mercoledì 27 luglio 2011

Aggredito sacerdote, colpevole di celebrare la Messa in latino!

"metteranno le mani su di voi" (Lc 21,12)


Aggredito sacerdote, colpevole di celebrare la Messa in latino
di Domenico Rosa
Da tempo si ripetevano gli avvertimenti nei confronti di Don Garcia Pardo
"Tu sei stato duro ma ti romperemo la testa. Firmato [ndr] Il tuo amico Satana". Questo è uno dei tanti messaggi minatori inviati a don Hernan Garcias Pardo, parroco di San Michele a Ronta (Fi). La sua colpa, quella di celebrare la messa in latino, liberalizzata da Benedetto XVI nel settembre del 2007.
Gli avvertimenti, che ormai si ripetevano da tempo, non hanno fatto desistere il sacerdote, che nonostante tutto ha continuato a dir messa col rito antico. L'epilogo mercoledì scorso, quando è stato malmenato da un 'fedele' nella canonica del paese alla presenza dell'anziana madre. Le botte prese gli hanno procurato una contusione alla spalla, condotto al pronto soccorso di Borgo San Lorenzo è stato medicato.
La notizia oggi è apparsa sul Giornale del Toscana, le accuse rivolte a don Hernan sono quelle di disperdere il gregge, soprattutto non gli perdonano la distribuzione della comunione in bocca e in ginocchio invece che in mano, allo stesso modo di Benedetto XVI. Per altri il prelato italo-argentino ha solo riportato un pò di sacra austerità in parrocchia, bandendo le chitarre dalle funzioni e riportando all'interno delle mura della pieve l'antico canto gregoriano.
La stampa ha calato il silenziatore sulla vicenda, ma nel Mugello, la gente parla dell'accaduto, è scossa da tanta ostilità nei confronti di un uomo di Dio.
Il papa nel promulgare il Motu Proprio, ha voluto dare un segnale di unità, ha parlato a suo tempo di riconciliazione, ma a quanto pare non tutti sono d'accordo, e a volte, come in questo caso, qualcuno manifesta il proprio dissenso brutalmente, compiendo un'aggressione in piena regola contro chi, inerme, ha votato la propria vita nei confronti del prossimo.

Fonte: Il sito di Firenze (

Intervista a don Davide Pagliarani

Don Davide PagliaraniUna prima valutazione dell’esito dei colloqui con Roma e dei fermenti nel mondo tradizionalista

Albano Laziale, 26 luglio 2011



a cura di Marco Bongi


D. - I colloqui teologici fra la FSSPX e le Autorità Romane volgono al termine. Anche se non è stato ancora emesso un comunicato ufficiale non mancano i commentatori che, in base ad indiscrezioni, li giudicano falliti. Lei può dirci qualcosa in più sull'argomento?

Penso che sia un errore pregiudiziale considerare i colloqui falliti. Questa conclusione è tirata forse da chi s’aspettava dai colloqui qualche risultato estraneo alle finalità dei colloqui stessi.
Il fine dei colloqui non è mai stato quello di giungere ad un accordo concreto, bensì quello di redigere un dossier chiaro e completo, che evidenziasse le rispettive posizioni dottrinali,  da rimettere al Papa e al Superiore Generale della Fraternità. Dal momento che le due commissioni hanno lavorato pazientemente, toccando sostanzialmente tutti gli argomenti all’ordine del giorno, non vedo perché si dovrebbero ritenere i colloqui falliti.
I colloqui sarebbero falliti se - per assurdo - i rappresentanti della Fraternità avessero redatto relazioni che non corrispondessero esattamente a ciò che la Fraternità sostiene, per esempio se avessero detto che dopo tutto la collegialità o la libertà religiosa rappresentano degli adattamenti al mondo moderno perfettamente conciliabili con la Tradizione. Per quanto sia stata mantenuta una certa discrezione, penso di poter dire che non ci sia stato il rischio di giungere a questo risultato fallimentare.
Chi non coglie sufficientemente l’importanza di una tale testimonianza da parte della Fraternità e della posta in gioco, per il bene della Chiesa e della Tradizione, inevitabilmente formula giudizi che si inquadrano in altre prospettive.

D. - Quali prospettive secondo lei potrebbero essere fuorvianti?

A mio modesto avviso esiste un’area tradizionalista, piuttosto eterogenea, che, per ragioni diverse, attende qualcosa da una ipotetica regolarizzazione canonica della situazione della Fraternità.
1) Certamente c’è chi spera in un riverbero positivo per la Chiesa universale; a questi amici, che ritengo sinceri, direi tuttavia di non farsi illusioni; la Fraternità non ha la missione né il carisma di cambiare la Chiesa in un giorno. La Fraternità intende semplicemente cooperare affinché la Chiesa si riappropri integralmente della sua Tradizione e potrà continuare a lavorare lentamente per il bene della Chiesa solo se continuerà ad essere, al pari di ogni opera di Chiesa, una pietra di inciampo ed un segno di contraddizione: con o senza regolarizzazione canonica, la quale arriverà solo quando la Provvidenza giudicherà i tempi maturi. Inoltre non penso che una ipotetica regolarizzazione - al momento attuale - toglierebbe quello stato di necessità che nella Chiesa continua a sussistere e che ha giustificato fino ad ora l’azione della Fraternità stessa.

2) Su un versante completamente opposto esistono gruppi che definirei conservatori, nel senso un po’ borghese del termine, che si affrettano a dire che i colloqui sono falliti assimilandoli ad una trattativa per arrivare ad un accordo: l’intento malcelato è quello di poter dimostrare il più velocemente possibile che la Tradizione, tale e quale la Fraternità la incarna, non potrà mai avere un diritto di cittadinanza nella Chiesa. Questa fretta è determinata non tanto da un amore disinteressato per il futuro della Chiesa e per la purezza della sua dottrina, ma da una paura reale dell’impatto che la Tradizione propriamente detta possa avere di fronte alla fragilità di posizioni conservatrici o neoconservatrici. In realtà tale reazione rivela una lenta presa di coscienza - quantunque non confessata - dell’inconsistenza e della debolezza intrinseca di tali posizioni.

3) Soprattutto però mi sembra di riscontrare l’esistenza di gruppi e di posizioni che attendono un qualche beneficio da una regolarizzazione canonica della Fraternità, senza però voler fare propria la battaglia della Fraternità assumendosene gli oneri e le conseguenze.
Esistono infatti, nel diversificato arcipelago tradizionalista, numerosi “commentatori” che pur esprimendo un sostanziale disaccordo con la linea della Fraternità, osservano con estremo interesse lo sviluppo della nostra vicenda, sperando in qualche ripercussione positiva sui loro istituti di riferimento o sulle situazioni locali in cui sono coinvolti. Sono impressionato dalle fibrillazioni a cui questi commentatori sono soggetti ogni volta che un minimo rumore affiora sul futuro della Fraternità.
Penso tuttavia che il fenomeno sia facilmente spiegabile.

