giovedì 29 marzo 2012

Comunicato della Casa Generalizia della San Pio X




Mons. Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità San Pio X, in seguito al suo incontro, il 16 settembre 2011, con il Cardinale William Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, esorta i fedeli a raddoppiare il fervore nella preghiera e la generosità nei sacrifici, nella Settimana Santa e nelle settimane che seguiranno la Festa di Pasqua, affinché si faccia la Volontà divina ed essa sola, secondo l’esempio datoci da Nostro Signore Gesù Cristo nell’Orto degli Ulivi: non mea voluntas, sed tua fiat (Luca 22, 42). 

Più che mai si rivela indispensabile la Crociata del Rosario, iniziata a Pasqua del 2011 e che deve concludersi alla Pentecoste del 2012. Per questo la Fraternità San Pio X, che ricerca unicamente il bene della Chiesa e la salvezza delle anime, si rivolge fiduciosa alla Santissima Vergine Maria, affinché le ottenga dal suo Divino Figlio i lumi necessari per conoscere chiaramente la Sua volontà e per compierla coraggiosamente. Invitiamo i fedeli ad offrire una Santa Comunione per questa intenzione. Desideriamo che essi facciamo interamente loro, in pensiero ed opere, la preghiera che Nostro Signore ha chiesto di rivolgere al Nostro Padre dei Cieli: Sanctificetur nomen tuum, adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra; sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!
Menzingen, 29 marzo 2012 
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 Fonte: DICI

Risposta a Padre Cavalcoli




Note a margine del commento di Padre Cavalcoli
circa la lettera aperta di don Nicola Bux a Mons. Fellay
e la risposta pubblica di Mons. Williamson

di Belvecchio

Com’era prevedibile, ecco giungere puntuali le precisazioni di Padre Giovanni Cavalcoli (24 marzo 2012 – sito Riscossa Cristiana) riguardo della Lettera aperta indirizzata da Don Nicola Bux a Mons. Bernard Fellay (19 marzo 2012 - vedi). Puntualizzazioni che fanno particolare riferimento alla risposta pubblica a questa lettera di Mons. Richard Williamson (22 marzo - vedi).

Il Padre Giovanni Cavalcoli è una simpatica persona, molto appassionato nei suoi convincimenti, e a volte questa sua foga lo porta a scantonare un po’, magari inavvertitamente.
Com’è esatto che don Nicola Bux si è rivolto, chiaramente e correttamente, a Mons. Fellay, quale Superiore Generale della Fraternità San Pio X, e insieme a tutta la stessa Fraternità, così è del tutto inesatto quanto dice Padre Cavalcoli: che la risposta di Mons. Williamson sia stata formulata “a nome della Fraternità”.
Se Padre Cavalcoli avesse fatto attenzione alla formulazione di questa risposta, si sarebbe accorto che Mons. Williamson apre la sua risposta dicendo, chiaramente e correttamente: “Essendo uno dei sacerdoti della FSSPX ai quali Lei si è rivolto, mi permetta di esprimerLe la mia opinione”.
Ora, dal momento che Padre Cavalcoli è una persona istruita e dimostra di essere attento ai contenuti degli scritti che esamina, com’è possibile che gli sia sfuggita questa importantissima precisazione di Mons. Williamson?
Evidentemente, Padre Cavalcoli ha colto l’opportunità della risposta di Mons. Williamson, per far dire alla Fraternità ciò che vuole lui, secondo uno spirito che lo anima da diverso tempo e di cui già diede prova, per esempio, al tempo della Nota Introduttiva alla riedizione di Iota Unum di Romano Amerio (Fede e Cultura, 2009), dove cercò di far dire ad Amerio ciò che era caro a lui stesso. Non è un caso che il titolo dell’articolo di cui qui stiamo parlando sia tanto semplice quanto improprio dato il suo contenuto: Mons. Bux e Mons. Fellay.

Per quanto possa sembrare un elemento critico poco importante, questo nostro appunto aiuta a comprendere quale sia l’impostazione che regge questo scritto di Padre Cavalcoli: egli parla a nome di tutti, di Bux, di Fellay, di Williamson, del Papa, del Concilio, del Magistero, della Tradizione, della Chiesa.

Chi ha seguito gli scritti di Padre Cavalcoli sa che egli ha un convincimento di base, il Concilio non può sbagliare perché assistito dallo Spirito Santo, il Magistero non può sbagliare perché assistito dal Papa, il Papa non può sbagliare perché è il Papa. Ergo, tutti quelli che parlano di errori del Concilio, di errori del Magistero e di errori del Papa sono dei protestanti.
La nostra è una semplificazione eccessiva, certo, ma ecco cosa scrive Padre Cavalcoli.

«Osservo, d’altra parte, che l’attaccamento eccessivo ed unilaterale dei lefevriani alla Messa Tridentina dipende dalla loro incapacità di apprezzare la riforma conciliare vedendo in essa una profanazione della liturgia, mentre questa si dà certamente nell’interpretazione rahneriana della liturgia, ed inoltre dipende da una visione arretrata della dottrina cattolica, visione incapace di riconoscere nelle dottrine del Concilio un approfondimento ed un’esplicitazione della medesima dottrina cattolica. E’ in sostanza mutatis mutandis lo stesso atteggiamento che assunse Lutero, benché i lefevriani si dichiarino avversari di Lutero in nome del Concilio di Trento. Anche Lutero, ritenendosi illuminato dallo Spirito meglio del Papa, non faceva tanto una questione di comunione ecclesiale o di prassi cristiana o liturgia, quanto piuttosto della verità del Vangelo o, come egli diceva, della Parola di Dio. I lefevriani parlano di “Tradizione” e di dogma anziché di “Scrittura”, ma il metodo e l’atteggiamento verso Roma sono uguali».
Come sostiene da tempo Padre Cavalcoli, l’unico che abbia interpretato male di Concilio sarebbe Rahner, tutti gli altri lo avrebbero interpretato bene, riconoscendo nelle dottrine del Concilio “un approfondimento ed un’esplicitazione della medesima dottrina cattolica”. Cosa che non riesce a fare la Fraternità. Padre Cavalcoli non spiega perché la Fraternità non riesca a farlo, quantomeno secondo lui, si limita solo ad affermare che essa assume “lo stesso atteggiamento che assunse Lutero”. Questa affermazione, che non tiene minimamente conto di quanto argomentato in questi 40 anni da tanti altri teologi, né di quanto affermato dallo stesso Benedetto XVI nel famoso discorso alla Curia del dicembre 2005, si rivela per quella che è: un personale pregiudizio di Padre Cavalcoli.
È notorio, infatti, che non c’è solo qualcuno, come Rahner, che abbia interpretato male il Concilio, ma c’è tutta una corrente di pensiero (e di azione) che ha prodotto una “ermeneutica della rottura”, dice il Papa; una corrente di pensiero che appartiene alla gerarchia cattolica, una corrente di pensiero che è propria di vescovi e cardinali e papi, senza la quale non si sarebbe potuta affermare quella lettura del Concilio che lo vuole come una rottura con la Tradizione.
Secondo Padre Cavalcoli, invece, gli unici che hanno parlato e parlano di rottura sarebbero Rahner e i “lefebvriani”, i quali, com’è risaputo, sono dei supermodernisti, l’uno, e dei protestanti, gli altri.

Noi, per ragioni di spazio, semplifichiamo e schematizziamo, ma Padre Cavalcoli ha scritto dei libri interi per sostenere le sue semplificazioni e le sue
schematizzazioni.

«Vorrei quindi far notare garbatamente a Mons. Bux che per quanto importante e speriamo utile sia il suo appello, la questione di fondo per noi cattolici e per la stessa S. Sede, nelle sue trattative con i lefevriani, non può limitarsi ad un generico per quanto fervido e sincero invito all’unità, all’obbedienza e al ritorno, ma comporta la capacità della Commissione pontificia incaricata delle trattative di convincerli che col Concilio la Chiesa non è affatto uscita dal sentiero della verità, non è caduta nell’eresia, non ha tradito la Tradizione, ma al contrario ha confermato il dogma e la Tradizione ed anzi li ha meglio illustrati e li ha esplicitati in un linguaggio moderno, assumendo quanto di valido c’è nel pensiero moderno (pur condannandone gli errori) ed andando incontro alle necessità del nostro tempo, proprio in vista di una nuova espansione del cristianesimo nel mondo».

Questo convincimento di Padre Cavalcoli è talmente semplice e chiaro che si rimane stupiti di fronte al fatto che in questi 40 anni del post-concilio ci siano state diecine di firme autorevoli che hanno spiegato, a più riprese e da angolazioni diverse, che le cose stanno esattamente all’opposto; firme che non appartengono alla Fraternità.
Peraltro, si rimane stupiti anche del candore di Padre Cavalcoli, quando afferma tranquillamente che il Concilio assunse “quanto di valido c’è nel pensiero moderno”, e quando addirittura sottolinea, con due parentesi, che il Concilio avrebbe condannato gli errori del pensiero moderno.
Tanto candore ci appare più come un abbaglio che come una considerazione ponderata, anche perché Padre Cavalcoli non precisa come e quando si sia prodotta quella “nuova espansione del cristianesimo nel mondo”, in vista della quale il Concilio avrebbe assunto “quanto di valido c’è nel pensiero moderno… andando incontro alle necessità del nostro tempo”. Evidentemente a lui è sfuggita l’inezia dei seminari e dei conventi svuotati a partire dal Concilio, nonché la sciocchezzuola delle chiese deserte o quasi, il tutto prodottosi sempre a partire dal Concilio; e soprattutto gli è sfuggito il fatto che, nonostante la “nuova espansione del cristianesimo nel mondo” messa in essere dal Concilio, Giovanni Paolo II abbia parlato di necessità di una nuova evangelizzazione e Benedetto XVI abbia addirittura creato un apposito Pontificio Consiglio. 
Insomma, qualcosa non torna; tranne che con l’espressione “espansione del cristianesimo” Padre Cavalcoli non voglia intendere, in termini conciliari e positivi, la continua affermazione delle sette cristiane di ogni marca in quello stesso mondo che prima del Concilio era cattolico. Fenomeno che ben conoscono, per esempio, i vescovi di quell’area del mondo che un tempo faceva capo come lingua e come cultura alla “cattolicissima Spagna”. Se è questo che intende, non si può non dargli ragione: il Concilio è davvero stato il propulsore di questa singolare espansione del cristianesimo spurio nel mondo.
Quanto poi agli errori del pensiero moderno condannati dal Concilio Vaticano II, si tratta di una notizia decisamente importante ma altrettanto decisamente segreta e nota solo a lui, poiché non v’è traccia di condanna alcuna nei documenti del Concilio. Anzi, tanti altri competenti in materia di Concilio Vaticano II è da 40 anni che scrivono che il Concilio, avendo assunto molti elementi del pensiero moderno, ha finito con l’assumerne inevitabilmente anche gli errori.
Può darsi che Padre Cavalcoli abbia ragione e questi altri abbiano torto, ma a guardare lo stato complessivo del mondo cattolico, oggi, resta da capire ove si collochi la fonte di tanto sconquasso, se non nel Concilio Vaticano II e nelle sue applicazioni successive.

«Non dovrà dunque essere Roma a correggersi, ma questo dovere, da compiersi con umiltà e fiducia, spetta soltanto ai seguaci di Mons. Lefebvre, che devono convincersi che le dottrine del Concilio - per quanto forse possa sembrare qua e là - in realtà non rompono con la Tradizione ma sono in continuità, ed anzi, come ho detto, ne sono una spiegazione ed un’esplicitazione, tanto che sarebbe fuori della verità cattolica proprio chi si opponesse a quelle dottrine».

