzione
reale tra potenza ed atto. Infatti ciò che è univoco viene
diversificato solo da differenze estrinseche a lui. Ora al di fuori
dell’essere non c’è nulla. Quindi tutto sarebbe una sola cosa: mondo
e Dio. Da questa divergenza tra tomismo e scolastica decadente
(scotismo e suarezismo), che si trova all’inizio della metafisica o
della definizione della natura dell’essere, che pian piano ci fa
scendere all’Essere stesso sussistente, si giunge alla divergenza,
che si situa al vertice della metafisica o teologia naturale: per S.
Tommaso solo in Dio l’essenza e l’essere sono la stessa cosa (S.
Th., I, q. 3, a. 4), mentre per scotismo e suarezismo anche
nelle creature essenza ed essere non sono realmente distinti, ma
solo logicamente. Perciò con la loro teoria filosofica come si può
confutare il panteismo di Baruch Spinoza e di tutta la filosofia
immanentistica, secondo cui l’essere appartiene per natura alla
sostanza creata e quindi esiste una sola sostanza ed un solo essere,
che sarebbero Dio e il mondo?
6°)
Per S. Tommaso solo Dio,
l’Atto puro, è il suo proprio essere per essenza. Quindi
l’Essere divino non è ricevuto in nessuna potenza o essenza ed è
illimitato ed infinito (S. Th., I, q. 3 a. 4; ivi, q.
7, a. 1). L’essere è l’ultima attualità o perfezione di ogni altra
perfezione. L’Angelico trascende Platone ed Aristotele, che si son
fermati all’idea ed all’essenza senza risalire all’essere che le
ultima.
*
L’essere come vertice
della filosofia di tomistica e l’essenzialismo aristotelico
S. Tommaso,
perciò, è il filosofo dell’essere come atto ultimo di ogni
essenza, forma e perfezione. Per essenzialismo (o
formalismo) si vuol intendere la filosofia aristotelica, che si
ferma all’essenza o alla forma e non giunge all’atto
ultimo di ogni essenza, forma e perfezione, che è l’atto di
essere. Attenzione! Il tomismo verace, che non si ferma
all’essenzialismo o studio dell’essenze, ma lo trascende arrivando
all’essere, il quale è la perfezione dell’essenza, non significa
neppure ‘esistenzialismo contemporaneo’ o studio
dell’esistenza concreta del singolo individuo con i suoi problemi
esistenziali, ma neanche ‘esistenzialismo classico-antico’, che
viene da ex-sistere ossia uscir fuori dal nulla e dalla
propria causa e si ferma allo studio del fatto di esistere
degli enti finiti. Il tomismo genuino non nega la positività
ontologica dell’essenza o forma dei vari enti e neppure la
necessità di studiare l’esistenza positiva e reale dell’ente
creato che è il fatto di esistere, il quale è il semplice
risultato della presenza reale e positiva dell’ente nella realtà
e non va confuso con l’atto di essere, che è l’ultima perfezione
metafisica di ogni forma o essenza, termine della metafisica
tomistica, la quale trascende Platone ed Aristotele. Tra essere come
atto ultimo ed esistere come prodotto dell’essere informante
un’essenza passa la stessa differenza che tra causa ed effetto. Ora
la causa non è l’effetto e quindi l’essere non è l’esistenza.
Purtroppo questa verità fondamentale del tomismo è stata trascurata
dalla terza scolastica e padre
Cornelio Fabro[2]
ne ha fatto il suo cavallo di battaglia.
*
L’atto d’essere
L’Angelico insegna che «l’essenza, prima di avere l’atto di essere,
non esiste ancora» (De Pot., q. 3, a. 5, ad 2) e che «è
necessario che l’atto stesso di essere stia all’essenza, la quale è
realmente distinta da esso, come l’atto alla potenza» (S.