D. - Perché?

Si tratta di una categoria di fedeli o di sacerdoti fondamentalmente delusi e che avvertono - giustamente - un certo senso di instabilità per la loro situazione futura.
Si rendono conto che la maggior parte delle promesse in cui hanno creduto stentano ad essere mantenute ed implementate.
Speravano che con il Summorum Pontificum prima e con Universae Ecclesiae poi, fossero garantite ed efficacemente tutelate la piena cittadinanza e libertà al rito tridentino, ma si rendono conto che la cosa non funziona pacificamente, soprattutto in relazione agli episcopati.
Di conseguenza - e purtroppo - a questi gruppi interessa l’esito della vicenda della Fraternità non tanto per i principi dottrinali che la supportano e per la portata che potrebbe avere sulla Chiesa stessa, ma piuttosto in una prospettiva strumentale: la Fraternità viene vista come una formazione di sfondamento di sacerdoti che ormai non hanno nulla da perdere ma che se otterranno qualcosa di significativo per la loro congregazione creeranno un precedente giuridico a cui anche altri potranno appellarsi.
Questo atteggiamento, moralmente discutibile e forse un po’ egoista, ha tuttavia due pregi:
innanzitutto quello di dimostrare paradossalmente che la posizione della Fraternità è l’unica credibile, dalla quale potrà scaturire qualcosa di interessante, e alla quale in tanti finiscono per fare riferimento loro malgrado;
il secondo pregio è quello di evidenziare che se non viene privilegiata la via dottrinale per permettere alla Chiesa di riappropriarsi della sua Tradizione, necessariamente si scivola in una prospettiva diplomatica, fatta di calcoli incerti e di risultati instabili, e ci si espone a drammatiche delusioni.

D. - Se il Vaticano offrisse, per ipotesi, alla Fraternità l'opportunità di strutturarsi in Ordinariato immediatamente soggetto alla S. Sede, come potrebbe essere accolta tale proposta?

Sarebbe presa serenamente in considerazione in base ai principi e alle priorità e soprattutto alla prudenza soprannaturale a cui i superiori della Fraternità si sono sempre ispirati.

D. - Non potrebbe dirci qualcosa di più?

Posso solo ripetere ciò che è stato spiegato chiaramente e da sempre dai miei superiori: la situazione canonica in cui si trova attualmente la Fraternità è conseguenza della sua resistenza agli errori che infestano la Chiesa; di conseguenza la possibilità per la Fraternità di approdare ad una situazione canonica regolare, non dipende da noi ma dall’accettazione da parte della gerarchia del contributo che la Tradizione può fornire per la restaurazione della Chiesa.
Se non si approda ad alcuna regolarizzazione canonica, significa semplicemente che la gerarchia non è ancora abbastanza convinta della necessità e dell’urgenza di questo contributo. In questo caso bisognerà attendere ancora qualche anno, sperando in un incremento di questa consapevolezza, che potrebbe essere coestensivo e parallelo all’accelerazione del processo di autodistruzione della Chiesa.

D. - "Il poco bene che possiamo fare a Roma è probabilmente più importante del molto bene che possiamo fare altrove". Questa frase molto significativa, pronunciata da mons. De Galarreta alle ordinazioni sacerdotali di Ecône, interpella direttamente il nostro distretto. Certamente egli si riferiva prevalentemente ai colloqui teologici ma è indubbio che anche l'immagine della Fraternità in Italia, per la sua vicinanza a Roma, assume una rilevanza tutta particolare. Come ha vissuto lei, che è il Superiore del Distretto italiano, questa importante affermazione?

Quanto ha detto il vescovo a Ecône corrisponde ad una convinzione profonda della Fraternità e l’affermazione mi sembra scontata per uno spirito autenticamente cattolico: non trovo abbia nulla di sorprendente.
Penso che l’inciso di Mons. De Galarreta sintetizza perfettamente lo spirito romano con cui la Fraternità vuole servire la Chiesa Romana: fare il possibile affinché la Chiesa, si riappropri della Sua Tradizione a cominciare da Roma stessa.
La Storia della Chiesa ci insegna che non è possibile alcuna riforma universale, efficace e duratura se Roma non la fa propria e se essa non parte da Roma.

D. - Su questi punti molti osservatori esterni sostengono che esisterebbe una divisione interna nella FSSPX fra un'ala cosiddetta "romana" più propensa a dialogare con le autorità, e una "gallicana", ostile ad ogni approccio col Papa. Al di là dell'eccessiva semplificazione e nei limiti in cui Ella può esprimersi, ritiene che tale idea sia fondata?

Come in ogni società umana anche nella Fraternità esistono sfumature e sensibilità diverse tra i vari membri. Pensare che possa essere diversamente sarebbe un po’ puerile.
Tuttavia penso che si cada facilmente nelle semplificazioni di cui sopra quando si perde la serenità di giudizio o ci si esprime in base a pregiudizi precostituiti: si finisce per creare dei partiti e per collocarci senza discernimento alcuni piuttosto che altri.
Ai membri della Fraternità è chiaro che l’identità della propria congregazione è costruita attorno ad un asse definito e preciso che si chiama Tradizione; è su questo principio, universalmente condiviso all’interno della Fraternità, che è costruita l’unità della Fraternità stessa e penso che oggettivamente sia impossibile trovare un principio identitario e di coesione più forte: è proprio questa coesione di base sull’essenziale, che permette ai singoli di avere sfumature diverse su tutto ciò che è opinabile.
Penso che una certa impressione di disomogeneità sia data dalla considerevole differenza di toni che i membri della Fraternità utilizzano nelle differenti sedi, nei differenti frangenti, nei differenti paesi e soprattutto davanti alle diversissime e contraddittorie posizioni che i rappresentanti della gerarchia ufficiale esprimono nei nostri confronti e di tutto ciò che ha il sapore di Tradizione. La percezione di questi dati talora scema in chi valuta le singole affermazioni decontestualizzandole e livellandole on line davanti al proprio schermo.
Si tratta certamente di considerazioni di non immediata evidenza per l’osservatore esterno.

D. - Il 13 maggio è stata pubblicata l'istruzione "Universae Ecclesiae" che intende disciplinare concretamente l'applicazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum". Come viene valutato questo importante documento dalla FSSPX?

Si tratta di un documento di sintesi che da una parte esprime la chiara volontà di implementare le direttive del motu proprio, dall’altra tiene conto delle numerose obiezioni, esplicite e implicite, che gli episcopati hanno mosso contro il Summorum Pontificum i quali - non è un segreto per nessuno - sono fondamentalmente ostili al ripristino del rito tridentino.
Innanzitutto viene precisato che il ripristino della liturgia del 1962 è una legge universale per la Chiesa; in secondo luogo l’istruzione compie un chiaro sforzo per tutelare maggiormente in sede strettamente giuridica i sacerdoti che fossero ostacolati nell’uso del messale tridentino dai loro ordinari.
Con una certa finezza viene ricordato ai vescovi che spetta proprio a loro garantire quei diritti…per la tutela dei quali è possibile fare ricorso contro gli stessi ordinari.
Questi mi sembrano in estrema sintesi i punti più positivi.