Convincimento tipicamente “cavalcoliano”, che continua a non tenere conto perfino dello stesso Vaticano e dello stesso Papa, che continuano a ripetere e a mettere per iscritto che è lecito esprimere riserve su molti punti del Concilio e pretendere che essi vengano letti e compresi solo alla luce della Tradizione; a riprova del fatto che i documenti del Concilio, di per sé, non convincono della continuità dottrinale con quanto la Chiesa ha sempre insegnato, cosa che per un Concilio è molto grave.
Perfino nel famoso discorso alla Curia del dicembre 2005 il Papa non parla di continuità, ma di “ermeneutica”, cioè non afferma, come pretende Padre Cavalcoli, che vi è continuità, ma che occorre servirsi di una interpretazione che tenga presente che nella dottrina della Chiesa non può esservi rottura, ma solo continuità. Il che significa che la continuità non è manifesta e forse neanche realmente presente: i documenti del Concilio si è costretti a spiegarli a posteriori come fossero in continuità, perché a priori non lo sono, anzi si prestano facilmente ad essere letti e assimilati secondo una logica della rottura.
E questa sarebbe la caratteristica di un magistero solenne come quello di un concilio ecumenico!
Qualcosa non torna.
«Tutto ciò vuol dire, purtroppo, che nella questione lefevriana non c’è in gioco tanto lo scisma, come spesso si crede, ma la questione è ancora più grave e radicale: questi fratelli sono caduti nell’eresia nel momento in cui accusano le dottrine del Concilio di essere eretiche. E’ vero che il Concilio non definisce nuovi dogmi ed è vero che eretico è soltanto chi si oppone ad un dogma definito. Ma eresia può esser anche accusare di eresia le dottrine di un Concilio, le quali, anche se non definite, tuttavia trattano materia di fede in quanto sviluppano dati della Rivelazione precedentemente definiti dalla Chiesa o contenuti nella Tradizione».

Ed ecco un altro vecchio ritornello “cavalcoliano”: chi non crede nelle dottrine del Concilio Vaticano II come in un dogma, cade nell’eresia. E i “lefevriani” “sono caduti nell’eresia”.
Non è una enormità, si tratta di un concetto che Padre Cavalcoli enuncia sempre quando parla con qualcuno: o si crede nelle dottrine del Concilio Vaticano II come fossero un dogma o non si è cattolici; chiunque si permette di dissentire da questo suo enunciato “non ha capito che cosa Roma ci insegna”, cioè è un cretino.
Sappiamo che Padre Cavalcoli non darebbe del cretino ad alcuno, ma è risaputo che egli si rivolge a tutti coloro che dissentono da lui come fossero incapaci di intendere e di volere.

Tant’è che egli si chiede:

«Chi è che sbaglia in fatto di fede? La Chiesa del Concilio Vaticano II o la Fraternità S. Pio X? E’ questa che deve correggere Roma o sta a Roma correggere i lefevriani? Chi è il supremo custode ed interprete della Tradizione? Roma o Mons. Lefebvre?».

Il che significa che, secondo lui, tutti coloro che in questi 40 anni hanno sollevato e continuano a sollevare riserve sui documenti del Concilio e sui successivi documenti del Magistero, hanno solo perso tempo e continuano ad esercitarsi per diventare buoni eretici. Senza contare che, a proposito di questa storia del supremo custode e interprete, che continua a non custodire e a non interpretare, a tutt’oggi non esiste un formale pronunciamento romano, nonostante lo esiga la terribile crisi in cui versa la Chiesa e lo chiedano da alcuni anni eminenti personalità cattoliche.
È una cosa questa che sembra non interessare Padre Cavalcoli, che invece continua a parlare come se Roma si fosse definitivamente pronunciata.

Per intanto sappiamo solo dei pronunciamenti di Padre Cavalcoli, tali che, se dipendesse da lui, scomunicherebbe per eresia non solo i “lefevriani”, ma anche tutti i cattolici che come loro e come noi non sono d’accordo con lui.

L’ultima parte di questo articolo è meno interessante.
Padre Cavalcoli afferma che «il famoso messaggio di Fatima relativo alla conversione della Russia, non pare essere più di attualità» e che comunque «resta pur sempre una “rivelazione privata”» che «la Chiesa ha sempre la facoltà e il diritto di giudicare e modificare», poiché in definitiva Maria SS.ma, Madre di Cristo, è solo una «messaggera celeste».
Tutto è possibile, anche che Padre Cavalcoli abbia ragione, ma ci sembrano davvero un po’ troppo miserelle queste precisazioni in bocca ad un teologo.

Un’ultima considerazione.
I valori della pace e della riconciliazione, dice Padre Cavalcoli, sono “vitali”, ma «possono realizzarsi solo nella piena obbedienza alla sana dottrina - non importa se antica o moderna - che ci viene insegnata dalla Santa Madre Chiesa di ogni tempo, compreso l’oggi, anzi si potrebbe dire soprattutto di oggi, perché è nell’oggi della Tradizione che la sacra Tradizione si presenta con la sua massima attuale esplicitazione».

Non ce n’era certo bisogno, ma con questa espressione Padre Cavalcoli ha voluto offrirci la corretta chiave di lettura del suo articolo: «è nell’oggi della Tradizione che la sacra Tradizione si presenta con la sua massima attuale esplicitazione». 
La “sacra Tradizione”, dice lui, trova la sua massima attuale esplicitazione “nell’oggi della Tradizione”, poiché, diciamo noi, è risaputo che esiste un oggi della Tradizione, un ieri della Tradizione e un domani della Tradizione, tali che la Tradizione non è mai sempre e solo la “sacra Tradizione”, ma una Tradizione che è di oggi, di ieri o di domani.
Sembra un giuoco di parole, e invece non lo è, qui Padre Cavalcoli afferma che più tempo passa più la “sacra Tradizione” trova una “massima attuale esplicitazione”, che sarà sempre più massima e sempre più attuale in diretta corrispondenza col fluire del tempo. Questo concetto è uno di quelli direttamente mutuati dal mondo moderno, secondo l’insegnamento del Vaticano II: ogni tempo ha la sua verità. Una verità che in qualche modo ha le sue radici nell’oscurità precedente e che trova la sua “massima attuale esplicitazione” solo nell’oggi di questa stessa verità. Concetto invero alquanto criptico, ma che in definitiva spiega che la “sacra Tradizione”, cioè la trasmissione dell’unico insegnamento di Gesù, evolve col tempo, in modo tale che l’“oggi della Tradizione” possa continuamente differire dall’ieri della Tradizione in attesa che differisca ulteriormente nel domani della Tradizione.

Per finire dobbiamo spiegare brevemente perché ci siamo presi la briga di esaminare questo articolo di Padre Cavalcoli. 
In esso si trova uno strano crescendo: non più la Fraternità disubbidiente, non più la Fraternità scismatica, ma la Fraternità eretica. I seguaci di Mons. Lefebvre sarebbero degli eretici che devono ritrattare, pena la scomunica e forse la dannazione eterna.
Perché tanto accanimento in Padre Cavalcoli, perfino clamorosamente in contrasto con quanto affermato dal Vaticano?
Nel chiudere il nostro articolo sulla Lettera aperta di don Nicola Bux, ci siamo chiesti: Si fa peccato a pensare che, forse, in fondo in fondo, sia stato proprio questo il più intimo intento di don Nicola Bux? Con riferimento al fatto che si potrebbe pensare che le sollecitazioni rivolte da lui alla Fraternità potessero essere parimenti rivolte al Vaticano.
Ora, non è detto che si tratti proprio di questo, ma abbiamo l’impressione che il crescendo espresso da Padre Cavalcoli tradisca il sospetto, suo e di altri che ragionano come lui, che Roma possa davvero tagliar loro l’erba sotto i piedi e regolarizzare unilateralmente la Fraternità “così com’è”, mandando a carte quarantotto tutte le loro profonde considerazioni e spedendo al macero i loro articoli e i loro libri. 
In vista di una tale possibilità è umanamente comprensibile che Padre Cavalcoli e compagni cerchino di alzare la posta: i “lefevriani” sono peggio dei protestanti… i “lefevriani” sono i peggiori eretici… i “lefevriani” vogliono distruggere la Chiesa… i “lefevriani” vanno scomunicati e basta!
Altro che accordi! Altro che preamboli! Altro che ricomposizione della frattura! Altro che storie! Buttateli fuori, questi terribili nemici del Vaticano II, del Papa e della Chiesa!

“Parlami suocera e sentimi nuora”?.
Con chi ce l’ha veramente Padre Cavalcoli?

Fonte: Una vox

Gnocchi e Palmaro scrivono sul caso del signor Enzo Bianchi


Ah, il caso Enzo Bianchi. Grazie monsignor Livi per averne parlato con tanta chiarezza. Questa faccenda del signor Bianchi detto fratel Enzo, è davvero una delle questioni che mostrano come sia ridotta questa povera Chiesa dove ciò che non è cattolico vale quanto, e anche più, della buona e sana dottrina. Con il tragicomico risvolto della censura rivolta con cattiveria, arroganza e, diciamo, poca lucidità contro chi osi denunciare l’assurdità della situazione.
Ma un grazie va anche al dottor Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, per essere stato così sgradevole e, diciamo, poco lucido nel censurare monsignor Livi. Grazie davvero perché, se ancora fosse stata necessaria una prova del disastro, il dottor Tarquinio l’ha messa in bella copia nero su bianco: un’autocertificazione dello stato di coma del mondo cattolico. A questo proposito, avevamo pensato di scrivere qualcosa sul signor Bianchi, priorissimo della suopercomunità di Bose. Poi, nel nostro archivio, abbiamo trovato un articolo scritto per il Foglioqualche tempo fa. Visto e considerato che fratel Enzo dice e scrive con successo da anni sempre le stesse cose, abbiamo pensato che fosse ancora di attualità e potesse servire a rafforzare l’iniziativa di monsignor Livi che, se fossimo in un mondo cattolico serio, dovrebbe diventare una vera e propria campagna. Magari guidata dai vescovi: almeno qualcuno. Per la cronaca, l’articolo uscì con titolo “Bose dell’altro mondo”.
Alessandro Gnocchi Mario Palmaro