Th., I, q. 3, a. 4. Cf. De spir. Creat., a. 1). L’ente
è composizione fra essere partecipato (atto) ed essenza
(potenza). Ne proviene che l’autentico atto di essere (esse)
non va mai confuso col fatto dell’esistenza (ex-sistere),
la quale è il semplice risultato, prodotto o ‘effetto’ della
presenza dell’ente nella realtà, che non può assurgere alla dignità
di atto metafisico, il quale è causa di esistenza. Ossia
l’essenza che riceve l’essere come suo atto ultimo produce o dà
luogo all’ente, il quale è realmente esistente nella realtà (ex-sistit,
esce dal nulla ed entra nella realtà), grazie all’essere che
attua ultimamente un’essenza. Il semplice fatto
dell’esistenza o di essere presente nella realtà si può predicare
anche dei difetti, delle malattie, della morte e dei peccati: tutti
danni o deficienze degli enti, esistenti, ma non certo perfezione di
enti o ‘enti in senso proprio’. Analogamente il poter fare il male è
soltanto segno o difetto di libertà, la quale consiste
essenzialmente nel poter fare il bene. Quindi il peccato o male
morale è difetto o deficienza di vera libertà, come la malattia è
difetto di salute, ma anche segno di presenza nella realtà o
esistenza dell’ente ammalato (essentia) e non ancora morto (habens
esse). Al contrario, la possibilità di peccare è il più grave
limite della nostra libertà. Si pensi, per esempio, alla possibilità
di un ingegnere di uccidere i cittadini, sbagliando i calcoli del
cemento. L’ingegnere perfetto, invece, è colui che non sbaglia i
calcoli e fa vivere tranquilli i cittadini, così l’uomo perfetto è
colui che non pecca o non agisce moralmente male e fa il bene.
*
Dall’ente ultimato
dall’essere a Dio
È pertanto chiaro che la partecipazione degli enti all’essere (“l’ente è
un’essenza avente o partecipante l’essere”) può farci risalire a
Dio, secondo l’insegnamento di S. Tommaso: «Alla struttura
metafisica di ogni ente per partecipazione consegue la sua
dipendenza causale, o creaturale, dall’Altro» (Cf. S. Th.,
I, q. 44, a. 1, ad 1; ivi, ad 2). Ossia l’ente per
partecipazione dipende e riceve l’essere dall’Ente per essenza o
Dio. Appunto su tale partecipazione si fonda la “quarta via”
tomistica nella quale Dio è qualificato come “causa dell’essere”,
ovvero Creatore, di tutti gli enti (S. Th., I, q. 2, a. 3).
Questo atto di essere, trascende ogni essenza e forma, per cui si
deve parlare del supremo atto metafisico di essere. Il termine
“ente” esprime anzitutto e soprattutto l’essenza partecipante l’atto
di essere (Cfr. In I Sent., d. 8, q. 4, a. 2; De Ver.,
q. 1, a. 1, ad 3). Ed è perciò stesso che l’ente per partecipazione,
costituito dall’essere partecipato e dall’essenza, fonda il primo
collegamento della dipendenza causale, o creaturale, di ogni
ente finito dall’Essere infinito. Così il vero essere da San
Tommaso è riconosciuto come il costitutivo metafisico proprio di Dio
(“Ego sum qui sum”; “Javeh”); il Quale, appunto per
questo, è la Causa dell’essere, e dunque il Creatore, di tutti gli
enti. Non è difficile, allora, vedere che l’onnipresenza creatrice
di Dio negli enti presuppone ed esige la sua infinita trascendenza
su di essi tutti (Cf. S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; ivi,
I, q. 11, a. 4, ivi, I, q. 8, aa. 1-4; ivi, I, q.
105, a. 5).
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Analogia di attribuzione e
di proporzionalità
Questa trascendenza di Dio sul creato fonda anche l’analogia delle
creature con il Creatore: «somiglianza dissomigliante» e «dissomiglianza
somigliante». Infatti ogni creatura è più o meno simile a Dio in
virtù del suo atto di essere partecipato; ed è più o meno dissimile
a Dio in séguito alla sua essenza. Di qui la distinzione tra
l’analogia di attribuzione intrinseca rispetto a quella di
proporzionalità. L’analogia di proporzionalità (il sasso,
l’albero l’animale, l’uomo e l’angelo, sono analoghi a Dio
relativamente al fatto di esistere) accentua specialmente l’infinita
distanza metafisica degli enti da Dio (infatti le loro essenze
sono infinitamente lontane da quella divina). Invece l’analogia
di attribuzione (l’essere appartiene essenzialmente a Dio e solo
per partecipazione alle creature anche se realmente e formalmente o
intrinsecamente) accentua primariamente la dipendenza causale, o
creaturale, degli enti da Dio (Cf. S. Th., I, q.3, a. 7,
ad 1; ivi, I, q. 13, a. 5; Comp. Th., c. 130, n. 261).