D. – Tuttavia l’art. 19 dell'Istruzione "Universae Ecclesiae" dichiara che non sono autorizzati a chiedere la S. Messa di sempre i fedeli che non riconoscono la validità e la legittimità del Messale Riformato da Paolo VI. Come giudica tale limitazione?

In tutta sincerità non riesco a giudicarla perché la trovo incomprensibile.
Ho sempre ritenuto che il santissimo rito della Messa avesse un valore intrinseco, soprattutto in relazione al fine latreutico che le è proprio.
A prescindere da ogni altra considerazione, non è dato di capire su quale base giuridica o teologica il valore di un rito plurisecolare dichiarato mai abrogato e la possibilità di celebrarlo possano essere determinati dalle disposizioni soggettive di chi assiste o lo richiede.
Si entra in una prospettiva folle e impraticabile. Per esempio, che cosa dovrebbe fare un sacerdote che si rendesse conto che su 10 fedeli che richiedono la celebrazione della Messa, 5 avessero obiezioni sulla Messa di Paolo VI? Che cosa dovrebbe fare un sacerdote se avesse lui stesso delle gravissime riserve sul nuovo rito, dal momento che la limitazione riguarda solo i fedeli?[1]
Se i due riti sono considerati due forme equivalenti dello stesso rito romano, non è dato di capire perché il rito tridentino sia così pericoloso da postulare una sorta di esame previo di ammissione.
Infine, se si entra onestamente in tale logica, non è dato di capire perché non sia stato richiesto ai sacerdoti e ai vescovi che rifiutano apertamente il rito tridentino di astenersi dal celebrare quello nuovo finché non demordono dal loro proposito.
Penso che l’art. 19 dell’istruzione, se da una parte è espressione di un tipico atteggiamento diplomatico, dall’altra possa purtroppo essere assimilato ad una sorta di malcelato ricatto morale. Esso rivela la consapevolezza da parte dei vescovi che la Messa Tridentina veicola inevitabilmente una ecclesiologia incompatibile con quella del Concilio e del Novus Ordo. Di conseguenza la Messa tridentina può essere concessa unicamente esercitando un controllo diretto sulle coscienze dei fedeli. La cosa mi sembra piuttosto allarmante.

D. - Ci sono nel documento altri punti in cui, secondo lei, emerge la volontà di esercitare un controllo di questo tipo?

A mio modesto avviso ve ne è uno in particolare. Mentre il motu proprio ripristinava oltre al messale il libero uso di tutti i libri liturgici, l’istruzione vieta tale utilizzo in un caso ben preciso: quello delle ordinazioni sacerdotali, eccezion fatta per gli istituti religiosi facenti riferimento all’Ecclesia Dei o che già utilizzano il rito tridentino (Cfr. art 31).
La cosa è abbastanza sorprendente, soprattutto nel caso delle ordinazioni diocesane, considerando che la moderna ecclesiologia insiste tantissimo nel riconoscere nel vescovo diocesano il moderatore della liturgia e il vero liturgo in quanto successore degli apostoli; tuttavia la spiegazione sembra essere abbastanza scontata se facciamo riferimento ai classici compromessi tipicamente curiali.
È evidente che mentre un istituto Ecclesia Dei è direttamente controllato dall’organismo vaticano competente, con tanto di statuto firmato e controfirmato (fornirò un esempio in questa stessa sede), un vescovo che utilizzasse i libri liturgici del 1962, non potrebbe esserlo negli stessi termini.
Di conseguenza la richiesta formale e perentoria di procedere alle ordinazioni secondo il nuovo rito è il segno esterno considerato sufficiente per dimostrare che gli ordinandi, e lo stesso vescovo, accettano pienamente l’art. 19 dell’istruzione, adottando il nuovo rito per l’evento indubbiamente più importante e significativo della loro vita e della vita della diocesi.
Questa richiesta ha, tutto sommato, un valore analogo alla prassi quasi universale inerente all’applicazione dell’indulto del 1984: nelle varie diocesi in cui l’indulto era concesso, veniva chiesto di non celebrare in rito tradizionale a Natale e a Pasqua, onde permettere ai fedeli di manifestare il proprio legame con la parrocchia e quindi la loro accettazione del rito di Paolo VI.
Significativa fu pure, su questa medesima linea, l’ingiunzione imposta nel 2000 alla Fraternità San Pietro di accettare che i propri membri potessero celebrare liberamente secondo il nuovo rito, unitamente al caloroso invito a concelebrare con i vescovi diocesani almeno il Giovedì Santo, onde esprimere la propria comunione con l’ordinario locale e quindi la loro pubblica e perfetta accettazione del Novus Ordo Missae; si noti che pur essendo la Fraternità San Pietro un istituto Ecclesia Dei, la misura si rivelò necessaria proprio nel momento in cui all’interno della congregazione si facevano più forti i toni di opposizione al rito di Paolo VI in alcuni membri refrattari. Nello stesso frangente fu destituito direttamente dall’Ecclesia Dei l’allora Superiore generale e sostituito con un sacerdote scelto non dal capitolo ma imposto dall’Ecclesia Dei stessa.
Era allora Prefetto della Congregazione per il Culto Divino il Card. Medina Estevez, mentre il Card. Castrillòn Hoyos ricopriva da poco la carica di Presidente dell’Ecclesia Dei.
Stando così le cose l’ingiunzione dell’istruzione, unitamente al citato art. 19, sembra ispirarsi di più all’indulto di Giovanni Paolo II che al motu proprio di Benedetto XVI.
Ora però è stato certificato dallo stesso Benedetto XVI che l’indulto del 1984 pretendeva concedere generosamente, in alcuni casi e a certe condizioni precise, l’uso di un messale in realtà mai abrogato: l’Universae Ecclesiae sembra ricadere in questa assurdità giuridica e morale, comprensibile solo in un contesto di disprezzo e di paura - preferisco non parlare di odio - verso tutto ciò che sa di tridentino.
Dulcis in fundo, siccome tutti sanno che la Fraternità non accetterà mai né l’art 31, né il l’art. 19, ecco che tutti gli scontenti da una parte la criticano per la sua “disobbedienza”, cercando così di ostentare la propria “legalità”, dall’altra la osservano sperando che la sua intransigenza ottenga di riflesso qualcosa di positivo anche per loro.
E così riparte quel meccanismo del “sequebatur a longe ut videret finem”, e della speranza strumentale sulla Fraternità, a cui abbiamo già fatto riferimento.

D. - Nel 2011 ricorrono venti anni dalla morte di mons. Marcel Lefebvre. A distanza di due decenni la sua figura continua a far discutere ed anzi, sembra quasi che più passa il tempo, più susciti interesse negli ambienti ecclesiali e culturali. A cosa è dovuta, a suo parere, questa "seconda giovinezza" di un Prelato giudicato da molti anacronistico e vecchio?