Prima, la notizia buona: chi avesse già speso 9 euro per acquistare La differenza cristiana di Enzo Bianchi, ora può risparmiarne 10 evitando di mettere nel carrello Per un’etica condivisa, appena dato alle stampe sempre da Bianchi. Complessivamente, 1 euro guadagnato poiché, se La differenza cristiana è zuppa, Per un’etica condivisa è pan bagnato. Anche nel suo ultimo libretto, il Priore di Bose mena il torrone del cristianesimo minimale buttandoci dentro come canditi tutti quei termini che colpiscono nel profondo i cattolici tentati dall’esserlo sempre meno: l’Ultimo, lo Straniero (in maiuscolo), polis, agorà, ananké (in corsivo), parresia (in tondo) e poi profezia. Tanta profezia, anch’essa in tondo, ma scritta con forza tale da creare un vortice che trascina il lettore in un mondo nuovo, un cristianesimo altro, una spiritualità purissima che manifesteranno il regno di Dio qui e subito, perfettamente. Purché si faccia come insegna fratel Enzo. Anzi, come impone fratel Enzo. Perché la sua scrittura, contrariamente al messaggio minimale che contiene, è tutt’altro che mansueta. Si prenda un suo libro e si contino le frasi che iniziano con un “Sì,”. Quando il ragionamento perde qualche colpo, quando bisogna imprimere nelle testoline dei lettori il concetto giusto, fratel Enzo, come un vecchio marpione dell’omiletica che incespica sul pulpito o un navigato caporedattore di giornale popolare che non riesce a venirne fuori con un titolo, ci infila il suo bravo “Sì,”. Dopo il “Sì” ci vuole sempre la virgola, che irrobustisce la pagina.
Provare per credere. La differenza cristiana, pagina 77, settima riga: “Sì, l’annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo”. Togliete quel “Sì,” e avrete ridotto a un decimo la forza del messaggio, che, detto per inciso, suona tanto come un insulto ai milioni di martiri.
Il Priore di Bose è tutto qui, nel suo dire il quasi nulla con molta forza, nel suo attaccare il dogma mostrandolo intatto ma vuoto. Un “vivere doppio”, come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa tessendone l’elogio. Un “vivere doppio che è piuttosto un vivere-tra. Tra il mondo e ciò che non è del mondo. Tra adesione alla polis e distacco”. E come si potrebbe definire, se non un vivere-tra, quello di fratel Enzo? Fa l’editorialista del giornale storico della famiglia Agnelli e combatte il capitalismo, scrive sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana e bersaglia la gerarchia, commenta il Vangelo su Famiglia Cristiana e proclama le verità altrui, fa il monaco solitario ed è sempre in viaggio ai quattro angoli del mondo, profetizza nell’iperuranio della teologia engagé e si occupa della legge sugli immigrati.
Un vivere-tra che segna fin dal principio la comunità fondata a Bose, tra Ivrea e Biella, da Enzo Bianchi, classe 1943, dottore in economia e commercio. Era un simbolico 8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Concilio Vaticano II. Bose divenne punto d’incontro tra persone di entrambi i sessi appartenenti al cattolicesimo, al protestantesimo e al mondo ortodosso. E subito ne scaturì il carisma di punta avanzata dell’ecumenismo, di un vivere-tra teologico che fino a oggi non ha avuto alcun riconoscimento ecclesiastico. Non esiste istituto del diritto canonico della Chiesa cattolica che contempli un’entità di tal genere. Se al cattolico ordinario questo può apparire strano, a Bose vi diranno che è profetico. Il fatto che la loro comunità non possa essere contemplata dentro la struttura di questa Chiesa significa solo che la struttura di questa Chiesa deve mutare: troppo gerarchica, costantiniana, fondata sul potere, vecchia. Insomma, non è profetica, non è in grado di comprendere e trasmettere il vero messaggio evangelico. Tanto che, nella Regola di Bose si legge: “Nessuna comunità e nessuna persona possono realizzare ed esaurire tutte le esigenze dell’Evangelo. Solo la chiesa universale nella sua completezza storica può esprimere la totalità degli appelli contenuti in esso”.
Dal che parrebbe che “la chiesa universale nella sua completezza storica” non corrisponda alla Chiesa cattolica. Tanto che laRegola si affretta a dire al fratello e alla sorella di guardarsi bene dall’abbandonare la confessione di provenienza per farsi cattolici. Ma tutto ciò viene detto con tale mitezza e tale soavità e suona tanto bene che il cattolico poco accorto finisce per rimpiangere di essere stato battezzato nella Chiesa di Roma. Se non è così, bisogna che a Bose riscrivano la Regola e usino termini comprensibili a tutti. Però riesce difficile pensare di essersi sbagliati quando, poco più avanti si legge che il Priore, il “compaginatore della koinonía”, è colui che “spezza e interpreta la Parola per la comunità nelle varie congiunture in cui essa si viene a trovare”. Il povero cattolico medio, qui, è costretto a cogliere la contrapposizione tra lo spezzare il Pane Eucaristico e lo spezzare la Parola che spaccò in due la Cristianità ai tempi di Lutero. Ma l’abilità di Bose, della sua Regola e del suo Priore sta nel non arrivare fino in fondo: suggeriscono. E il colpo da maestro di Bianchi sta nell’usare questo linguaggio e nel praticare questi temi come se la vita della Chiesa fosse già mutata. “Ma come” sembra dire ai poveri cattolici medi “siete ancora tanto indietro? Non soffia ancora in voi lo spirito della profezia?”.
Davvero bravo, perché con questo metodo è arrivato ovunque, dalle parrocchie illuminate alla predicazione degli esercizi per gli alti gradi della gerarchia, da trasmissioni radiofoniche come “Ascolta si fa sera” e “Uomini e profeti” ai viaggi di rappresentanza per conto del Vaticano. Eppure, fonti ben informate dicono che alla Congregazione per la dottrina della fede, sul suo conto c’è un dossier riguardante materie come l’ecclesiologia, la sacramentaria e la cristologia. Ma come si fa a mandare avanti una pratica a carico di un personaggio come fratel Enzo? E il dossier rimane lì, anche perché il pensiero di Bianchi non è così minoritario come si potrebbe immaginare.
E’ la storia di Bose, fin dai suoi esordi, a insegnarlo. Nel 1967, il vescovo del luogo vietò qualsiasi celebrazione pubblica nella comunità a causa della presenza di un non cattolico. Ma, il 29 giugno del 1968, l’arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino, entusiasta di quell’esperienza celebrò lui stesso la Messa vanificando di fatto l’atto del vescovo. Oggi, che tra fratelli e sorelle di varia provenienza sono ottanta, non è chiaro se l’interdetto sia formalmente ancora in vigore, ma questo conta poco, poiché si troverebbe anche oggi un cardinale epigono di Pellegrino, pronto a correre in soccorso a Bose.
In ogni caso, fratel Enzo tira avanti. Predica esercizi ad alto livello, convoca e presiede convegni internazionali, è nume tutelare delle edizioni Qiqajon, scrive per grandi editori, compila voci di enciclopedie, tiene cattedra di teologia biblica e patristica all’Università Vita-Salute San Raffaele di don Luigi Verzé. E tutto questo con il solo titolo accademico di dottore in economia e commercio. Un autodidatta. Un magnifico autodidatta, ma pur sempre un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, allievo di se stesso.
Adesso qualcuno vorrà spiegare che lo Spirito soffia dove vuole e che la storia della Chiesa è punteggiata da individui che hanno intuito, profeticamente, strade nuove. Guardate San Francesco. Però, chiunque abbia fatto almeno l’esame di “Storia medievale 1” sa che la grandezza di san Francesco sta nell’essersi rimesso al giudizio della Chiesa di Roma e non nell’averla voluta giudicare. Monsignor Piero Zerbi, maestro dei medievalisti dell’Università Cattolica di Milano insegnava che sta qui la differenza tra Francesco d’Assisi e Pietro Valdo: uno divenuto Santo e l’altro eretico.
Ma fratel Enzo non teme scivoloni e se c’è da menare fendenti su Roma non guarda in faccia a nessuno. “Questo è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà” dice nella Differenza cristiana, citando una frase di Zagrebelsky. E poi rincara: “Io aggiungerei che è un tempo triste per certi cattolici che certo non pensano di possedere la verità, ma pur mettendo la loro fede in Dio e in Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno che la verità eccede sempre i credenti. (...) Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e non minacciato da chi lo avversa o addirittura lo perseguita, bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi”.
E così, senza compromettersi facendo nomi, da Papa Benedetto XVI in giù sono sistemati tutti coloro che complottano per depotenziare la nuova Pentecoste avviata con il Concilio Vaticano II, tutti coloro che si oppongono al soffio dello Spirito. Gli altri, invece, i veri credenti, quelli che, come nei migliori ossimori, “non pensano di possedere la verità”, pur se invitati a un generico immergersi “nella storia, nelle sue opacità, nelle sue contraddizioni”, in realtà sono chiamati a divenire “comunità alternativa”.
Anche qui, Bianchi allude, profetizza, più che marcare nettamente. Ma, presi dal suo ragionare, si può essere indotti a immaginare veramente una nuova Pentecoste annunciata ed evocata da “comunità alternative” in cui “si manifesti pienamente la Venuta del Signore”. Una Nuova Era dello Spirito? Non viene specificato, però, nella Regola di Bose si legge che “Nella vita monastica è lo Spirito a chiamare, pur servendosi di mediazioni umane, e non la chiesa tramite il ministero episcopale, come accade per i ministeri ordinati”. E certo colpisce questo continuo evocare, anche se non fino in fondo, la contrapposizione tra una Chiesa istituzionale, vecchia e una Chiesa spirituale, nuova. Il tutto sottolineato da una sezione del sito web della comunità che si intitola “Pneumatofori”, portatori dello Spirito, in cui si dice: “Sono passati tra noi..” seguono 19 nomi per poi concludere “lasciandoci il loro spirito”.
Nell’attesa, le “comunità alternative” sono chiamate a evitare di porre Cristo al centro del proprio agire sociale. Niente leggi che sappiano di sacrestia: l’Altro, lo Straniero siano la regola, il nascondimento sia il mezzo, l’umanizzazione, e non la salvezza, sia il fine. Dunque, in Per un’etica condivisa, Bianchi spiega che gli ripugna un mondo in cui “le chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei servizi necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile, chiedendo però un riconoscimento del proprio ruolo”.
Per non parlare dei cosiddetti “atei devoti che oggi pontificano”. Ai quali Bianchi manda a dire che “non vi è nessuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario come invece vorrebbe far credere una società in carenza di ideali. Alla larga da “un progetto che vede le chiese correre in aiuto e supporto alla società per fornire, alimentare valori di cui esse hanno bisogno per il loro ordine ed equilibrio”.
In un colpo solo, fratel Enzo fa fuori gli atei devoti e San Tommaso d’Aquino. Il Dottore Angelico, nella Summa spiega l’utilità delle leggi dello Stato e della repressione penale, che servono ad “abituare a evitare il male e a compiere il bene per timore della pena, in modo che poi esso sia compiuto spontaneamente”. Ma è chiaro che, per dei puri destinati a vivere nel nascondimento e nella carità perfetta, la fatica di produrre leggi che conducano gli uomini al bene, invece che benedetta, appare blasfema.
E’ difficile non far risalire tutto questo a una sottovalutazione dell’Incarnazione di Cristo, da cui scende direttamente l’impegno del cristiano nella vita quotidiana. La Civitas Dei di Sant’Agostino, alla quale appartiene il cristiano, non è un luogo impalpabile e neppure una comunità separata che diventi esempio per la società. L’appartenente alla Civitas Dei ha il dovere mettere mano anche alla città dell’uomo, e il suo impegno è essenzialmente milizia.
Ma se l’impegno è debole, di solito, la cristologia è debole. Il Priore, quando cita Cristo, si affretta a spiegare che è colui che “ha narrato Dio agli uomini”. Linguaggio opaco che produce la sensazione di trovarsi davanti a una vicenda incompleta. Sensazione alimentata da Bianchi con un libretto per bambini intitolato “Gesù. Il profeta che raccontava Dio agli uomini”. E’ vero che dentro dice che Gesù è Figlio di Dio. Ma poi spiega ai suoi piccoli lettori: “Gesù (...) era un bambino come noi che viveva con i suoi genitori, Maria e Giuseppe, in un villaggio una piccola cittadina della Galilea. Quando aveva dodici anni ha sentito una chiama più forte. (...) Gesù è stato inviato, mandato, è divenuto un testimone, cioè uno che raccontava Dio agli uomini”.
Forse, sta qui la ragione del cristianesimo minimale di Bianchi, che ha un precedente illustre in Giuseppe Dossetti, passato dalla militanza nella Dc alla scelta monastica. Non a caso, il Priore di Bose ha un posto fisso nel Consiglio di amministrazione della dossettiana Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Come quello di Dossetti, il monachesimo di Bianchi è anomalo. Non sceglie la via della solitudine per lodare e adorare Dio, ma per caricarsi di carisma profetico con il fine ultimo di trasformare la Chiesa e renderla più spirituale e democratica attraverso le alchimie della politica. Un ribaltamento di orizzonte che passa dall’influsso della Chiesa sulla società a quello della società sulla Chiesa.
L’unica differenza tra Dossetti e Bianchi sta nel partner. Il monaco bolognese, tra gli artefici della costituzione repubblicana, fece della sua creatura il luogo d’elezione per l’incontro con il Pci di Togliatti. Pensò la carta costituzionale come piattaforma utopica per un progetto che trasformasse la vita politica italiana e, quindi, anche la Chiesa. Dal che discese una visione ideologica della costituzione in nome della quale Dossetti, prima combattè Craxi e poi lasciò il suo romitaggio per fronteggiare il cavaliere nero Berlusconi.
Bianchi, oggi, ha a che fare con gli eredi di un Pci putrefatto, una sorta di partito radicale di massa in cui convive tutto e in contrario di tutto, da Rosy Bindi a Massimo Cacciari passando per Dario Franceschini: come dire il nulla, l’ideale per le profezie minimali del Priore.
Ma l’obiettivo non è cambiato, nel mirino c’è sempre la Chiesa romana e la sua concezione costantiniana. Il che fa tirare una boccata d’ossigeno a Eugenio Scalfari, che, alla Fiera del libro del 2005 disse: “Se tutti i cattolici fossero come Enzo Bianchi io sarei molto rassicurato”.
Come dargli torto?

mercoledì 28 marzo 2012

ROMANO AMERIO - IOTA UNUM - IL POST CONCILIO





Ringrazio l'amico Piero Mainardi per aver riportato, in forma sintetica, importanti passaggi del libro di Romano Amerio, Iota Unum, e di avermi concesso di riportarli nel mio blog.

1.1   L’OLTREPASSAMENTO DEL CONCILIO. LO SPIRITO DEL CONCILIO – 
Gli oltrepassamenti sono particolarmente palesi nell’ordine liturgico, dove la Messa si trovò mutata in tutt’altra; nell’ordine istituzionale che fu investito da uno spirito democratico di consultazione universale  e perpetuo referendum;  e più ancora nella mentalità apertasi a comporsi con dottrine aliene dal principio cattolico.
Quest’oltrepassamento avvenne sotto l’insegna di una causa anfibologica (ambiguità), varia  e confusionale, che si denominò spirito del Concilio.
Spirito del Concilio non  è un’idea chiara né distinta ma una metafora. Si intende il principio ideale che motiva ed avviva le operazioni del Concilio. Ciò sarebbe quel che giace in fondo ai decreti conciliari e che è come l’apriori del Concilio, che neppure però è indipendente dalla lettera del Concilio. In cosa si esprime un corpo deliberante se non sei suoi deliberati? Ma l’appello allo spirito del Concilio per coloro che intendono oltrepassare il Concilio è un argomento equivoco e quasi un pretesto per allogare nel Concilio lo spirito proprio di novazione. Essendo lo spirito niente più che il principio del Concilio, ammettere in esso una pluralità di spiriti equivarrebbe a porre una pluralità di Concili. Definita da alcuni una ricchezza. La supposizione che lo spirito del Concilio sia molteplice può sorgere soltanto dall’incertezza e dalla confusione che viziano certi documenti conciliari e occasionano la teoria dell’oltrepassamento del Concilio.