Non bisogna perciò contrapporre i due concetti di analogia, ma
servirsene secondo i loro rispettivi compiti e scopi (primo:
accentuare l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio;
secondo: sottolineare la dipendenza causale degli enti da
Dio).
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S. Tommaso, Platone e
Aristotele
S. Tommaso trascende Platone,
giunto soltanto all’essenzialismo dell’‘idea’, come pure Aristotele, fermatosi
all’essenzialismo della ‘forma’ e della ‘sostanza’, da
entrambi presentate senza il riferimento al vero essere, che le
perfeziona ed ultima. È S. Tommaso che trascende questi due filosofi
elevando al vertice dell’essere come atto che perfeziona idea e
sostanza quanto c’è di valido in entrambi gli indirizzi (Cf. De
Subst. sep.,c. 3). Si dovrebbe dunque distinguere il tomismo
genuino dall’essenzialismo del platonismo e dell’aristotelismo per
farlo emergere nella sua genialità originale di atto di essere,
perfezione ultima di ogni forma.
*
Intelletto e volontà
La volontà è una tendenza, un desiderio o un appetito razionale, il
quale segue la conoscenza intellettuale ed è specificata
dall’oggetto conosciuto dall’intelletto e presentatole come buono,
anche se in realtà non lo è (bene apparente, male reale). Infatti
l’oggetto della volontà è il bene anche solo apparente e non può
essere il male in quanto male, perché ciò sarebbe contrario alla
natura della volontà. Ma un oggetto, prima di ‘essere buono’,
deve ‘essere’ o ‘esistere’. Quindi in
questo senso la volontà dipende dall’intelligenza: l’intelletto
conosce l’essere o la natura intima e vera del suo oggetto, mentre
la volontà tende all’essere buono o presentatole come tale. Ora
ontologicamente l’essere è anteriore all’essere buono.
Perciò in senso assoluto l’intelletto precede la volontà.
Tuttavia quando l’oggetto (per esempio Dio) è più nobile dell’anima
umana in cui risiedono l’intelligenza e la volontà, allora - in
rapporto a questo oggetto - la volontà è superiore all’intelligenza.
Infatti, l’atto intellettivo di conoscere “attira” a sé gli oggetti
conosciuti perché la loro rappresentazione entra psicologicamente o
logicamente (non fisicamente) nell’intelletto. Perciò Dio è
conosciuto secondo le capacità finite e limitate dell’intelletto
umano, ossia è rimpicciolito al livello delle nostre idee o concetti
intellettuali. La ragione umana può conoscere con certezza
l’esistenza di Dio, mediante un sillogismo che parte dagli effetti
(creature) per risalire alla Causa prima incausata (Creatore); può
giungere a conoscere anche qualche proprietà, nome o attributo di
Dio (Essere, Bene, Vero…), ma non tutta la sua Natura, che, essendo
infinita, sorpassa illimitatamente le capacità conoscitive
dell’intelletto umano ed è infinitamente sproporzionata alla
finitezza del concetto intellettuale. L’uomo non può formarsi
un’idea adeguata di Dio, altrimenti coglierebbe la sua Essenza
infinita e il suo intelletto dovrebbe essere infinito, come vogliono
gli ontologisti, ma ciò è evidentemente falso. Solo in Paradiso i
Beati vedono Dio faccia a faccia nella sua Essenza come è, ma grazie
al Lumen gloriae, che è dato da Dio all’intelletto del Beato
e lo sopraeleva soprannaturalmente alla capacità di cogliere
intellettualmente e intuitivamente la Natura infinita di Dio
(Visione beatifica). L’atto della volontà, che è una tendenza verso
un oggetto presentatole come buono, esce, invece, fuori di essa per
unirsi all’oggetto conosciuto e amato come buono e possederlo o
fruire della sua bontà. Perciò già in terra, quando la volontà ama o
desidera Dio, è perfezionata, cresce di grado, poiché esce da sé
tende e aderisce ad un oggetto infinitamente più nobile di sé.
Tuttavia bisogna fare attenzione: intelletto e volontà non si possono
considerare come due agenti separati, ma sono due facoltà di un solo
uomo, facoltà distinte ma non separate, che invece di contrapporsi
devono collaborare intimamente (come l’analogia di
proporzionalità e quella di attribuzione). Intelletto e volontà sono
intimamente legate nella medesima azione: «l’intelletto sa che la
volontà vuole e la volontà vuole che l’intelletto conosca» (S.