Monsignor Lefebvre ha incarnato qualcosa di intramontabile: la Tradizione della Chiesa, e se c’è stato un vescovo in cui la Tradizione non ha mai cessato di essere “vivente” (mi sia concesso l’uso del termine) è stato proprio il vescovo “ribelle”. Per esempio l’unico prelato che non ha mai cessato di celebrare pubblicamente nel rito tradizionale, allora erroneamente considerato abrogato e bandito, è stato il fondatore della Fraternità San Pio X: egli non si è limitato a riconsegnare alle nuove generazioni un messale stampato e impolverato, ma ha custodito e trasmesso un tesoro vivo e reale, presente quotidianamente sull’altare, dal quale era completamente coinvolto in tutta la sua persona.
Se veramente è incominciata una presa di coscienza che la crisi della Chiesa abbia la sua radice e si manifesti soprattutto in una crisi del sacerdozio e della liturgia, è inevitabile che si faccia riferimento a colui che spese tutte le sue energie a salvare l’uno e l’altra.
Pertanto è inevitabile che se si parla di Messa tridentina o di Tradizione, anche il più riluttante, sia costretto a parlare di lui, se non altro per prendere le distanze e per autocertificarsi politicamente corretto.
Ma chi parla di lui, nel bene o nel male, non può farlo senza parlare di una Tradizione che, lungi dall’essere “lefebvriana”, è semplicemente e per sempre cattolica.


 [1] In realtà il semplice sacerdote è tenuto a riconoscere la piena legittimità del nuovo rito almeno nel giorno della propria ordinazione, come chiarito in seguito. N.d.R.

Fonte: www.sanpiox.it

domenica 24 luglio 2011

ANSA - Introvigne (OSCE): Breivik massone non fondamentalista cristiano



Vienna, 23-7-2011 -
Sulla strage di Oslo, l’attentatore Anders Behring Breivik e il rischio di una stigmatizzazione del fondamentalismo cristiano interviene da Vienna il sociologo italiano Massimo Introvigne, Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezzae la Co-operazione in Europa) per la lotta all’intolleranza e alla discriminazione contro i cristiani. “Tutte le informazioni – afferma Introvigne – sono preliminari e da verificare, ma mi preoccupa la caccia ai cristiani fondamentalisti che vedo iniziare a scatenarsi due diversi media internazionali. Il fondamentalismo, lontanissimo dalla mia cultura e dalle mie idee, è una componente del protestantesimo del Nord Europa, e non solo, che è vasta, importante e nella stragrande maggioranza delle sue espressioni, pacifica. Non deve essere
stigmatizzata e criminalizzata, per quanto molti – e io con loro – dissentano dalla sua teologia e da molte sue idee”. “Quanto a Breivik – continua il sociologo italiano, autore di diverse opere accademiche sulla massoneria – mi colpisce la sua fotografia che lo rappresenta con tanto di grembiulino massonico come un membro di una loggia di San Giovanni, cioè di una delle logge
che amministrano i primi tre gradi nell’Ordine Norvegese dei Massoni, la massoneria regolare della Norvegia. Secondo la stampa norvegese Breivik farebbe parte della Sǿilene, una delle logge di San Giovanni di Oslo di questo Ordine, che naturalmente sarebbe altrettanto assurdo collegare all’attentato. Queste logge praticano il cosiddetto rito svedese, che richiede ai membri la fede
cristiana. Ma nessun fondamentalista protestante diffonderebbe sue fotografie in tenuta massonica: il fondamentalismo, al contrario, è fortemente ostile alla massoneria. Dalla lettura dei suoi post, relativamente frequenti, su document.no, che non è un sito cristiano fondamentalista ma nazionalista e
anti-islamico, Breivik emerge come molto più vicino a una delle branche (quella filo-israeliana, mentre un’altra è antisemita) del movimento dell’identità cristiana, uno strano miscuglio di razzismo, esoterismo, odio per gli immigrati ‘cristianesimo nordico’ che non al fondamentalismo”.

Massimo Introvigne

mercoledì 20 luglio 2011

In difesa della Messa tradizionale


Pro Missa Traditionali

In difesa della Messa tradizionale


Premessa

La santa messa è il sacrificio della Croce semel pro semper oblatum [offerto una volta per tutte] in modo cruento, ma in modo incruento presente sotto le specie sacramentali. Or noi nell’Institutio generalis Missalis romani […], a seguito della Costituzione Apostolica del 3 gennaio 1969 leggiamo: “La cena del Signore o messa, è la sacra sinassi o assemblea del popolo di Dio, presieduta dal sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. Vale perciò eminentemente per questa assemblea locale della santa Chiesa, la promessa del Cristo: là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt. 18, 20)”.1
Una tale definizione della Messa è manifestamente eretica, e chi la propone è scomunicato esplicitamente dal Concilio di Trento, nel canone terzo della Sessione ventiduesima: “Colui che avrà detto essere la Messa semplice memoria del sacrificio compiuto sulla Croce, sia anatema”. Di conseguenza il firmatario di detta eresia, Paolo VI, non sarà caduto sotto tale sanzione?
Di fronte a tanta enormità insorsero i fedeli con tale impeto che detta definizione, sia pure ben undici mesi dopo, veniva rabberciata in senso cattolico, e si cercò di far passare la prima redazione, eretica, come una sbadataggine di Sua Santità, perdonabilissima e senza conseguenze pratiche. Infatti detto rabberciamento non ebbe conseguenze pratiche sulla nuova Messa, che restò immodificata, cioè tale quale era stata costruita in base alla prima redazione eretica dell’articolo VII, e non venne più corretta in base alla nuova redazione cattolica del medesimo.
A ragione i cardinali Ottaviani e Bacci, nella petizione inviata al Santo Padre nel 1969, dicevano: “Il Novus Ordo Missae [nuovo rito della Messa] sia nel suo insieme, che nei particolari, rappresenta un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio di Trento, il quale, fissando definitivamente i canoni del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del Mistero.” Gli stessi cardinali, nel Breve esame critico del Novus Ordo Missae, dicevano: “Nel Novus Ordo Missae [nuovo rito della Messa] rittroviamo purtroppo identica nella sua sostanza la stessa Missa normativa rifiutata dal Sinodo episcopale nell’ottobre del 1967, perché in essa si mirava a fare tabula rasa di tutta la teologia cattolica della Messa, avvicinandola alla teologia protestante negatrice del sacrificio della Messa.