1.2   L’oltrepassamento del Concilio. Carattere anfibologico dei testi conciliari – 
Talvolta è aperto oltrepassamento della lettera, talaltra estensione e distrazione di termini.
Si tratta di oltrepassamento franco quando i temi sviluppati nel postconcilio non trovano appoggio nei testi conciliari e di cui i esti non conoscono nemmeno il termine. Si veda per il termine pluralismo che si trova solo tre volte e sempre riferito alla società civile. Similmente l’idea di autenticità come valore morale e religioso di un atteggiamento umano non appare in nessun documento se non authenticus cioè riferito filologicamente e autenticamente al Magistero autentico o alle tradizioni autentiche, ma mai riferito a quel carattere di immediatezza psicologica con cui oggi viene celebrato come indizio di valore religioso. Democrazia, coi suoi derivati, non si trova in nessun punto del Concilio, benché si trovi negli indici di edizioni del Concilio approvate. Eppure l’ammodernamento della Chiesa post-conciliare è in gran parte un processo di democratizzazione.
Oltrepassamento franco fu l’eliminazione della lingua latina dai riti latini che secondo l’art. 36 della Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel Rito romano e che invece fu proscritta dappertutto celebrandosi ovunque Messe nelle lingue volgari.
Ma all’oltrepassamento franco prevale quello che si opera appellandosi allo spirito del Concilio, introducendo l’uso di nuovi vocaboli destinati a  portare come messaggio una particolare concezione, giovandosi in ciò dell’incertezza stessa degli enunciati conciliari. Come per gli altri Concili anche questo lasciò dietro una Commissione per l’interpretazione autentica dei documenti: è assai significativo che questa commissione non si trovi citata mai. COSI’ IL TEMPO CONCILIARE ANZICHE’ DI ESECUZIONE FU TEMPO DI INTERPRETAZIONE AUTENTICA. I punti in cui tale interpretazione appariva incerta fu lasciata alle dispute dei teologi con grave pregiudizio dell’unità della Chiesa. Il carattere anfibologico (ambiguo) dei testi dà fondamento tanto all’ermeneutica neoterica quanto a quella tradizionale.

1.3 Ermeneutica neoterica del Concilio. Variazioni semantiche – 
La profondità delle variazioni operatesi nella Chiesa del periodo postconciliare si desume dagli imponenti cambiamenti intervenuti nel linguaggio. Vi sono vocaboli come inferno e paradiso che non si trattano mai negli insegnamenti conciliari. Poiché la parola consegue all’idea, al loro scomparsa arguisce scomparsa o almeno eclissazione di quei concetti.
Anche la trasposizione semantica è un gran veicolo di novità. Come chiamare operatore pastorale il parroco, cena la Messa, servizio l’autorità, autenticità la naturalezza anche disonesta, arguisce novità nelle cose prima significate con quei secondi vocaboli. Il neologismo è destinato a significare idee nuove, ma spesso nasce dalla cupidità del nuovo come si vede nel dire presbitero per prete, diaconia per servizio, eucaristia per Messa.
Alcuni vocaboli mai frequentati o relegati in ambiti circoscritti acquistarono in un baleno una diffusione prodigiosa. Il più notevole fu dialogo. Il Vaticano II lo adoprò ventotto volte e coniò la formula che indica l’asse e l’intendimento del Concilio: “dialogo col mondo” e “mutuo dialogo” tra Chiesa e mondo. Il vocabolo in tal modo divenne un’universale categorie della realtà, esorbitando dall’ambito della logica e della retorica in cui prima era circoscritto. Si avanzò sino a configurare una struttura dialogale dell’essere divino (in quanto uno  e non in quanto trino), una struttura dialogale della Chiesa, della religione, della famiglia ecc.

1.4   Ancora l’ermeneutica neoterica del Concilio. Circiterismi. Uso della avversativa “ma” – 
Circiterismo consiste nel riferirsi a un termine indistinto e confusionale e da quello ricavare o escludere l’elemento che si vuole ricavare o escludere. Tale è per esempio il termine Spirito del Concilio o Concilio. Esiste una certa limitatezza della intentio intellettiva incapace di contemplare simultaneamente tutti i lati di un oggetto complesso, per cui il conoscente non può che volgersi successivamente alle varie parti del complesso. Questa difficoltà intellettive a livello di cognizione però non devono arrivare a una intenzionale obliquazione (stortura) e a fare in modo come insegna il Vangelo (Mt. 13,13) che non si veda quello che pur vede e non riconosca quello che pur conosce.
La nozione di lettura ha soppiantato quella di cognizione della cosa, sostituendo alla forza obbligante della cognizione univoca, la pluralità delle letture possibili. Un identico messaggio può essere letto in chiavi diverse. I testi del Concilio, come tutti gli altri testi hanno indipendentemente dalla lettura un senso letterale e la perfezione dell’ermeneutica consiste nel ridurre la seconda lettura alla prima.
Il metodo dei neoterici del postconcilio consiste nel lumeggiare e oscurare, rubricare  e nigricare singole parti di un testo o di una verità.
L’altra tecnica dell’errore  consiste nel nascondere una verità dietro l’altra per poi procedere come se la verità nascosta non solo non fosse nascosta, ma semplicemente non  fosse. Ad esempio, quando si parla di Popolo di Dio in cammino si nasconde l’altra verità, che cioè la Chiesa comprende anche la parte già in termino dei beati (la parte più importante di essa) essendo quella in cui il fine si è adempiuto,
Un tipico procedimento è l’uso dell’avversativo ma. Per attaccare lo stile di vita religiosa si scrive: ”il fondamento della vita religiosa non è in questione, ma il suo stile di realizzazione”. Per eludere il dogma della verginità della Madonna in partu si dice che son possibili dei dubbi “ Non sulla credenza stessa di cui nessuno contesta il titolo dogmatico, ma sul suo oggetto esatto, di cui non sarebbe sicuro che contenga il miracolo della nascita senza lesioni corporee”. Oppure si attacca la clausura monacale scrivendo “La clausura deve essere mantenuta, ma deve adattarsi secondo le condizioni dei tempi e dei luoghi”.
Questa formula del ma si riscontra sovente negli interventi dei Padri conciliari, i quali pongono nell’asserto principale qualcosa che viene distrutto nell’asserto secondario, in modo che quest’ultimo diventa il vero asserto principale. Al Sinodo dei Vescovi di lingua francese del 1980 si formula:” Il Gruppo aderisce senza riserve alla Humanae vitae, ma bisognerebbe superare la dicotomia tra la rigidità della legge e la duttilità pastorale”. Così l’adesione all’Enciclica diviene puramente vocale. Più aperta la  formula che vuole l’ammissione dei divorziati all’eucaristia: “Non si tratta di rinunciare all’esigenza evangelica, ma di riconoscere la possibilità per tutti di essere nella comunione ecclesiale”.
Sempre nel Sinodo del 1980 sulla famiglia nei gruppi neoterici apparve apparve il vocabolo approfondimento. Mentre si ricerca l’abbandono della dottrina della Humane vitae, le si professa intera adesione, ma si chiede che la dottrina venga approfondita, cioè non confermata attraverso nuovi argomenti, ma mutata in altra. E quindi al profondità consisterebbe nel cercare e ricercare finché non si approda alla tesi opposta.
Il metodo del circiterismo fu adoperato anche negli stessi Documenti conciliari. E fu intenzionalmente imposto affinché l’ermeneutica conciliare potesse poi rubricare o cancellare quelle idee che le premevano. Schillebeecks scrisse: ”Noi ci esprimiamo in modo diplomatico, ma dopo il Concilio tireremo le conclusioni implicite”. Si tratta di una stilistica diplomatica, secondo la forza della parola doppia, in cui la lettera viene formata in vista dell’ermeneutica, rovesciando l’ordine naturale del pensare e dello scrivere.

1.5   Caratteri del postconcilio. L’universalità del cambiamento – 
Questa universalità del cambiamento pone anche la questione se questa sia una mutazione sostanziale. Fino a domandarsi se non si si stia attuando un passaggio da una religione a un’altra come del resto chierici e laici non si peritano a dichiarare. Il secolo del Vaticano II sarebbe un magnus articulus temporum, ma ci si può anche chiedere se il Secolo del Vaticano II non darebbe forse la dimostrazione della pura storicità della religione cattolica. E quindi della non-divinità della religione cattolica?
Delle tre classi di atteggiamenti in cui si compendia la religione, circa le cose da credere, da sperare e da amare non ve n’è alcuna che non sia stata toccata e  tendenzialmente variata. Nell’ordine noologico (intellettuale)  la nozione di fede da atto dell’intelletto vien trasposta ad atto della persona e da adesioni a verità rivelate diventa tensione di vita, trasgredendo così nella sfera della speranza. La speranza abbassa il suo oggetto, divenendo aspirazione e aspettazione di una liberazione e trasformazione terrestre. La carità che, come la fede e la speranza ha un oggetto formalmente soprannaturale, abbassa similmente il proprio termine volgendosi all’uomo, e già vedemmo nel discorso di chiusura. Del Concilio esser l’uomo proclamato all’amor di Dio.
Ma non solo queste tre classi di atteggiamenti sono cambiate, ma anche l’aspetto sensorio: sul paino visivo sono mutate le forme delle vesti, delle suppellettile sacra, degli altari, delle architetture, delle lumiere, dei gesti. Al sensorio tattile la novità grande è data  dal poter palpare quello che  la riverenza al Sacro rendeva intoccabile. Al sensorio gustativo è stata concessa la bibizione del calice. A quello  olfattivo precluso o quasi l’incenso che santificava i morti e i vivi. Il sensorio auditivo ha conosciuto la più profonda ed estesa novità mai operata sulla terra, avendo la riforma liturgica mutato il linguaggio a mezzo miliardo di uomini. Ha cambiato le musiche da melodiche a percussive, esiliato il gregoriano.
Qui si innesta il difficile discorso del rapporto tra l’essenza e le parti accidentali di una cosa, tra l’essenza della Chiesa e i suoi accidenti. Non possono forse tutte quelle cose e generi di cose che abbiamo elencati venir riformate nella Chiesa e la Chiesa rimanere identica?
Occorre osservare tre cose: vi sono anche quelli che gli scolastici chiamano accidenti assoluti che non si identificano con la sostanza della cosa, ma senza i quali la cosa non è; secondo: non tutte le accidentalità possono essere assunte o deposte dalla Chiesa. La Chiesa ha certi accidenti e non altri e ve ne sono di alcuni incompatibili con Lei e che, se assunti, la distruggono. Il perpetuo combattimento della Chiesa è stato nel rigettare le forme accidentali che le si venivano insinuando da dento o da fuori che ne avrebbero distrutto l’essenza il monofisismo non era un modo accidentale per intendere la divinità di Cristo? Il luteranesimo per intendere l’azione dello Spirito Santo.  
Terzo. Gli accidenti non si devono riguardare come indifferenti. E bisogna ricordare che la sostanza della Chiesa non sussiste che negli accidenti, cioè senza accidenti è una sostanza nulla.
Eppure il destino morale o la salvezza dipende proprio da quegli accidenti. E d’altronde si pensi questo :che resta della persona umana quando tutto il suo rivestimento accidentale e storico viene meno?