Th., I, q. 82, a. 4, ad 1). Esse sono legate nella libera
scelta di un fine, che già
Aristotele chiamava “intellezione appetitiva e appetito
intellettivo” (Etica Nicomachea, IV, 2). Cronologicamente
l’intelletto precede. Infatti la volontà è un appetito o una
tendenza razionale, che segue cioè la conoscenza dell’intelletto.
Negli scritti di San Tommaso d’Aquino si trova una
certa evoluzione o precisazione del suo pensiero. Sino al 1270 (Somma
Teologica e De Veritate) l’Angelico attribuisce alla
volontà la causalità efficiente e all’intelletto la causalità
finale. Invece con la questione De Malo (q. 6, articolo
unico) del 1271 san Tommaso specifica[3]:
alla volontà spetta la causalità efficiente e finalizzante;
all’intelletto spetta la causalità specificante e formale,
estrinseca o esemplare, con la quale l’intelletto presenta alla
volontà, specificandola, un oggetto conosciuto come bene, un
esemplare, un modello o un esempio da volere, il quale è condizione
essenziale affinché il bene eserciti la sua attrazione (quale
modello) sulla volontà e la volontà eserciti la sua causalità finale
e tenda a volere il fine o bene propostole come modello
dall’intelletto. Ora il bene è il fine, ma il bene è oggetto della
volontà e non dell’intelletto. Infatti ogni bene conosciuto
finitamente dall’intelletto (fosse anche Dio) non esercita
un’attrazione determinante sulla volontà, che resta indifferente e
libera ed è lei a scegliere un bene o un altro bene (reale o
apparente) come suo fine.
Cajetanus scrive: “voluntas ex se sola flectit judicium
quo vult” (In Primam partem, q. 82, a. 4). Quindi il
bene, anche se prima è stato presentato dall’intelletto come
esempio, esercita una causalità finale solo dopo che è stato scelto
liberamente dalla volontà. La proposta o l’illuminazione (come
quella di un faro), che rende possibile o occasiona la scelta del
bene, viene dall’intelletto, però la scelta o il rifiuto (il
movimento avanti o indietro, come quello del motore) vengono dalla
volontà, non ciecamente, ma razionalmente poiché la scelta è libera
e volontaria, ma valutata e deliberata dall’intelletto: prendo o
scelgo con la volontà ciò che con l’intelletto ho valutato come bene
per me. Perciò è l’intelletto - nell’ordine statico - che illumina
la volontà come causa formale estrinseca o esemplare, che specifica
la volontà, presentandole il suo oggetto: l’essere conosciuto come
buono, anche se in realtà è cattivo (S. Th., q. 9, a. 1), ma
non bisogna misconoscere che la volontà - nell’ordine dinamico o
attivo - muove l’intelletto come causa efficiente e finale (S.
Th., I, q. 82, a. 4; De Veritate, q. 22, a. 12) sia
applicandolo a questo oggetto (matematica) o a quest’altro
(filosofia) sia facendogli ponderare il lato buono di un bene finito
oppure quello cattivo, poiché l’ente-bene finito è sempre un
bonum mixtum malo. L’intelletto offre alla volontà i princìpi o
le conoscenze (l’esempio o il modello) per poter tendere verso
qualcosa (“niente è voluto se prima non è conosciuto”), le presenta
l’essere conosciuto come buono, ma tale presentazione è solo ‘conditio
sine qua non’ affinché il bene possa attrarre la volontà.
Perciò ogni atto di volontà procede - cronologicamente innanzitutto
e materialmente - da un atto dell’intelletto; tuttavia è la volontà
che tende poi - formalmente ed efficacemente - all’atto finale
dell’intelletto, che è la beatitudine, e in questo senso l’atto di
volontà è superiore a quello d’intelletto (S. Th., I-II, q.
4, a. 4, ad 2; Ivi, q. 99, a. 1, ad 3). Perciò la volontà
realizza ultimamente l’uomo intero offrendogli il suo fine, che è il
bene e la felicità (causalità finale); essa è principio di ogni
agire (causalità efficiente) e in questo senso la volontà muove
l’intelletto (S. Th., I-II, q. 9, a. 1, ad 3), ma la volontà
tende all’atto finale dell’intelletto, che è la beatitudine (S.
Th., I-II, q. 4, a. 4, ad 2).