Dottrina cattolica della Messa


Sì, la santa Messa è unum et idem [la stessa identica cosa] con il sacrificio della Croce, celebrato dal sacerdote misticamente, in modo incruento, sacramentale, sull’altare. Le specie sacramentali si consumano e vanno rinnovate, rinnovando la celebrazione della Messa. Moltiplicandosi dette celebrazioni però, non si moltiplica il sacrificio della croce: si moltiplica solo il sacramento di detto sacrificio.
Finché perdurano incorrotte le specie sacramentali, anche finita la celebrazione, perdura sotto di esse la presenza di Nostro Signore Gesù cristo, in corpo, sangue, anima e divinità, in atto sacrificale divino e umano; atto sacrificale che, in quanto umano, raggiunto sulla Croce il massimo d’intensità oblativa compatibile con la fralezza della natura umana, sopraffatta questa dalla morte, venne dalla morte stessa sigillato per l’eternità. Il Consummatum est! [Tutto è compiuto!] proferito da Gesù morente, non significò: “Il mio compito è terminato”, ma “Il mio sacrificio ha raggiunto la sua perfezione, e come tale durerà per sempre”. Così nel santo Tabernacolo si contiene in facto esse [presente realmente] quanto venne costituito e fu quindi in fieri [in via di compimento] durante la celebrazione della Messa, e che solo la Messa manifestò attivamente sia con la duplicità della materia e delle formule consacratorie, sia e principalmente con l’azione del sacerdote, agente in persona Christi [facendo le veci di Cristo].
Il solo battesimo non conferisce il potere di celebrare la Messa. Si esige il sacramento dell’Ordine, istituito da N.S. Gesù Cristo, e chi dicesse il contrario, sarebbe scomunicato.2 Il cristiano non ordinato compirebbe il rito della Messa invalidamente. Quanto al cristiano validamente ordinato sacerdote, non la celebra in nome proprio, ma in persona Christi [quale rappresentante di Cristo], del quale egli è semplice ministro e docile strumento; ma sempre tutt’altra cosa che semplice presidente e rappresentante dell’assemblea dei fedeli.
La Messa tradizionale, con tutto ciò che vi è in essa d’essenziale, e perciò innanzi tutto con il Canone3, si diffuse nella Chiesa nascente quando ancora non esistevano i libri del Nuovo Testamento. In particolare le formule della consacrazione non vennero desunte dai libri del Nuovo Testamento, che non esistevano ancora; ma, viceversa, trasmesse dalla Tradizione, vennero in seguito fissate da San Paolo e dagli Evangelisti in modi diversi, sia pure sostanzialmente concordi.
Anche la frase Mysterium fidei [Mistero della fede] è stata pronunciata dal Signore4 e conservata dagli Apostoli5. Non si tratta d’una esclamazione ammirativa, interpolata nel Canone non si sa da chi, in ogni modo abusivamente, e da espungere dal Canone stesso. Si tratta d’una espressione di grande importanza, sia se con essa Gesù ci ricorda che la realtà nascosta sotto le specie eucaristiche sfugge alla nostra esperienza naturale; sia, ed a maggior ragione, se con essa Gesù intese dichiarare l’Eucarestia sacramento (=mysterium) della fedeltà (=fidei) di Dio alla nuova ed eterna alleanza.
Il Canone tradizionale, costituito dalle parole del Signore, dalla tradizione apostolica e dalle istituzioni pie di santi Pontefici, non solo è immune da errore, ma nulla contiene che non sia imbalsamato di santità e di devozione, e tale da elevare a Dio le menti degli offerenti6, e chiunque osasse sostenere il contrario e dire che detto Canone va abrogato, va sostituito, sappia che è eretico e scomunicato7. Sotto tale scomunica non cadrà, almeno per se [formalmente], colui che sostituisce altre preci al Canone romano, anche se non dichiara a parole che detto canone è erroneo e che va sostituito? Poiché è manifesto che tale scomunica venne comminata per assicurare l’uso esclusivo del canone tradizionale e di esso solo immodificato. Una scomunica è revocabile da parte dell’autorità, o decade spontaneamente senza bisogno di revocazione formale, se cessa d’esistere l’oggetto della medesima: nel nostro caso, la sacralità del Canone romano tradizionale. Or questa non è venuta meno.
Ma anche per vari altri motivi sono colpiti da scomuniche non revocate, e forse per se non revocabili, numerosi fautori o esecutori della riforma liturgica conciliare; poiché la Chiesa dichiara scomunicati coloro che ritengono i paludamenti sacri, le cerimonie e i segni in uso nella Messa tradizionale, più d’un impiccio che di aiuto alla pietà8; coloro che condannano l’uso di recitare il Canone sottovoce 9; coloro che pretendono che nella Messa si debba usare solo il volgare10; coloro che ritengono illecita la Messa nella quale solo il sacredote si comunica sacramentalmente11; coloro che dicono indispensabile anche ai fedeli la Comunione sotto entrambe le specie12; coloro che ritengono illecita la celebrazione della Messa senza alcun fedele presente13; coloro che vogliono in ogni singola chiesa un unico altare14, che nei monasteri non si celebrino più d’una o di due Messe al giorno, così che, se i sacredoti sono più di due, questi debbano concelebrare15.

La concelebrazione
Or qui va detto che la concelebrazione di sacerdote con sacerdote, come si usa frequentemente, è una novità assoluta, ignorata dalla storia della liturgia, e certamente abusiva ogni volta si compia per pura comodità dei concelebranti, che avrebbero per altro possibilità di celebrare singolarmente digne, attente ac devote [in modo degno, attento e pio]. È poi manifesta violazione della giustizia ricevere l’offerta per più Messe, e celebrarne una sola, sia pure concelebrata da più16, poiché più sacerdoti concelebranti non celebrano più Messe simultaneamente, ma un’unica e identica Messa concelebrata. Celebrerebbero più Messe simultanee, solo se ognun d’essi consacrasse una propria e distinta materia. Fino a quando la materia consacrata è una e indivisa, la sola molteplicità dei consacratori pronuncianti le formule consacratorie, non moltiplica il sacramento del sacrificio della Croce.

   
Il 10 maggio 1970, in occasione dell'udienza concessa ai sei pastori protestanti che hanno collaborato all'elaborazione delNovus Ordo Missæ, Paolo VI, parlando del loro contributo ai lavori del Consilium liturgico, ebbe a dire: ...Vi siete particolarmente sforzati di dare più spazio alla Parola di Dio contenuta nella Sacra Scrittura; di apportare un più grande valore teologico ai testi liturgici, affinché la “lex orandi” (“la legge della preghiera”) concordi meglio con la “lex credendi” (“la legge della fede”)... (cfr. R. Coomaraswamy, Les problèmes de la nouvelle messe, Editions L'Age d'Homme, Losanna 1995, pag. 36). Non si capisce proprio come dei protestanti che negano la Presenza Reale di Nostro Signore Gesù Cristo nell'Eucarestia, l'essenza sacrificale della Messa, il sacerdozio ministeriale, la mediazione universale di Maria SS.ma e dei Santi, e altre verità di fede possano aver apportato «un più grande valore teologico ai testi liturgici...

La nuova Messa è valida?