1.6   Ancora nel postconcilio. L’uomo nuovo. GS 30. Profondità del cambiamento – 
Non più il nuovo nelle istituzioni, ma nuove istituzioni. Vi sono precedenti di tali conati, nelle escatologie terrestri ereticali della terza età dello Spirito Santo, nel pensiero del Lamennais secondo cui si profila un nuovo stato della chiesa  e un’era nuova di cui Dio stesso con una nuova manifestazione getterebbe il fondamento.
Gs 30 è uno dei testi straordinari a questo proposito. L’officio morale che deve primeggiare nell’uomo di oggi è la solidarietà sociale coltivata con l’esercizio e la diffusione delle virtù. Il vocabolo novus si trova 212 volte nel Vaticano II nel senso di : Nuovo Testamento, nuovi mezzi di comunicazione, nuovi impedimenti alla pratica della fede, nuove situazioni, nuovi problemi e così via. Ma nel testo citato e in GsI “nova exurgit humanitatis condicio”.
Paolo VI ha ripetutamente proclamato la novità del pensiero conciliare:” le parole importanti del Concilio sono novità e aggiornamenti … La parola novità ci è data come un ordine, un programma”-
Ma la teologia cattolica conosce solo  tre tipi di novità radicali capaci di innovare l’umanità e quasi di transnaturarla. La prima è difettiva: dallo stato di integrità e soprannaturalità da cui l’uomo è caduto per la colpa primordiale; la seconda è restaurativa e perfettiva per cui la grazia del Cristo ripara lo stato originario e lo solleva oltre la sua costituzione originaria; la terza è quella completiva dell’ordine intero per cui alla fine dei tempi l’uomo graziato viene  anche beatificato e glorificato in una assimilazione della creatura a Creatore. Non è dunque possibile restando nel presente ordine del mondo figurare una umanità nuova che oltrepassi l’umanità nell’ordine di Cristo (se non nell’ordine della speranza).
La Scrittura adopera per la grazia il verbo creare in modo veramente proprio perché l’uomo riceve una potenza o una qualità nuova. Come la creazione è il passo dal non essere all’essere naturale, così la grazia è il passo dal non essere soprannaturale all’essere soprannaturale.
Per cui si deve concludere che i novi homines del Concilio sono da intendere non nel senso di un cambiamento di essenza, ma nel senso debole di una grande restaurazione di vita nel corpo della Chiesa e dell’umanità. La formula è stata sovente intesa in senso stretto inammissibile, facendo alitare sul postconcilio un’aura di anfibologia e utopia.

1.7 Impossibilità di variazione radicale nella Chiesa – 
Sembra che la crisi della Chiesa più che capacità di conservarsi sia una crisi di sofferenza che genera un altro essere. Per mons. Matagrin, vescovo di Grenoble si tratta di una  ”rivoluzione copernicana” dove la Chiesa “si è decentrata da sé stessa, dalle sue istituzioni per centrarsi su Dio e sugli uomini”. Centrarsi su due centri può essere una formula verbale, ma non un concetto, essendo questo assurdo. Per prima ragione perché la Chiesa che esce da se stessa  significa apostasia;  in secondo luogo perché non può essere posto altro fondamento che in Gesù; terzo perché non è possibile rifiutare la Chiesa nel suo essere storico, che nella sua continuità fu apostolica, costantiniana, gregoriana, tridentina, e saltare programmaticamente i secoli come vorrebbe p. Congar che sogna di “saltare cinque secoli”; Quarto perché non si può scambiare l’uscita della Chiesa missionaria dal mondo con l’uscita della Chiesa da sé stessa. Ed è incongruo caratterizzare la Chiesa contemporanea come missionaria poiché non converte più nessuno, per negarla a quella che in tempi più vicini ha convertito Papini, Gemelli, Psicari, Claudel, Péguy  ecc. per tacere delle fiorenti missioni di Propaganda fide.  Congar ribatte che la Chiesa di Pio XI e Pio XII è finita, come se fosse un parlare cattolico parlare della Chiesa di questo o quel Pontefice o della Chiesa del Vaticano II.
Mons. Pogge, arcivescovo di Avignone nel ’76 diceva nelle sue Lettere che la chiesa del Vaticano II è nuova e che lo Spirito Santo non cessa di trarla dalla staticità e che la novità essenziale starebbe: ”nell’aver ricominciato ad amare il mondo, ad aprirsi ad esso, a farsi dialogo”.
Questa persuasione di novità che va dalle idee, alle cose, ai nomi diviene palese nel riferimento continuo che si fa alla fede del Concilio Vaticano II abbandonando quello alla fede una e cattolica che è la fede di tutti i Concili. Diviene non meno palese il richiamo di Paolo VI all’obbedienza dovuta  a lui e al Concilio, anziché a quella dovuta ai suoi predecessori e a tutta la Chiesa. Vero che la fede di un Concilio posteriore è la fede di tutti precedenti e li assomma tutti, ma non si deve staccare e isolare quel che è congiunto, né dimenticare che la Chiesa è una nello spazio , ma ancor più nel tempo. Possiamo dire di trovarsi all’inverso della situazione del Concilio di Costanza: allora si avevano più papi ma una sola Chiesa; oggi un solo Papa e più Chiese.

1.8   Ancora l’impossibilità della novità radicale – 
Disconosciuta la continuità del divenire ecclesiale fondata su un fondamento non diveniente, al vita della Chiesa appare per forza come un’incessante creazione ex-nihilo. Al Convegno Ecclesiale del ’76 Giuseppe Franceschi, arcivescovo di Ferrara diceva: ”il problema vero è inventare il presente e trovare in esso le vie di sviluppo di un futuro che sia dell’uomo”. Ma “inventare il presente” è un composto di parole che non ha senso. E tra l’altro se si inventa il presente che bisogno c’è di trovarvi le vie dello sviluppo del futuro?  Si inventi subito anche il futuro!
Non si danno, dopo la rinascita del battesimo altre rinascite se non quella escatologica. Che non vi siano nella Chiesa mutazioni della base ma soltanto sulla base. Tutte le riforme della Chiesa furono attuate sul fondamento antico e non tentarono un fondamento nuovo.
Persone esterne alla Chiesa, tra cui Abbagnano, consuonano che la Chiesa “abbia selezionato nella sua tradizione gli aspetti da porre in prima fila e quelli da modificare radicalmente componendosi col mondo moderno”. Questa composizione esige una dislocazione che il Vaticano II avrebbe avviata, certo non volutamente, verso l’immanenza, con l’abolizione tendenziale della legge in favore dell’amore, del logico in favore dello pneumatico, dell’individuale in favore del collettivo, dell’autorità in favore dell’indipendenza, del Concilio stesso in favore dello spirito del Concilio.

1.9   La denigrazione della Chiesa storica – 
Il fenomeno presente della denigrazione del passato della Chiesa ad opera di clero e laici fa da contrapposto con l’atteggiamento di fortezza e di fierezza che il cattolicesimo ebbe nei secoli passati di fronte ai suoi avversari. Si riconosceva infatti esistere degli avversari e persino dei nemici della Chiesa e i cattolici esercitavano insieme la guerra all’errore e la carità verso il nemico. E dove la verità impediva di difendere umani mancamenti la riverenza domandava di coprire le vergogne.
Rispetto e riverenza si originano dal sentimento di una dipendenza verso chi è in qualche modo principio a noi o dell’essere, come genitori e patria, o di un qualche beneficio nell’essere, come gli educatori. Se la Chiesa ha da morire a sé stessa e rompere con suo passato sorgendo in una nuova creatura, è manifesto che il passato non solo non ha da rivivere, ma anzi ha da staccarsi e ripudiarlo. Le medesime parole di rispetto e riverenza includono in sé l’idea di guardare indietro che non ha luogo per una Chiesa proiettata nel futuro e per la quale è la distruzione del suo passato la condizione per rinascere. Una certa pusillanimità nel difendere il passato della Chiesa, vizio opposto alla constantia pagana e alla fortezza cristiana, aveva già dato sintomi nel Concilio, ma la sindrome si sviluppò celermente. Tralascio quanto appare su Lutero, sulle Crociate, sull’Inquisizione, su san Francesco. I grandi Santi del cattolicesimo sono tirati ad essere precursori della novità o nulla.
La denigrazione della Chiesa è un luogo comune nei discorsi del clero postconciliare. Per circiterismo mentale combinato  con le accomodazioni del secolo.
Il vescovo mons. Ancel addossa alle deficienze della Chiesa gli errori del mondo moderno sostenendo che ai problemi reali “noi abbiamo fornito risposte insufficienti. Intanto, noi chi? Noi cattolici? Noi preti? Noi pastori? In secondo luogo è falso, nel sistema cattolico, che gli errori nascano per difetti di soluzioni soddisfacenti, perché essi coesistono sempre e ai problemi e alle soluzioni vere le quali, nelle cose essenziali al destino dell’uomo la Chiesa insegna perpetuamente.
E’ strano che proprio quelli che dicono che l’errore sia necessario per la ricerca della verità, dicano poi bustrofedicamente (contraddittoriamente) che la ricerca della verità sia impedita dall’errore.
Pierre Pierrard ripudia tutta la polemica sostenuta dai cattolici del XIX secolo affermando che quel passato della Chiesa era una negazione del Vangelo.
Nazzareno Fabretti (Gazzetta del popolo, 23 gennaio 1970) parlando del celibato ecclesiastico, grava di un’accusa criminale tutta la storia della Chiesa, scrivendo che verginità, celibato e sacrificio della carne “come sono stati imposti per secoli solo d’autorità senza altrettanta persuasione e possibilità oggettiva di scelta a milioni di seminaristi e di sacerdoti rappresentano uno dei maggiori plagi che la storia ricordi”. Mons. Martignoli, vescovo di Lugano, ritiene la religione responsabile del marxismo e che se i cattolici avessero operato altrimenti, il socialismo ateo non sarebbe venuto.
Il card. Garrone su L’Osservatore Romano (12 luglio 1979) afferma che: “se il mondo moderno è scristianizzato Cristo, non è perché rifiuti Cristo, ma perché non glielo abbiamo dato”.
Per il card. Lèger, arcivescovo di Montreal, affermava che in passato non c’era nel popolo cristiano fede vera.

1.10   Critica della denigrazione della Chiesa – 
Questa tesi accusatoria subentrata all’apologetica è superficiale perché suppone che la causa dell’errore di un uomo si trovi determinantemente ed efficientemente nell’errore di altri uomini negando così libertà e responsabilità personali. Applicando questo criterio accusatorio si viene ad addossare a Cristo stesso la responsabilità del rifiuto oppostogli dagli uomini, incolpandolo di non aver interamente dissipato il dubbio circa la sua divinità, di non aver adempiuto il suo dovere di salvatore del mondo.
La tesi accusatoria risente della superficialità accusatoria dei neoterici i quali epocato il dogma della predestinazione [in senso cattolico] non possono più cogliere né la profondità della libertà umana, fatta dipendere contraddittoriamente dalla altrui libertà, né dal mistero di redenzione.
Giovanni Paolo II ha ben mostrato la profondità di questo mistero. Il mistero cristiano è certo la nascita dell’uomo-Dio venuto nel mondo, ma identico mistero è che il mondo, sin dalla natività del Salvatore, non lo ha accolto, e continua a non accoglierlo. Il mistero della non-accoglienza del Verbo è il mistero profondo della religione ed è aridità religiosa quella che va a cercarne la causa nelle colpe della Chiesa. La predicazione miracolizzante del Cristo lasciò moltissimi nell’incredulità, molti nel peccato, tutti nella propensione al peccato. Forse che la redenzione fu monca per questo?  

1.11   Falsa retrospettiva – 
Un effetto paradosso della denigrazione storica della Chiesa è l’esaltazione sconsiderata della Chiesa primitiva (alla quale si pretende di attingere spirito e modi) presentata come comunità di perfetti, ispirata alla carità e praticante ad amussim (esattamente) i precetti evangelici.
E’ vero il contrario che la Chiesa fu in ogni tempo, una massa mista, di buoni e di malvagi. Le testimonianza cominciano da san Paolo: basta ricordare gli abusi dell’agape, le fazioni tra i fedeli, le defezioni morali, le apostasie nella persecuzione. L’esaltazione retrospettiva del cristianesimo precostantiniano, sulla quale poggiano le prospettive di rinnovamento della Chiesa, è storicamente infondata.  