*
La vera libertà
Nella produzione dell’atto libero vi è un influsso reciproco tra
intelletto e volontà. Ambedue sono facoltà di un unico uomo e
sarebbe falso ipostatizzare intelletto e volontà come due soggetti
agenti per se sussistenti, di cui l’uno propone e l’altro dispone
separatamente. Invece il soggetto che razionalmente propone e
liberamente dispone è l’uomo. L’uomo sceglie il fine o bene e per
mezzo del suo intelletto e della sua volontà muove l’intelletto come
causa efficiente a conoscere un oggetto piuttosto che un altro e
infine spinge l’intelletto ad emettere l’ultimo giudizio pratico. La
scelta deliberata e consapevole (volizione o elezione) costituisce
l’atto libero con cui un uomo accetta (o respinge) un determinato
bene finito come in concreto per lui fine buono e ultimo, in cui
trovare la felicità. La fase decisiva della produzione dell’atto
libero è una scelta che è dovuta all’uomo, il quale si serve assieme
dell’intelletto e della volontà: «la scelta è o un’intellezione
appetitiva o, meglio, un appetito intellettuale, e il
principio che opera tale scelta è l’uomo» (Aristotele,
Etica Nicomachea, VI, 2). La scelta è un atto di giudizio
voluto o di volizione ragionata. Il giudizio o
valutazione è atto dell’intelletto. Per giungere alla scelta libera,
che è atto di volontà, bisogna arrivare dal ‘giudizio speculativo’,
che mi presenta un oggetto (“ricchezza”) come felicità/bene/fine in
maniera assolutamente astratta, universale, valida per tutti o
teorica, a quello ‘speculativo-pratico-prossimo’, ove la
volontà spinge l’intelletto a ‘deliberare’ (decidere, interrogarsi o
stabilire) quale mezzo prendere (“lavorare o rubare”) considerando
(valutando o giudicando) se l’oggetto (“ricchezza”) sia veramente
fine buono per me e la mia felicità, concretamente, qui e adesso.
L’intelletto delibera mentre la volontà ancora si frena o si
inibisce di prorompere in un atto di adesione definitiva che vuole
ultimamente un mezzo (“non-rubare, ma lavorare”), come atto a
cogliere il fine/bene/felicità. Inoltre è la volontà che spinge
efficientemente l’intelletto a concentrare la sua attenzione su un
aspetto o un altro del bene in considerazione (“ricchezza”) e a
deliberare o decidere in maniera più approfondita quale mezzo
prendere (“non-rubare”) per giungervi. Quindi si giunge al ‘giudizio
pratico-pratico’ o ultimo pratico, che è la scelta concreta
libera e cosciente (o il rifiuto) del mezzo (“non-rubare”) atto a
farmi cogliere il fine/bene/felicità (“ricchezza”). Tale bene, che è
conosciuto dall’intelletto finitamente ed è così presentato alla
volontà, viene scelto dalla volontà come, concretamente, qui e
adesso, un bene totale o fine ultimo, in cui trovare la beatitudine.
Questa scelta è un giudizio pratico dell’intelletto, che mi fa dire
“per me hic et nunc la ricchezza è il bene assoluto, il mio
fine ultimo in cui troverò la felicità e per giungervi debbo
“non-rubare”, ma lavorare. Ora in questo ‘giudizio pratico-pratico’
intervengono cronologicamente assieme intelletto e volontà, ma
l’intelletto influisce sulla volontà come causa esemplare o formale
estrinseca (“non-rubare” è l’esempio, il modello da seguire e volere
per essere felici o ricchi); tuttavia il giudizio intellettivo
diviene pratico-pratico o ultimo poiché la volontà liberamente
spinge l’intelletto a dare l’assenso ad esso e poi la volontà
lo accetta come bene totale o fine ultimo. Infatti,
trattandosi di un bene finito, che è sempre unito ad un certo lato
spiacevole (bonum mixtum malo), la deliberazione
dell’intelletto (stabilire quale mezzo prendere:
“rubare/non-rubare”) da sé sola non può concludersi a un giudizio
definitivo o ultimo. Vi è indeterminazione da parte dell’oggetto
buono che è finito, ma vi è auto-determinazione della volontà.