Alle gravi manomissioni liturgiche decretate o fatte apparire come tali dai vari uffici liturgici, si sono aggiunte, e da gli stessi burocrati tollerate, se non proprio incoraggiate più o meno apertamente, mille altre manomissioni locali e individuali, tali da rendere certe celebrazioni invalide e sacrileghe. Ma la stessa celebrazione secondo il Novus Ordo Missae [nuovo rito della messa] è valida?
Ci sono dei teologi che la dicono invalida per le stesse ragioni che indussero Leone XIII a dichiarare invalide le ordinazioni anglicane. Certo il Novus Ordo Missae consente tutta una serie di opzioni al celebrante, opzioni concesse affinché anche i protestanti potessero più facilmente adottarlo senza temere di sbatter contro qualche scoglio contrario alle loro eresie. Or colui che si servisse di dette opzioni con l’animo d’un protestante non agiregbbe più secondo le intenzioni della Chiesa cattolica, e perciò la sua celebrazione non sarebbe una vera Messa. Lo stesso si deve dire di chi celebrasse secondo le intenzioni di una novella Chiesa conciliar-ecumenico-modernista. Ci sono infatti purtroppo dei sacerdoti e dei prelati, già cattolici, secondo i quali la Chiesa cattolica, quale fu fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, ha finito d’esistere, e dalla novella Pentecoste conciliare è sorta la novella Chiesa, conciliare di nome, ed ecumenico-modernista di fatto. Sarà valida la Messa di costoro?
Certo non concelebrano validamente nelle concelebrazioni di massa quei sacerdoti che (a differenza di quanto avviene nella concelebrazione dei neo ordinati col Vescovo che li ordinò) non possono seguire passo a passo l’azione del concelebrante principale, poiché nell’espressione Hoc est enim corpus meum [Questo è infatti il mio Corpo] e nell’espresssione Hic est enim calix sanguinis mei [Questo è infatti il calice del mio Sangue], da loro proferite, quell’hoc [questo] e quell’hic [questo] sono privi di verità. Avrebbero senso in tali circostanze le formule Illud est enim corpus meum [quello è infatti il mio Corpo] Ille est enim calix sanguinis mei [quello è infatti il calice del mio sangue], ma sarebbero del pari inefficaci.
Che dire poi della Messa in volgare, quando in essa si sostituisca un semplice il all’hunc [questo] della frase et accipiens HUNC praeclarum calicem [et prendendo QUESTO glorioso calice]? Dato che detta sostituzione connota nel modo più lampante che non si sta celebrando il sacrificio eucaristico incohatum [iniziato] nel Cenacolo e consummatum [concluso] sulla Croce, ma che si sta semplicemente raccontando tale fatto, come trapassato. Il calice sul quale il sacerdote proferisce la formula consacratoria, non è un calice qualsiasi, diverso da quello dell’Ultima Cena, ma è misticamente quello stesso calice impugnato da Gesù consacrante, come è misticamente una et eadem [unica e sempre la stessa] l’azione consacratoria del sacerdote. Si dice giustamente che agisce in persona Christi [facendo le veci di Cristo], proprio perché il sacerdote consacrante, in quel momento, è misticamente Gesù in persona, che parla in nome proprio, e dice: “Questo è veramente il MIO Corpo…Questo è veramente il calice del MIO sangue”: espressioni che non sono un doppiaggio di quelle proferite da Gesù nel Cenacolo, ma misticamente, superato tempo e spazio, quelle stesse.
Certo la Messa secondo il Novus Ordo Missae, anche quando evita le opzioni e le concelebrazioni, che la renderebbero invalida, tuttavia non è integra. Manca infatti d’un Offertorio sacrificale con evidente carattere di consacrazione inchoata [iniziata], quale l’integrità del sacrificio esige, come afferma anche S. Roberto Bellarmino, dottore di Santa Chiesa17. Il pane e il vino, dopo l’Offertorio tradizionale, non sono più cose profane, ma sono res sacrae [cose sacre] riservate al culto di Dio, e il trattarle come cose profane, sarebbe certamente atto sacrilego.
Ma che dire della Messa in volgare, quando in essa si sostituisca un per tutti alla frase pro multis [per molti] nella consacrazione del calice? Per giustificare detta sostituzione s’adduce la ragione che in aramaico e in ebraico – e Gesù per quel sacro rito usò l’una o l’altra di dette lingue – siccome non esiste la parola tutti, per dire tutti si dice molti, ma nelle lingue moderne, dato che c’è la parola tutti, questa va usata, se si vuol dire quanto Gesù intese dire dicendo molti.
Detta ragione è falsa. In aramaico, e analogamente in ebraico, c’è la parola molti in contrapposizione alla parola tutti, ed è sagg’in in aramaico e rabbim in ebraico. C’è del pari la parola tutti in contrapposizione alla parola molti, ed è kol oppure kolla, ma si può dire kol bisra in aramaico, e kol basar in ebraico. Ora Gesù nel consacrare il calice usò sia la parola tutti, che la parola molti, contrapponendo l’una all’altra: Accipite et bibite ex eo OMNES. Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti, mysterium fidei, qui pro vobis et pro MULTIS effundetur in remissionem peccatorum [Prendete e bevetene tutti. Questo è infatti il calice del mio sangue, della nuova ed eterna alleanza, mistero della fede, il quale per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati].
Sì, è vero: sia in ebraico che in aramaico, molti può talora significare tutti; ma qui, nella frase pronunciata da Gesù, l’uso ravvicinato di tutti e di molti, ha tutto il carattere d’una contrapposizione, così che è impossibile con certezza all’identità di significato della voce tutti e della voce molti in tal caso. Senza dire che la sostituzione di tutti a molti insinua l’errore d’una salvezza eterna de facto universale, e la conseguente negazione del dogma dell’inferno.
Ora alcuni teologi affermano che secondo S. Tommaso18 la formula consacratoria del calice è tutta intera indispensabile a che la consacrazione sia valida; tutt’intera con l’espressione mysterium fidei [mistero della fede] e con la parola multis [molti]. Secondo altri invece basta la frase iniziale Hic est enim calix sanguinis mei [Questo è infatti il calice del mio sangue]. La questione resta aperta e disputabile. Nell’amministrazione e preparazione dei sacramenti non ci si può accontentare di una materia o di una forma dubbia, sia pure probabilius [con maggior probabilità] valida. Qui non vige il probabilismo, ma solo il tuziorismo19. Pare perciò illecito l’uso sia della forma decurtata, sia della forma intera, ma alterata e perciò controversa. Si dirà che la maggior parte dei celebranti usa tale formula, e siccome nella Chiesa è impossibile un errore universale, detta formula resta dimostrata valida almeno indirettamente. Or in quest’argomentazione si fa coincidere la Chiesa infallibile con una certa maggioranza. Certo tale argomentazione varrebbe se la Chiesa fosse un’organizzazione democratica, ma tale non è. Se così fosse, al tempo di Ario20, la maggioranza ariana sarebbe stata la vera Chiesa, poiché allora quasi tutti i vescovi accettavano e predicavano l’eresia ariana.