Il Simbolo del Cardinal Martini





Ho trovato illuminante il lungo colloquio del cardinale Carlo Maria Martini con Ignazio Marino, pubblicato su due pagine del Corriere della Sera di oggi, non tanto per la disinvolta apertura del Cardinale all'importanza dell'amicizia omosessuale - qualsiasi cosa significhi - ma perché finalmente, come ben di rado accade sui quotidiani, ho potuto leggere una parola chiara sulla fede di un autorevole ecclesiastico. "Personalmente ritengo", ha scritto il Cardinale, "che Dio ci ha creati uomo e donna". Pochi possono ignorare la capitale importanza di tale affermazione. Fonti certe mi comunicano che un'apposita commissione ecclesiastica è già al lavoro per la composizione del Simbolo del cardinal Martini, del quale posso fornirvi una congrua anticipazione. Il testo reciterà: "Penso che ci sia un solo Dio, progettatore per sommi capi del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e - qualora ve ne fossero - invisibili. Non escludo l'ipotesi di un solo Signore, nonché di vari altri, nato dal Padre prima di buona parte dei secoli, che sostiene di essere Dio da Dio, potrebbe risultare luce da luce e talvolta Dio vero, nell'accezione più generale del termine, da Dio vero, senza voler con questo trarre conclusioni affrettate; generato e creato a seconda delle circostanze, di una sostanza che da un certo punto di vista sembra coincidere con quella del Padre, reo di concorso esterno nella creazione di una significativa percentuale di cose. Per noi uomini, ma anche per le donne, i bambini, gli animali, i vegetali, i minerali, i marziani, i nomi, le cose e le città, e per la nostra salvezza, nonostante potrebbe darsi che non ce ne fosse immediato bisogno, diede l'impressione di discendere dal cielo, o comunque da un'altitudine superiore a quella alla quale ci troviamo, e con il controverso e mai scientificamente accertato contributo dello Spirito Santo ha fatto una roba di difficile interpretazione nel seno della Vergine, o quanto meno incensurata, Maria e si è fatto uomo, ma anche donna, bambino, animale, vegetale, minerale, marziano, nome, coso e città. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato? Morì, o è emigrato in un paradiso fiscale senza lasciare tracce della propria scomparsa? Fu sepolto o si tratta di un complotto dei templari? Corre voce che il terzo giorno sia risuscitato, con tutte le cautele del caso, secondo le Scritture, senza con ciò voler far torto al Corano, alle Upanishad, al Libro Tibetano dei Morti, ai Canti di Ossian e alle Pagine Gialle; fonti vicine al Vaticano lasciano intendere che sia salito al cielo e siederebbe alla destra del Padre se non temesse un eccesso di strumentalizzazioni politiche. Di nuovo, se si accetta il presupposto che sia effettivamente già venuto, verrà nella gloria, ma senza rinunciare alla sobrietà imposta dai tempi, per giudicare i vivi e i morti, no, per ammonire i vivi e i morti, no, per tirare le orecchie ai vivi e ai morti, no, per comprendere e giustificare i vivi e i morti, anzi, per esprimere i sensi della propria stima ai vivi e ai morti, tanto più che non è del tutto chiaro chi sia vivo e chi sia morto, trattandosi di etichette che non possono annullare le infinite sfaccettature del cuore umano. La sua presidenza non avrà fine fatta salva la naturale scadenza del mandato. Presumo che si possa postulare uno Spirito Santo, o anche solo Beato, anzi Stimabile, noto anche come Signore che dà la vita e altresì, ove necessario, la dolce morte; e procede dal Padre e dal Figlio, o solo dal Padre, o solo dal Figlio, anzi procede da solo, e il Padre e il Figlio procedono da lui mentre il Figlio procede dal Padre e il Padre procede dal Figlio in maniera tale da non scontentare nessuno e porre fine a un'inutile questione che da secoli tormenta l'unità dei cristiani, ma anche dei mussulmani, buddisti, induisti, scintoisti, interisti, precari e lgbt; con il Padre e il Figlio è tenuto in debita considerazione e menzionato sovente con termini anche elogiativi, e ha espresso delle opinioni personali - non immuni da smentita - per mezzo di portavoce e uffici stampa non pienamente allineati alle sue posizioni. Sono disposto a tollerare la Chiesa, una e molteplice, santa e dannata, cattolica e protestante, apostolica e rivoluzionaria. Consiglio ai più piccini una salutare abluzione per il condono delle violazioni alla carta dei diritti dell'uomo e del cittadino. Aspetto, ma senza volermi illudere, la risurrezione dei morti o il ritorno degli zombi e alcune forme di vita nel mondo - termine invero eccessivo: diciamo nel quartiere - che potrebbe decidersi a venire, ma senza alcun impegno e con chiare clausole di rescissione". Nella sua nuova versione martiniana il Credo assumerà la più moderna denominazione di Ritengo.




Fonte: Candido

martedì 27 marzo 2012

Antonio Livi, risponde al Direttore di Avvenire

Seguiamo, al solito ciò che accade. C'è un aggiornamento alla questione Enzo Bianchi - Antonio Livi e il Direttore  di Avvenire, tratto da La Bussola quotidiana di oggi.

Come i lettori de La Bussola Quotidiana sanno bene, l'articolo di monsignor Antonio Livi che criticava alcuni interventi di Enzo Bianchi, ha provocato la durissima reazione del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. Una prima, immediata, risposta a Tarquinio è venuta dal direttore de La Bussola Quotidiana, ma molte sono anche le lettere - arrivate in questi giorni a noi ed anche ad Avvenire - di solidarietà a monsignor Livi. Ora è lo stesso monsignor Livi a rispondere al direttore di Avvenire con questa lettera aperta che pubblichiamo.

Sig. Direttore,
Il 23 marzo scorso Lei sul Suo giornale mi ingiunge di vergognarmi per quello che avevo scritto su La Bussola Quotidiana a proposito di Enzo Bianchi, accusandomi di aver orchestrato squallide manovre diffamatorie basate sulla menzogna. Siccome alcuni lettori (anche se non tutti) e i cattolici italiani in generale possono aver pensato che queste accuse (che costituiscono – queste sì – denigrazione e diffamazione nei miei confronti) siano fondate, mi vedo costretto a fornire loro pubblicamente alcune spiegazioni.

1) Io non ho scritto contro Enzo Bianchi come persona ma contro la sua “fama di santità”, ossia contro la presentazione che se ne fa come di un vero mistico, di un autorevole interprete della Scrittura, di un venerato maestro di dottrina cristiana, di un eroico combattente per la riforma della Chiesa e per l’ecumenismo. Io vorrei invece richiamare l’attenzione di chi ha responsabilità pastorale sul fatto che i suoi scritti e i suoi discorsi – che certa stampa utilizza come se potessero essere dei validi sussidi per la catechesi ? sono inficiati di un’ideologia neognostica, incentrata sul progetto di una religione universale a carattere etico (la Welthethik), secondo la prospettiva del suo autore di riferimento, che è Hans Küng.
2) Per questo preciso motivo ho deprecato lo spazio e il rilievo che il Suo giornale ha dato a una meditazione biblica di Bianchi, pubblicandola in un paginone a colori di “Agorà” della domenica. Io l’ho visto distribuito in alcune chiese di Roma assieme ai foglietti della Messa, e mi è sembrato assurdo che quel commento di Bianchi al Vangelo della prima domenica di Quaresima fosse presentato ai fedeli quasi come un sussidio per la pastorale liturgica. Quale approfondimento della dottrina cristiana e quale edificazione nella fede eucaristica – mi domandavano – possono venire da discorsi che presentano Gesù come un modello (umano) di quella morale umanitaria che ritiene di poter prescindere dalla grazia del Redentore? Il mondo è pieno di gente che parla di Gesù in termini che sono più propri dell’umanesimo ateo che del dogma cattolico: non è questo che mi turbava: mi turbava il fatto che ancora una volta fosse presentato come un autorevole maestro della fede, con l’autorevolezza che può conferire il “giornale dei vescovi italiani”, un personaggio che, a mio avviso, la vera fede non contribuisce affatto a diffonderla. Non si tratta di un problema personale o ideologico, ma di un problema esclusivamente pastorale, e io come sacerdote lo considero l’unico problema importante.
3) Lei, Direttore, non ha ragione quando scrive che io avrei potuto criticare Bianchi o altri collaboratori di Avvenire «su ciò che è opinabile: valutazioni storiche e socio-culturali, opinioni artistiche, scelte lessicali, giudizi politici…», mentre invece mi sarei «azzardato» a «porre in dubbio la fede altrui e l’altrui indiscutibile adesione alla buona dottrina cattolica su ciò che è opinabile non è». Lei non ha ragione perché io critico appunto il modo di commentare il Vangelo in un giornale ufficialmente cattolico, e in questa materia nella Chiesa c’è sempre stata e sempre ci sarà il diritto di critica (la teologia cattolica e lo steso dogma nascono dal confronto critico con i diversi modi di presentare il contenuto della rivelazione divina). Ciò che per un cattolico «opinabile non è» è solo il dogma enunciato dalla Chiesa con il suo magistero solenne. Le interpretazioni del dogma e la sua presentazione catechetica, così come le scelte pastorali, sono invece materia di libera discussione. Non c’è nulla di criminoso e di vergognoso nel fatto di aver voluto manifestare la mia opinione circa l’inopportunità pastorale di presentare alla meditazione dei fedeli dei discorsi, come quelli di Bianchi, così ambigui rispetto al dogma cattolico. Da quando è diventato «indiscutibile» il fatto dell’«adesione alla buona dottrina cattolica» da parte dei collaboratori dell’Avvenire? Basta la parola del Direttore? È un nuovo caso di «Roma locuta, quaestio finita»?
4) Nel fare quei rilievi dottrinali e pastorali, peraltro, io non ho minimamente voluto «porre in dubbio la fede altrui», cioè di Enzo Bianchi. Sembra che Lei, dottor Tarquinio, non abbia presente la fondamentale distinzione tra la fede come atto interiore del soggetto che aderisce con tutto se stesso a Cristo e alla sua dottrina (e di questo atto interiore è consapevole solo il soggetto stesso) e la fede come enunciazione esteriore (professione di fede, proclamazione della fede, catechesi, evangelizzazione, teologia); io so bene di non dover giudicare la sincerità e la fermezza della fede egli altri (della coscienza di ciascuno di noi è giudice solo Dio, il quale «scruta i reni e il cuore» degli uomini), ma so anche che ho il dovere di giudicare la rispondenza di un discorso sul Vangelo alle verità fondamentali contenute nella dottrina della Chiesa: è un dovere che in primis spetta al collegio episcopale, con a capo il Papa, ma spetta, per partecipazione sacramentale, anche a un semplice sacerdote come me, impegnato da sempre nella formazione cristiana dei fedeli con il mio lavoro pastorale e con la docenza nell’«Università del Papa». Certo, il mio giudizio – di approvazione o di critica – è soggetto a errore dal punto di vista dottrinale, e anche dal punto di vista della prassi può risultare meno opportuno o conveniente: ma è pur sempre un atto legittimo, anzi doveroso, quando uno come me ritiene in coscienza che il bene comune della comunità ecclesiale lo richieda.
5) Lei scrive che il mio è «un testo feroce, nel quale si procede con metodi degni della peggiore “disinformatsja”: estrapolando frasi, selezionando concetti, amputando verità, distillando veleni». In realtà, le frasi dello scritto di Bianchi che ho citato sono testuali, e in un breve scritto non potevo certamente riprodurre tutto il testo pubblicato nel paginone di Avvenire (chi non crede alla sintesi che io ho fatto potrà confrontarla con l’originale); sono però frasi emblematiche, che nemmeno il contesto può contribuire a “salvare” (anzi, a me sembra che tutto il discorso che Bianchi fa sul potere e sul denaro ha senso solo presupponendo che Gesù sia solo un modello morale, un uomo esemplare). Nessuno scrittore dei primi secoli, nessun letterato cristiano moderno, nessun teologo intenzionato a rispettare il dogma si è mai sognato di parlare di Gesù come di una «creatura», di un uomo cioè che insegna agli altri uomini come si deve rispettare Dio, che è il Creatore. Bianchi è un biblista: ma dove mai si trova nella Bibbia la definizione di Gesù come «creatura»? Che cosa avranno pensato quei fedeli che hanno letto il testo di Bianchi sull’Avvenire e poi a Messa hanno recitano il Credo, dicendo di Gesù che Egli è «Dio da Dio» e che è «generato, non creato»? Devono pensare che la professione di fede della Chiesa è una formula antiquata e che è meglio credere alle spiegazioni moderne e aggiornate di Bianchi? Questo è il vero problema: un problema che interessa necessariamente chi ha sensibilità pastorale e si sente responsabile dei messaggi dottrinali che vengono proposti da personaggi che (non sempre meritatamente) godono di credito presso i fedeli, soprattutto se sono veicolati dalla stampa che si presenta come la voce (almeno ufficiosa) della Chiesa italiana.

domenica 25 marzo 2012

Risposta pubblica di Mons. Williamson alla lettera di Mons. Bux




Risposta pubblica alla lettera aperta di Mons. Nicola Bux
di S. Ecc. Mons. Richard Williamson
Vescovo della Fraternità Sacerdotale San Pio X
Londra, 22 marzo, 2012.