Infatti “libero arbitrio” significa che la volontà è arbitra o
sceglie di prendere un mezzo (“non-rubare”) più che un’altro
(“rubare”), senza essere determinata dal giudizio speculativo o
intellettuale. L’atto libero è primariamente, formalmente e
sostanzialmente un atto di volontà, ossia emesso dalla volontà, che
è illuminata secondariamente, materialmente e accidentalmente
dall’intelletto quale causa esemplare. Allora è la volontà che
spinge come causa efficiente e finale l’intelligenza a soffermarsi
su un dato aspetto del mezzo in questione e a giudicarlo come hic
et nunc il migliore per me (“non-rubare”) ponendo fine alla
‘deliberazione’ intellettuale e giungendo alla ‘scelta libera’ della
volontà. Siccome manca l’evidenza intellettuale di fronte ad un bene
finito, allora è la volontà che liberamente muove l’intelletto ad un
‘assenso’ giudicativo e ‘sceglie’ liberamente. Questa scelta,
compiuta sotto l’influsso mutuo dell’intelletto e volontà, è
formalmente atto della volontà sia perché la scelta non è atto
intellettuale ma volitivo, sia perché la causalità efficiente della
volontà sull’assenso intellettivo è più importante di quella
esemplare illuminatrice dell’intelletto sulla volontà. Una volta
posto questo ‘giudizio pratico-pratico’ su un dato mezzo come atto
hic et ninc a farmi cogliere il bene totale e fine ultimo in
cui essere felice, allora la volontà vuole immancabilmente tale
mezzo, poiché è appetito razionale, altrimenti sarebbe appetito
irragionevole e dall’altra parte rinuncerebbe alla sua felicità, al
fine ultimo e al bene totale, ossia vorrebbe il ‘male in quanto
male’, ma ciò ripugna alla natura della volontà che è ordinata al
bene. La libertà deriva, dunque, dalla mancanza di proporzione tra
la volontà razionale, che è specificata da un Bene universale, e un
bene finito e particolare, che è buono sotto un aspetto e non-buono
sotto un altro aspetto e assolutamente sproporzionato alla ampiezza
illimitata della volontà specificata dal Bene universale (De
Veritate, q. 22, a. 5). Amare Dio, che in sé è infinito ma è
conosciuto da me finitamente, è un qualcosa che ha il rovescio della
medaglia (bene in sé, misto a male per me). Infatti per amare Dio
debbo rinnegare il mio amor proprio e quindi è un bene reale che a
me e al mio egoismo appare come un “male” apparente (S. Th.
I, q. 83, Ivi, I-II, q. 10, aa. 1-4). Ora, se è l’intelletto
a presentare alla volontà un oggetto come indifferente, ossia finito
e quindi buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto,
è, invece, la volontà che fissa l’intelletto a considerare l’aspetto
buono in sé o sgradevole per me dell’oggetto conosciuto e a farmi
giudicare pratico-praticamente e perciò scegliere
liberamente l’uno o l’altro (S. Th., I-II, q. 57, a. 5,
ad 3um; Ivi, q. 58, a. 5): “Video meliora proboque, sed
deteriora sequor”; “vedo le cose buone e le approvo
speculativamente, ma praticamente faccio quelle cattive”.
«C’è qui un influsso reciproco tra intelletto e volontà, come una
specie di matrimonio tra le due facoltà» (R.
Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, Brescia,
Queriniana, 1953, p. 203; Id., Dieu, son existence et sa nature, Parigi, Beauchesne,
1928, pp. 590-657). Ora il male morale consiste proprio nella
difformità tra giudizio speculativo e libera elezione della volontà.
Per cui il male morale o peccato non è ignoranza (Socrate),
ma cattiva volontà[4].
*
L’uomo è intelligente e
libero, non è solo intelletto né è sola volontà
Tomisticamente
non bisogna mai dimenticare che è tutto l’uomo anima e corpo, con
l’intelletto, la volontà, la sensibilità e le passioni (“nihil in
intellectu quod prius non fuerit in sensu”; “nulla entra
nell’intelletto se prima non passa attraverso i sensi”), che
conosce e vuole ed agisce, per cui bisogna educare la sensibilità e
le passioni ad obbedire alla volontà, e questa all’intelletto e
viceversa. Padre Reginaldo
Garrigou-Lagrange scrive: «se nego il valore
dell’intelligenza retta, comprometto la bontà dell’azione libera e
volontaria. La volontà deve essere educata, illuminata e rettificata
dalla sana e retta intelligenza e dal giudizio speculativo vero
circa il Fine ultimo. Non si può amare Dio, Sommo Bene e Vero, senza
la retta conoscenza della realtà. Tuttavia, l’intelletto pratico,
che sceglie i mezzi, dipende dalla buona volontà. Ognuno giudica
praticamente secondo la propria tendenza: se l’inclinazione del
proprio appetito sensibile o razionale è cattiva (l’ambizioso), il
giudizio pratico non è retto (per me qui e adesso è bene rubare).