Chiesa e Cristianità

Prevalsero allora le porte dell’inferno? Impossibile, secondo la garanzia data da Gesù alla sua Chiesa. Solo che la Chiesa, cui Gesù volle affidare il compito di custodire e trasmettere il depositum fidei [deposito della fede] e da Lui resa indefettibile, era allora, come lo sarà ancora altre volte lungo i secoli, ridotta a un’esigua porzione della Cristianità: porzione sempre di difficile precisazione statistica non foss’altro perché fluttuante nei suoi componenti con il fluttuare delle vicende storiche della Cristianità stessa. La storia ecclesistica è lì ad ammonirci che anche qualche Papa, certo non in quanto Papa assistito dal carisma dell’infallibilità personale, mancò almeno a intermittenza al proprio dovere di custode e trasmettitore del depositum fidei [deposito della fede], della Santa Tradizione dottrinaria e sacramentale.
Chiesa e Tradizione stanno tra loro come soggetto possidente e oggetto posseduto: si coestendono esattamente senza residui. Chiesa e Cristianità invece stanno tra loro come materia informata e materia informabile, non sempre informata di fatto integralmente e mai informata in modo irreversibile. È certo, perché è Gesù a certificarlo, che anche nei periodi di rinnegamento generalizzato, sussisterà tuttavia sempre in una qualche parte della Cristianità la Chiesa, custode fedele della Tradizione: Chiesa contraddetta o per lo meno ignorata dalla restante parte della Cristianità, dalla parte scismatica, composta dai pastori infedeli e dalle pecorelle ingannate. Gesù paragonò lo sviluppo del regno dei Cieli a quello di una piccola semente che diviene albero rigoglioso; ma non disse tale albero sottratto all’alterna vicenda delle stagioni ed ai rigori dell’inverno. Disse invece per i primi membri della sua Chiesa: Nolite timere, pusillux grex! [Non temere, piccolo gregge] e per gli ultimi membri della sua Chiesa: Quando tornerà il Figlio dell’Uomo, pensi che troverà fede in terra?
Storicamente è avvenuto che certi gruppi si ritennero a torto Chiesa del Signore. Così fu dei Protestanti, che sostituirono la Bibbia, arbitrariamente interpretata, alla Tradizione cattolica, cioè ad una Tradizione comprendente, come il tutto comprende ogni sua parte, anche quella sua parte messa per iscritto che è la Bibbia; Bibbia a sua volta interpretata ancora secondo la Tradizione.
L’opposizione tra Cattolici e Protestanti sta in questo: che i Cattolici rinunciano al libero esame in favore della Tradizione, comprendente anche l’interpretazione cattolica della Bibbia; mentre i Protestanti rifiutano la Tradizione in favore del libero esame, esteso anche all’interpretazione privata della Bibbia.
Certo, ultimamente l’accettazione della Tradizione cattolica o il rifiuto della medesima a favore del libero esame, importa un atto della ragione; ma detto atto è tutt’altra cosa del libero esame protestantico: è infatti richiesto anche affinché la Fede sia rationabile obsequium [ragionevole accettazione].
Solo equivocando tra ragionevolezza e libero esame, si può imputare ai Tradizionalisti odierni di far proprio il libero esame protestantico: Tradizonalisti odierni che a ragion veduta restano fedeli alla Tradizione cattolica nonostante la defezione dalla medesima di tanti e autorevoli pastori.
 