Monsignore,
nella lettera aperta del 19 marzo, indirizzata a Mons. Fellay e a tutti i sacerdoti della Fraternità San Pio X, Lei ci chiede di accettare la sincera e calorosa offerta di riconciliazione che il Papa Benedetto XVI sta facendo alla Fraternità per sanare l’annosa spaccatura fra Roma e la FSSPX. Essendo uno dei sacerdoti della FSSPX ai quali Lei si è rivolto, mi permetta di esprimerLe la mia opinione, su come, secondo me, avrebbe potuto rispondere quel “grande uomo di Chiesa” che fu Mons. Marcel Lefebvre.

La sua lettera inizia con un appello a fare “ogni sacrificio per l’unità”. Ma non può esserci vera unità cattolica che non sia fondata sulla vera Fede Cattolica. Il grande Arcivescovo fece ogni sacrificio per l’unità nella vera dottrina della Fede. Ahimè, i colloqui dottrinali del 2009-2011 hanno dimostrato che la spaccatura dottrinale fra la Roma del Vaticano II e la FSSPX è quanto mai ampia.

Riferendosi a questa spaccatura, Lei, il 19 marzo, parla solo di rimanenti “perplessità, punti da approfondire, da meglio chiarire”, ma il 16 marzo il Card. Levada è stato categorico dichiarando che la posizione assunta da Mons. Fellay il 12 gennaio “non è sufficiente a superare i problemi dottrinali”. Una volta Mons. Fellay ha osservato che per quanto gli uomini di Chiesa di Roma possano differire tra loro, sarà la loro unità a contare, ma in ogni caso sacrificare la Fede per l’unità equivarrebbe ad una unità infedele.

Certo, come Lei ci ricorda, la Chiesa è un’istituzione insieme divina e umana; e come è certo che l’elemento divino non può fallire, così in definitiva è la Chiesa stessa che non può fallire e il sole sorgerà di nuovo. Ma quando Lei dice che “già si intravede l’alba”, mi permetta di dissentire, perché la vera Fede che la FSSPX ha apportato nei colloqui dottrinali, non la si vede splendere nella Roma del Vaticano II, dove di conseguenza la FSSPX non può essere al sicuro. Essa non potrebbe apportare della luce se adottasse le tenebre conciliari.

La sincerità del Papa nel suo desiderare il ritorno della FSSPX alla “piena comunione ecclesiale”, com’è dimostrato da una serie di gesti di buona volontà, è fuori dubbio, ma “una comune professione di fede” fra la FSSPX e coloro che credono nel Vaticano II non è possibile, tranne che la FSSPX non venga meno alla Fede da essa difesa nei colloqui dottrinali. E quando al cospetto di ogni cedimento la FSSPX grida “Dio non voglia!”, questo grido, tolto là dov’è soffocato, viene compreso dovunque nel mondo e apporta alla Chiesa Cattolica quei frutti che oggi sono l’eccezione piuttosto che la regola.

Certamente, “questo è il momento opportuno”, è “l’ora favorevole” per una soluzione degli agonizzanti problemi della Chiesa e del mondo. Tuttavia, la soluzione sta in ciò che la Madre Celeste ha chiesto da lungo tempo, e questa soluzione dipende solo dal Santo Padre. Infatti, quando Nostro Signore affidò tale soluzione a Sua Madre, lei disse che si trattava dell’unica soluzione idonea, così che Egli non potrebbe permettere una soluzione diversa senza far passare Sua Madre per bugiarda! Cosa inconcepibile!

Pur essendo da tempo nota questa soluzione, com’è possibile che il Cielo abbia lasciato il mondo in un’angoscia come quella degli ultimi 100 anni, senza provvedere ad un rimedio come quello fornito tramite il profeta Eliseo per la lebbra del generale siriano Naaman? Umanamente parlando, bagnarsi nel Giordano sembrava ridicolo, ma nessuno poteva dire che fosse impossibile. Bastava solo un po’ di fede e di umiltà. Il generale pagano mise insieme la fede e la fiducia nell’uomo di Dio e fece ciò che aveva chiesto il Cielo, e ovviamente fu istantaneamente guarito.

Sia il Santo Padre a mettere insieme bastanti fede e fiducia nella promessa della Madre Celeste! Sia lui a cogliere questo “momento opportuno”, prima che l’intera economia mondiale crolli in rovina e prima che dei pazzi scatenino la terza guerra mondiale nel Medio Oriente! Sia lui, lo preghiamo, lo imploriamo, a salvare la Chiesa e il mondo, facendo semplicemente ciò che ha chiesto da tempo la Madre Celeste. Non è impossibile. Lei supererebbe tutti gli ostacoli a suo modo. Facendo ciò che lei chiede da tempo, solo il Papa potrà salvarci oggi da inimmaginabili – e inutili – sofferenze.

E se egli ritiene che un qualche apporto in preghiera e in azioni da parte dell’umile FSSPX, possa aiutarlo a consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria, in unione con tutti i vescovi del mondo, che la Madre Celeste vuole radunati, egli sa che può contare in primo luogo sul sostegno di Mons. Fellay e degli altri tre vescovi della FSSPX,
l’ultimo dei quali è

il suo devoto servitore in Cristo
+ Richard Williamson

Come collocarsi nella Chiesa?




Don Pierre Berrère, Priore del Priorato San Francesco Regis, Francia, della Fraternità San Pio X.
  L'articolo è stato pubblicato sul n° 226, febbraio 2011, del giornale “Sainte Anne” .
(Testo diffuso da La Porte Latine, sito della Fraternità in Francia e tradotto da Unavox)


Gli ultimi avvenimenti sopraggiunti ad iniziativa del Papa Benedetto XVI, non fanno che confermare ancora oggi la giustezza dei comportamenti adottati a suo tempo da Mons. Lefebvre di fronte alle autorità ufficiali allora in carica.
  Poiché spesso il magistero oggi non si esercita più in maniera normale e coerente, è impossibile sottomettersi assolutamente alle sue direttive, come se niente fosse.
Ci troviamo quindi obbligati a seguire il consiglio di San Paolo: «Non disprezzate le profezie, esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.» (I Ts 5, 20-22). Ricordiamoci che l’obbedienza cieca – quella che non guarda ai motivi per sottomettersi – esiste nella Chiesa solo molto raramente. Infatti, ci si deve sottomettere senza condizioni quando l’autorità papale impegna la sua infallibilità, come nelle definizioni dogmatiche ex cathedra. L’ultima definizione di questo tipo data del 1950, quando il Papa Pio XII dichiarò ciò che bisogna credere dell’Assunzione della Santissima Vergine Maria. Da allora non s’è prodotto niente di simile. È del tutto evidente, però, che questo non significa che si debbano passare sistematicamente al vaglio del pensiero personale tutti gli atti del Papa. Il libero esame non è un criterio cattolico per raggiungere la verità, quindi non si tratta di trarre il buono dal cattivo a proprio piacimento, facendo riferimento alle proprie intuizioni o alle proprie idee personali, significherebbe adottare la mentalità protestante. Non è questo che bisogna fare e non è questo che facciamo.

1 - La più alta autorità, può venir meno?

Se il Papa è infallibile a certe condizioni, sicuramente non è impeccabile in tutti i suoi atti. È possibile quindi che vi siano delle iniziative cattive e molto perniciose dei papi, cosa che è certa ed è facile da dimostrare. Anche resistere all’autorità non è in sé una cosa normale, e tuttavia neanche questa è una cosa inedita. Nella Lettera ai Galati, 2, 11-14, leggiamo che l’Apostolo Paolo ha resistito nei confronti di Pietro, per tre ragioni: «1- perché evidentemente aveva torto… 2- gli altri Giudei lo imitarono… al punto che Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia… 3 - non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo». Eppure Pietro era il capo incontestato tra gli Apostoli, ma grazie al rimprovero pubblico del giovane convertito egli ha riconosciuto umilmente il suo errore ed ha rettificato il suo atteggiamento, cessando di «costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei». Se Paolo avesse taciuto, tutta la Chiesa nascente sarebbe stata gravemente sovvertita dalle ambiguità di Pietro.
Non andiamo oltre.
  Riteniamo che la più alta autorità della Chiesa possa assumere delle decisioni molto nocive: si è verificato qualche volta nel lontano passato della Chiesa, ma molto più frequentemente a partire dal 1960.
  Gli avvertimenti profetici di Fatima ci hanno predetto che in quegli anni sarebbe sopraggiunta una grande crisi della fede: sta a noi comprendere e saper giudicare l’albero dai suoi frutti.

2 - Che succede al Papa attuale?

Per quanto riguarda il Papa Benedetto XVI, egli ha appena compiuto, uno dopo l’altro, almeno tre atti che hanno già una risonanza importante e nefasta.
Il primo è costituito dalla pubblicazione del suo libro Luce del mondo. Si tratta di un’intervista rilasciata al giornalista Peter Seewald. Le dichiarazioni che Benedetto XVI fa a modo di conversazione, contengono in effetti molte approssimazioni e falsità, non solo sulla dottrina e la storia, ma anche sulla morale e su altri argomenti.
Non mi soffermerò su questo, ma questo scritto è molto ingannevole dal punto di vista della forma e del contenuto. Gli errori e le approssimazioni che vi si trovano non sono degne di uno studioso e del capo della cattolicità.
Se San Paolo ha usato nei confronti di Pietro il termine ipocrisia, il libro intitolato Luce del mondo si colloca esattamente sulla stessa linea, poiché è pieno di tenebre e troppo conforme allo spirito del mondo: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo», dice San Paolo (Rm 12, 2).
Adottare uno stile mediaticamente corretto non impegna certo l’infallibilità del magistero, ma unicamente la persona di Ratzinger. Cosa che non impedisce che la maggioranza dei lettori non faccia la differenza e prenda il tutto come l’insegnamento ufficiale della Santa Chiesa.
Il secondo è costituito dal suo desiderio di realizzare a ottobre un’Assisi III, una riunione di tutte le religioni per pregare per la pace al fine di celebrare il 25° anniversario di quel primo incontro voluto da Giovanni Paolo II.
Le due prime riunioni di Assisi sono, checché se ne dica, dei peccati molto gravi contro il primo comandamento: Non avrai altri dei di fronte a me (Es 20, 3), e molto scandalose in se stesse, cioè indipendentemente dalle intenzioni generose che animano gli autori.
A questo proposito, ricordiamo due piccole cose.
In occasione di Assisi I (1986), delle chiese furono messe a disposizione delle false religioni, per il loro culto, e un simulacro di Budda venne posto sull’altare di una di esse.
In occasione di Assisi II (2002), per evitare le distorsioni scioccanti del 1986, vennero approntate delle sale per i partigiani delle false religioni, ma preventivamente ci si preoccupò di togliere i crocifissi per non mettere in imbarazzo i non cristiani.
  Questi due atti (profanazione delle chiese con i falsi culti e rimozione delle croci), ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri, non sono insignificanti. Potrebbe Dio benedire tali cose? Gesù, che ha scacciato i mercanti dal Tempio, potrebbe gradire che i falsi dei vengano onorati nelle sue chiese e che i loro adoratori vi si installino come i briganti nella caverna? Rimuovere le croci è davvero il modo per richiamare l’apprezzamento di Colui che ha voluto salvarci con la Sua Croce? E allora, si deve pensare che è insensato che la Chiesa ci faccia cantare «O Crux ave, spes unica», «Salve, o Croce, speranza unica»?
Per di più, tali iniziative comportano delle conseguenze insidiose e perverse per l’animo dei battezzati, i quali finiscono per adottare gli stessi principi dei massoni: l’unione degli uomini al di là delle religioni.
Il terzo è costituito dalla volontà di beatificare Giovanni Paolo II, il Papa che ha lasciato scomunicare la Tradizione mentre si diffondevano dappertutto le peggiori aberrazioni dottrinali e liturgiche. Lo stesso Giovanni Paolo II che ha baciato il Corano e perpetrato innumerevoli scandali di cui Assisi è senza dubbio il più penoso e disastroso per le anime (si veda il libro di Don Leroux, Pietro, mi ami tu? - [disponibile presso i Priorati della FSSPX]).

3 – Come vedere chiaro quando le tenebre sommergono le guide religiose e queste diventano, secondo l’espressione del Vangelo: «ciechi che guidano altri ciechi» (Mt 15, 14).