La verità del giudizio dell’intelletto pratico dipende dalla buona
volontà» (La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana,
1953, p. 203).
*
L’importanza di una buona
volontà
San Tommaso
insegna: «Penso […] perché voglio pensare» (De
malo, q. 6, a. 1; Summa contra Gent., lib. I, cap. 72).
Se mi manca la buona volontà non metto a frutto l’intelligenza o la
metto malamente a frutto per fare il male. Perciò si potrebbe vedere
l’assioma nihil volitum nisi praecognitum anche dal lato
opposto del nihil cognitum nisi praevolitum. Se non voglio
pensare o conoscere, non penso e non conosco. Entrambe sono veri:
l’intelletto è il faro dell’auto ma se non voglio girare la chiave
del motore ed accendere le luci, il faro resta spento. Come pure, se
accendo solo il motore senza illuminare la strada, mi schianto
sicuramente, poiché la volontà è una facoltà cieca. Per cui bisogna
coordinare e far collaborare intelletto e volontà senza
contrapporle. «Mediante la volontà ci gioviamo di tutto ciò che si
trova in noi. Per cui è chiamata buona non la persona
intelligente, ma quella che ha la buona volontà» (S. Th.,
I, q. 5, a. 4, ad 3). Infatti la nostra anima mantiene la grazia
infusa da Dio in forza della buona volontà (S. Th., I, q. 83,
a. 2, sed contra). La libertà vera consiste nella scelta
libera di voler amare Dio e «più amiamo Dio, più siamo liberi»
(In III Sent., dist. 29, a. 8, quaestiunc. 3, n. 106, sed
contra). Per cui «la vera libertà è libertà dal peccato;
mentre la vera schiavitù è la schiavitù del peccato» (S.
Th., II-II, q. 183, a. 4). Se l’intelligenza rende l’uomo dotto,
la volontà lo fa virtuoso. Il peccato, perciò, è l’obitorio della
vera libertà. “Il vero filosofo è colui che ama Dio” (S.
Agostino, De Civitate Dei, l. VIII, c. 1); “L’unica
libertà è la vittoria sul peccato” (Cornelio Fabro, Vangeli delle Domeniche, Segni, 2011,
II ed., p. 273); «L’uomo poco sapiente e di scarsa intelligenza
ma timorato di Dio, è migliore di chi è molto intelligente ma
trasgredisce la legge divina» (Sir., XIX, 21). Come
d’altra parte insegna anche il Vangelo: è “la Verità che vi farà
liberi”, poiché chi cade nell’errore è schiavo di esso; “Caritatem
facientes in veritate” (San Paolo). Perciò non si può
disgiungere la retta conoscenza dalla buona volontà. “Ubi
justitia et veritas, ibi caritas”.
*
Non separiamo ciò che Dio
ha unito
Ecco l’importanza di non separare ciò che Dio ha unito in matrimonio:
intelletto e volontà, ma di farli cooperare unitamente e
subordinatamente come causa formale estrinseca che illumina
(intelletto) ed efficiente e finale che muove (volontà) l’uomo a
conoscere il vero e ad agire bene. L’uomo è composto di anima (in
cui si trovano l’intelletto e la volontà) e corpo (in cui vi sono la
conoscenza sensibile: sensi esterni, interni e l’appetito sensibile:
irascibile e concupiscibile). La sola intelligenza senza la buona
volontà porta al male, la sola volontà senza conoscenza è cieca e
devia, sbanda, si schianta. Inoltre le passioni sensibili debbono
essere educate a rispondere positivamente alla buona volontà per
essere applicate alla conoscenza del vero. Altrimenti prendono il
sopravvento e trascinano l’intelletto e la volontà verso oggetti
falsi e cattivi. Occorre coltivare il corpo con i suoi sensi esterni
(vista, tatto, gusto, olfatto e odorato) ed interni (memoria e
fantasia…), l’appetito sensibile (irascibile e concupiscibile), le
passioni (ira, odio, amore, timore…); poi l’intelletto a conoscere
il vero e rifiutare il falso ed infine la volontà ad amare il bene
ed odiare il male. “Fa il bene ed evita il male, questo è tutto
l’uomo”. Non siamo solo ‘ragione pura’, nemmeno ‘volontà assoluta’,
neppure solo istinti, sensi, passioni, ma un misto di queste cose
che debbono lavorare assieme, subordinatamente a farci cogliere il
nostro vero Fine ultimo conosciuto ed amato. L’Imitazione di
Cristo ci insegna che il giorno del Giudizio non ci verrà
chiesto ciò che abbiamo letto, detto o scritto, ma ciò che abbiamo
voluto e fatto. L’ideale è la retta scienza accompagnata dalla buona
volontà (“doctus cum pietate, pius cum doctrina”), conoscere
per amare e voler conoscere per poter amare sempre meglio. Senza
dimenticare che abbiamo un corpo con i suoi sensi e le passioni, che
vanno educate e innalzate dalla conoscenza amorosa del Fine ultimo e
non represse, altrimenti scoppiano e si rivoltano. “Chi vuol far
l’angelo, finisce per diventare una bestia”. L’uomo è un’unità
sostanziale di anima e corpo, sensibilità, intelletto/volontà e
tutto deve essere utilizzato in armonia e gerarchia allo scopo
finale. L’uomo completo dovrebbe tendere, pian piano e soprattutto
con l’aiuto di Dio, ad acquisire una intelligenza profonda,
chiara, riflessiva, penetrante, agile, viva e rapida, non
superficiale, non fredda, arida o egoista, ma accompagnata da un
caldo e intenso amore di Dio e del prossimo ed una volontà
forte, ferma, costante, attiva e tenace, non timida, ma impavida e
accompagnata dalla bontà di cuore, evitando la pignoleria e la
meticolosità ristrette, la durezza, l’ostinazione, l’insensibilità.
Infine la sensibilità, controllata da intelletto e volontà,
dovrebbe arricchire l’appetito irascibile con la benignità,
la serenità, la compassione, l’affabilità e l’espansività, senza
durezza di cuore e l’appetito concupiscibile con la
padronanza di sé e la flemma, la costanza, la metodicità, la
perseveranza e la prudenza, schivando l’angelismo come pure la
schiavitù o la dipendenza dalle passioni o dagli istinti disordinati[5].
Per cui intelletto, volontà e sensibilità debbono concorrere al
perfezionamento dell’uomo assieme e subordinatamente.
*
Senza metafisica crolla la
morale
Tolto l’ordine metafisico è tolta la normatività, la responsabilità,
l’imputabilità e perciò vengono meno le basi dell’ordine morale.
Così come tolto l’essere vien meno anche l’agire. Parimenti è tolto
l’ordine della libertà: nella scelta del fine la volontà muove se
stessa e precede l’intelletto. L’autentica filosofia non si riduce
affatto a un esercizio di pensiero, pur indispensabile, ma è
esercizio di buona volontà disposta ad accogliere e riconoscere la
verità dell’ente, dell’atto di essere e soprattutto dell’Essere
perfettissimo. “Il vero filosofo è colui che conosce alla luce
della Causa prima, giudica rettamente e ordina ogni cosa al proprio
fine e soprattutto la sua vita, vivendo virtuosamente”.
Mi sembra che questi possano essere considerati i rudimenti essenziali
della metafisica e dell’etica tomistica, che ci aiutano a
conoscere il vero per vivere bene e cogliere il nostro
Fine. Che Dio ci conceda di poter conoscere sempre meglio tali
princìpi per metterli in pratica e giungere a vederlo faccia a
faccia.
d. CURZIO NITOGLIA
29 ottobre 2011
[1] «Mentre le varie
correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono
state e continuano ad essere propense a dividere e persino a
contrapporre il teocentrismo con l’antropocentrismo, la Chiesa
[conciliare, ndr] […] cerca di congiungerli […] in maniera
organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e
forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio».
[2]
La nozione
metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino,
[1939], Segni,
2005, IV ed. Id.,
Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino
[1961], Segni, 2010, II ed.
[3] Cfr. O. Lottin,
Psychologie et morale aux XII et XIII siècles, Gembloux,
1942, I, pp. 225-389; Id., Morale fondamentale, Tournai, 1954, pp. 96-100.
[4] Cfr. C. Fabro,
Riflessioni sulla libertà, Rimini, 1983.
[5] Cfr. A. Tanquerey,
Compendio di teologia ascetica e mistica, Roma, Desclée,
VIII ed., 1954, A. Royo
Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma,
Paoline, 1960.