In modo particolare, due principi devono essere ripresi e devono servirci da faro in momenti come questi: «Ciò che era vero ieri non può essere falso oggi» e «Ciò che è nuovo adesso, per essere legittimo e ricevibile, innanzi tutto non deve opporsi al passato, ma deve assumerlo totalmente perfezionandolo».
Tra le altre cose, è in ragione di questi due principi che noi rifiutiamo Assisi, la nuova Messa e molte delle riforme dell’ultimo Concilio.

Assisi.

La Chiesa si è sempre opposta alle altre religioni (cristiane o non cristiane) perché sono false. Essa le ha sempre combattute con la parola, con gli scritti, con ogni sorta di coercizioni (scomunica degli eretici) e con l’esempio dei Santi (i martiri d’Inghilterra del XVI secolo, uccisi solo per la loro fedeltà a Roma). Talvolta, quando non c’erano altri mezzi per proteggersi, le ha perfino combattute con le armi dei soldati cristiani. Questa è la verità di ieri.
Una riunione interreligiosa contraddice l’agire costante della Chiesa. Essa può solo generare confusione negli spiriti, facendo credere che possa esserci un’unione buona e costruttiva per mezzo e al di là delle confessioni religiose.
Qui si tratta del fatto, lo ribadiamo, che si sono introdotti nella Chiesa i tipici principi massonici: libertà religiosa, uguaglianza dei culti e fraternità, non nel battesimo e nella fede, ma unicamente nella nostra comune umanità.
Quanto a noi, sappiamo che costruire la pace senza Cristo e la Sua Chiesa significa voler edificare una torre fino al cielo senza l’intervento di Dio. Le conseguenze sono note: si realizzerà l’inverso: la dispersione invece dell’unione, la confusione e la guerra invece dell’intesa e della pace.

La nuova Messa. 

Che importa che la nuova Messa sia valida quando si sa che essa «rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino» (Breve esame critico del Novus Ordo Missae, presentato a Paolo VI dai cardinali Ottaviani e Bacci nel 1969).
Per chi ha compreso questo diventa impossibile assistervi, perché nessuno può costringerci a cambiare la nostra fede o anche solo a diminuirla. Ora, quand’anche la nuova Messa non cambiasse la fede (certe «messe» festive e fantasiose lo fanno: come le messe clown o le messe danzanti), quanto meno sminuisce l’espressione della Presenza Reale, del Santo Sacrificio e soprattutto della propiziazione, anche quando è ben celebrata da un prete pio e serio.
I cambiamenti della nuova Messa non assumono il passato della Chiesa, non v’è una perfezione del rito antico, ma una regressione nell’espressione della fede: dunque diventa perfettamente legittimo resistervi.

4 – Non tutti i cambiamenti sono malvagi.

Abbondano gli esempi delle novità introdotte nella Chiesa, che sono legittime perché perfezionano la dottrina o affinano la liturgia o la morale. I termini usati dalla Chiesa, quali Consustanziale, Transustanziazione, Immacolata Concezione, sono certo dei cambiamenti molto importanti rispetto a ciò che li ha preceduti, ma essi rendono la dottrina di sempre più intellegibile, così che i cristiani sono protetti contro gli errori subdoli e il genio nefasto dell’eresia. Ecco perché non si possono rifiutare questi tipi di cambiamento. Questi termini nuovi sono dei puri prodotti che vengono dalla Tradizione, non si può più escluderli senza diminuire l’espressione della fede: essi fanno ormai parte del vocabolario cattolico.
Sopprimere o diminuire l’espressione della fede con delle espressioni nuove è cosa non permessa nella Chiesa e nessuna autorità può costringere chicchessia ad adottare tali cambiamenti. La forza giuridica è stata data ai capi, non per distruggere, ma per edificare.
Il criterio della Tradizione è dunque determinante quando si introducono delle novità nella Chiesa. Quando il «magistero» attuale enuncia delle cose che offendono le orecchie cattoliche, come ha fatto Benedetto XVI permettendo in certi casi l’uso del preservativo (Luce del mondo, pp. 170-171 dell'edizione italiana), non si può pensare con facilità che in questo caso Dio ci parla per bocca del successore di Pietro. Soprattutto quando altri papi si sono espressi sull’argomento in linea con la Tradizione e in maniera molto chiara e definitiva: «Niente può trasformare un’azione intrinsecamente immorale in un atto lecito», Pio XII.

5 – Attitudine pratica da adottare di fronte agli errori e alle ambiguità dei capi religiosi.

Di fronte agli orientamenti aberranti sempre più ripetuti della Gerarchia, che in questo si ispira sempre all’ultimo Concilio, Mons. Lefebvre ha dato a suo tempo alcune regole di condotta per i fedeli, al fine di non farli incappare in una obbedienza mal compresa.
Prima regola: Laddove diventa evidente che vi è una rottura con la Tradizione, non bisogna seguirla, anche se la più alta autorità nella Chiesa sembra volerci obbligare.
Il tempo ha finito sempre col dar ragione a coloro che hanno adottano questa regola. È il caso della Messa.
Il papa Paolo VI ha insistito con forza e a più riprese perché la sua nuova Messa rimpiazzasse l’antica. Quest’ultima doveva sparire assolutamente. Dei sacerdoti sono stati cacciati dalle loro parrocchie perché, in coscienza, non potevano celebrare il nuovo rito imposto, senza peccare. Anche dei religiosi e delle religiose hanno dovuto lasciare i loro conventi per non assistere a questa Messa, che faceva loro perdere lo spirito dei loro statuti. In effetti, la volontà di Paolo VI era ben reale e forte, senza riguardo per i recalcitranti, ma era anche una volontà capricciosa, essenzialmente basata sull’ecumenismo e sull’unione con i protestanti. Perché l’ordine fosse ricevibile e si potesse dire: «Roma ha parlato, la causa è finita», sarebbe stato necessario un fondamento dottrinale e giuridico solido, in coerenza col passato. Ma non fu così.
Ecco perché Benedetto XVI, nel 2007, ha potuto dire quasi il contrario di Paolo VI: la Messa di San Pio V non è mai stata abrogata (in tutta legittimità): ogni sacerdote può continuare a celebrarla senza permesso speciale del suo vescovo (Motu Proprio del 7.7.2007).

Seconda regola: Laddove vi fosse ambiguità occorre interpretare nel senso della Tradizione e combattere il senso contrario, cioè il senso che favorisce la novità modernista.

Terza regola: Laddove vi è continuità con la Tradizione occorre semplicemente sottomettersi.
L’espressione «Roma ha parlato, la causa è finita» è valida solo se Roma parla chiaramente, con autorità, in conformità con la Tradizione e lo spirito di santità della Chiesa, e non per imporre degli orientamenti totalmente nuovi, come delle riunioni interreligiose o una liturgia ecumenica.

6 – Il segno della fedeltà alla Chiesa

San Pio X ha detto: «i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari né novatori, ma tradizionalisti». Questa piccola frase che conclude la condanna del Sillon (movimento del cattolico liberale Marc Sangnier) esprime anche tutto lo spirito che deve animarci nella lotta contro il modernismo e lo spirito uscito del Concilio.
Nella Chiesa conciliare, il vero e il falso, il bene e il male, l’utile e il pericoloso, sono talmente mescolati che non bisogna esitare ad allontanarne tutti i cattolici ancora dotati di un po’ di buon senso. Certo, bisogna farlo con intelligenza e con tutto il tempo necessario per mostrar loro i principi pericolosi che si nascondono sotto apparenze ingannevoli; occorre farlo con bontà, delicatezza, e non per ostentare superiorità o per il perfido piacere di aver ragione contro gli altri. Ma per chi conosce bene la Chiesa e il suo spirito, l’obiettivo è chiaro: è necessario allontanare le anime da ogni influenza nefasta che indebolisce insensibilmente la fede e fa compiere atti contrari allo spirito della fede.
Se San Pio X oppose i tradizionalisti ai rivoluzionari e novatori, è perché tra i nemici della religione ve ne sono di quelli più estremisti degli altri. I rivoluzionari, di per sé, sono peggiori dei novatori, ma i novatori si accordano con i rivoluzionari per opporsi ai tradizionalisti. È una cosa riscontrabile. Diciamo che tra loro vi è una differenza di passo, ma si muovo entrambi verso la realizzazione dello stesso scopo.
I rivoluzionari vogliono sconvolgere tutto radicalmente e subito: capovolgere la costituzione divina della Chiesa per farne una specie di democrazia in cui il potere supremo non è più quello del solo papa, ma di un gruppo (la collegialità); abolire il celibato ecclesiastico; dare la comunione ai divorziati risposati; permettere l’aborto e la contraccezione; legittimare l’omosessualità; affermare l’uguaglianza delle religioni e la salvezza tramite tutte le confessioni; esaltare l’assoluta necessità della laicità dello Stato; ecc.
I novatori non saranno così oltranzisti nelle loro rivendicazioni, conserveranno una coloritura e una pietà più conformi allo spirito della Chiesa, tali che senza essere dei feroci partigiani dello sconvolgimento si mostreranno molto aperti a tutto ciò che è nuovo. Vedranno il celibato ecclesiastico, diciamo così, come una sorta di via ideale riservata ad un piccolo numero, ma senza considerarlo un ostacolo al matrimonio di quei preti che lo desiderano. Diranno che le donne non possono (ancora) accedere al sacerdozio, ma potranno fare le letture, distribuire la comunione, mentre le ragazze potranno fare le chierichette. Saranno contro la contraccezione, certo, ma in casi estremi questa può essere una via verso una maggiore moralizzazione. La comunione dei divorziati risposati normalmente non è possibile, ma talvolta occorrerà giudicare caso per caso e autorizzarla senza clamore, discretamente. Quanto allo Stato, non è ragionevole che esso favorisca una religione piuttosto che un’altra, occorre dunque una laicità positiva che equilibri tutto dando la libertà a tutti. A passi felpati, questi novatori metteranno sottosopra tutta la Tradizione al pari dei rivoluzionari, ma con un decorso più lungo e meglio ammantato di un rivestimento che conservi un’apparenza tradizionale presentabile.
«Se cerco di piacere al mondo, non sono più un servitore di Cristo» diceva San Paolo. Questo avvertimento è severo e valido per tutti coloro che hanno una missione per l’edificazione nella Chiesa.

7 – Vi saranno, al di fuori della Fraternità San Pio X, degli imitatori di San Paolo per resistere di fronte a Pietro a proposito di Assisi?

È poco probabile.
Oggi i vescovi, non cercano più, come ha fatto San Paolo, di discernere se un atto del Papa è conforme o meno al Vangelo. Essi sono diventati per lo più degli esecutori preoccupati unicamente di rispettare le regole del governo, che sono fondate sui falsi principi della libertà religiosa, dell’ecumenismo o della collegialità, e non guardano al di là.
Se una qualche categoria di cattolici (i tradizionalisti) non rientra negli schemi attuali della legalità, i vescovi, senza esaminare ciò che dicono, come dei funzionari senz’anima, si dimostreranno intrattabili nei suoi confronti. Questi buoni amministratori che hanno in continuazione il dialogo sulle labbra, in questo caso diventano sordi agli argomenti di coloro che sono legati alla fede. Hanno un solo principio da far valere: non siete nella struttura legale della Chiesa conciliare. A quel punto la loro coscienza è perfettamente tranquilla e i loro atti più inumani non li turbano più. Essi fanno ciò che comanda loro la disciplina in vigore e non si sentono responsabili davanti a Dio delle più evidenti ingiustizie. Domani cambieranno, forse.
Non assomigliano pressappoco a quei medici che praticano l’aborto a tutta forza con la coscienza del tutto tranquilla? Se questi ultimi uccidono senza scrupolo è perché la legge del momento lo permette e perfino l’incoraggia: quindi non può essere un male. Ma quando la legge dirà loro: «fermatevi, è male!», si fermeranno e forse si porranno il problema. Che ricordino, i vescovi: come vi è nella società civile un legalismo che si oppone alla legge naturale e che cerca di distruggerla, così vi è nella società religiosa uscita dal Concilio un legalismo che si oppone alla legge del Vangelo e che con le sue novità principali distrugge insidiosamente la fede naturale dei fedeli.
Per coloro che hanno capito questo, vi è una sola attitudine coerente: non fidarsi di questa legalità illegittima e difendere coraggiosamente la fede.

In tal modo, conservare una posizione «canonicamente corretta» che restringe la confessione di fede significa fare più o meno del modernismo.

Non si può nascondere o negare che talvolta vi è un grave dovere di opposizione contro gli scandali perpetrati della Gerarchia.

Fonte: FSSPX