La pastorale del Novus Ordo Missae

Ritorniamo al nostro assunto. È sentenza comune che un rito cattolico, per quanto valido, possa essere imprudente, e perciò, almeno indirettamente o per accidens [accidentalmente], antipastorale. Tale è la nuova Messa. “Di quanto la nuova Messa s’allontani dalla teologia del Concilio di Trento si può valutare confrontando le preghiere che il Consilium ha abolito con quelle abolite da Cranmer21. La coincidenza non solo è tale da stupire. Essa fa inorridire! No, non si tratta di pura coincidenza fortuita … si tenga presente che i riformatori protestanti conseguirono i loro scopi più omettendo preghiere cattoliche, che inserendo preghiere specificamente eretiche. In tal modo trasformarono la lex credendi [regola della fede] cattolica in lex credendi [regola della fede] protestante, servendosi della lex orandi [regola della preghiera], della liturgia … Cranmer ebbe cura che il rito da lui riformato potesse essere interpretato in senso cattolico … e che i sacerdoti cattolici conservatori restassero persuasi che quanto celebravano era ancora una Messa … Il Novus Ordo Missae ha fatto lo stesso mediante le opzioni … Si è cercato di minimizzare il ruolo avuto dai sei osservatori protestanti … Di fatto detti osservatori esercitarono la loro influenza non solo nel lavoro preparatorio … Il ruolo da loro esercitato venne orgogliosamente dichiarato dagli ecumenisti cattolici, secondo i quali il Consilium pontificio per la riforma della liturgia s’era ormai piegato ai teologi e ai liturgisti protestanti22
Il Novus Ordo Missae è l’opera per eccellenza, il capolavoro del Consilium, che lo creò con la collaborazione attiva di sei eretici, quei sei che si vedono sulla fotografia, alla destra del Santo Padre. Io uso il termine eretico senza alcuna intenzione aggressiva, ma non per pura retorica. Uso questo termine, perché è il termine tecnico, il termine appropriato. Non solamente quei sei personaggi eretici sono personalmente eretici, ma per giunta essi sono lì in quanto eretici. Non sono lì a semplice titolo personale: sono lì in quanto ufficialmente eretici, in qualità ufficiale di eretici. Essi sono il Dr. Sephard, il Dr. George, il canonico Jasper, il Dr. Konneth, il Dr. Smith e il Fr. Max Thurian; e sono lì come rappresentanti rispettivamente del Consiglio ecumenico delle Chiese, delle Comunità anglicana e luterana e della Comunità di Taizé. Il Novus Ordo Missae non è stato fabbricato in collaborazione e d’accordo con sei personaggi esperti, scelti individualmente per la loro forma mondana, per il loro aspetto prestante, i quali per puro caso accidentale erano anche eretici. No! Il Novus Ordo Missae fu fabbricato in connivenza con sei rappresentanti ufficiali di svariate eresie, convocati appunto perché eretici a rinnovare la liturgia cattolica. Ed essi ci hanno dato quel genere di liturgia rinnovata, che si poteva attendere da quel ch’essi rappresentavano. Ecco l’opera di detti sei eretici e dei loro complici cattolici: ‘Dare un più grande valore teologico ai testi liturgici, al fine di far concordare meglio la lex orandi [regola della preghiera] con la lex credendi [regola della fede]’. Chi così afferma, ritiene dunque che fino al 1969 i testi liturgici non avevano tutto quel valore teologico che si sarebbe desiderato, quel valore teologico che si scorge ora nelle ‘formule interamente nuove’. Quindi per mille anni e passa la lex orandi [regola della preghiera] non concordò granché con la lex credendi [regola della fede]. Le nuove preghiere eucaristiche concorderebbero con la fede cattolica meglio del Canone romano. Tale è anche l’opinione di Taizè, delle Comunità anglicana e luterana e del Consiglio ecumenico23
D’ora in poi delle comunità non-cattoliche potranno celebrare la santa cena con le stesse preghiere del Novus Ordo Missae della Chiesa cattolica24.
Tra i punti che val la pena di sottolineare, c’è il fatto che non solo i protestanti si sentono a casa loro con le preghiere della nuova Messa, ma che essi ritengono, e lo dichiarano apertamente, che c’è stato un tale cambiamento nella teologia cattolica della Messa da far concordare la medesima con la dottrina della cena del Signore25.
Ma qual è la teologia protestante della cena del Signore? Ce lo dice il patriarca di tutte le svariate sette protestanti, Martin Luther che, non potendo più conciliare la celebrazione della santa Messa e il suo sacerdozio con le sue impurità e il suo orgoglio, volle distruggere quella Messa e quel sacerdozio: “Quando la messa sarà rovesciata, io sono convinto che avremo rovesciato con essa tutto il papismo. Il papismo infatti poggia sulla Messa, come su una roccia, tutto intero, con i suoi monasteri, vescovadi, collegi, altari, ministeri e dottrine, in una parola con tutta la sua pancia. Tutto ciò crollerà necessariamente, quando sarà crollata la loro messa sacrilega e abominevole. Io dichiaro che tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassini e gli adulteri, sono meno malvagi di quell’abominazione che è la messa papista26
Perché tanti sacerdoti si sentirono sgomenti davanti al Novus Ordo Missae? Perché avevano visto chiaramente nei contorni della nuova Messa il profilo di Lutero. Avevano visto la realtà: la nuova Messa realizza infatti la definizione della cena protestante, divenuta l’articolo settimo della Institutio generalis Missalis romani [Istituzione generale del Messale Romano], prima edizione.
Ora il Novus Ordo Missae, che grazie alla sua ambivalenza ed equivocità avrebbe dovuto far rientrare nell’unico ovile dell’unico Pastore le pecorelle sbandate, i protestanti, di fatto ha allontanato dall’ovile anche un’innumerevole schiera di cattolici: schiera in aumento talmente vertiginoso, da lasciar prevedere che – stando così le cose – le chiese cattoliche tra qualche anno saranno del tutto deserte. È questa l’efficacia pastorale del Novus Ordo Missae? Che forse non è dovuto alla riforma – diciamo pure alla rivoluzione postconcliare liturgico-modernista, che fa centro nel Novus Ordo Missae – l’ottundimento del senso cristiano nei cattolici, manifestatosi in modo abbacinante in Italia in occasione del referendum per il divorzio e per l’aborto? All’eclisse del senso del sacro, collegata al Novus Ordo Missae si deve anche l’inaridimento delle vocazioni sacerdotali e delle vocazioni religiose missionarie, maschili e femminili, ma anche lo scadimento della vita cristiana nelle persone consacrata; l’abbandono della pratica degli Esercizi Spirituali [di S. Ignazio], la mistificazione dei medesimi, trasformati in assemblee di chiaccheranti e in pellegrinaggi turistici. Ma a che pro enumerare ulteriormente le miserie venute dopo il Novus Ordo Missae e a causa del medesimo? Post illum et propter illum [dopo di esso e a causa di esso]!
Sì, il Novus Ordo Missae è indubbiamente antipastorale nei riguardi dei cattolici, ed apastorale nei riguardi dei protestanti: male grave, gravissimo, ora che la pastorale e la catechesi si riducono, quasi senza residui, alla celebrazione dell’eucaristia. Che forse non la si volle tale, intelligibile rimuovendo il diaframma che la Messa tradizionale aveva disteso tra l’uomo e Dio? Come ebbe l’ardire di proclamare Paolo VI, il 26 novembre 1969, allorché liberava la liturgia dalle “seriche vesti che creavano” quell’ “opaco diaframma”; accompagnando il suo dire con una serie di “finalmente” illuministici e di condanna a un tempo per lo meno dell’efficacia pastorale della Messa cattolica di sempre: “Finalmente si può capire e seguire la complicata e misteriosa cerimonia; finalmente ci si prende gusto; finalmente il Sacerdote parla ai fedeli e si vede che agisce con loro e per loro”.
Affermava di rimuovere un diaframma antipastorale per i cattolici, mentre con la collaborazione di sei eretici eminenti agiva di fatto per tirare sulla Messa cattolica un diaframma che non la facesse più apparire specificamente tale, e perciò atto a lusingare i protestanti.
Come un giocatore di bussolotti che cerca di distrarre l’attenzione degli spettatori, Paolo VI cercava d’indirizzare l’attenzione dei cattolici sul diaframma delle vesti seriche del latino e connessi, per nascondere ai loro occhi il cambiamento della Messa in senso ereticoide che stava perpetrando.



Il grande problema

Come può essere antipastorale una legge disciplinare ecclesiastica universale, quale è quella che ha per oggetto la nuova Messa? Innanzi tutto rovesciamo la frase: siccome è antipastorale – et contra factum non valet argumentum [contro la realtà dei fatti non si può opporre alcuna prova in contrario] – non può essere oggetto di legislazione ecclesiastica, vuoi universale, vuoi particolare: la legge non può aver per oggetto che il bonum communitatis [bene comune].
Dato, ma non concesso, che abbia per oggetto un bonum communitatis [bene comune] non è tuttavia legge, perché non ci fu, né promulgazione formale, né accettazione pacifica universale. Non ci fu promulgazione formale e tanto meno abrogativa della Messa tradizionale. Si volle dare l’impressione di aver voluto abrogare la Messa tradizionale, e di aver voluto imporre la nuova Messa; ma tale comando formale – per la storia? Per alleggerire il compito degli apologeti di domani? Certamente perché la Chiesa è oggetto d’una Provvidenza tutta speciale – un comando formale e in più abrogativo della Messa tradizionale, non fu dato.
È vero che nel testo italiano della Costituzione del 3 aprile 1969 si legge: “Infine vogliamo dare forza di legge a quanto abbiamo finora esposto”. Ma il testo latino dice: “Ad extremum ex iis quae hactenus de novo Missali Romano exposuimus, quiddam nunc cogere et efficere placet”, cioè: “Da tutto quello che fino a questo punto abbiamo esposto a riguardo del nuovo Messale romano, ci piace ora, per finire, tirare una qualche conclusione”, oppure: “Per finire, in seguito a quanto noi abbiamo esposto sul nuovo Messale romano, c’è un punto (quiddam) che ci piace (placet) dedurre e stabilire (cogere et efficere)”. Concludere un discorso non è promulgare una legge. Né si può trovare detta volontà obbligante nell’ultimo paragrafo della Costituzione in questione, che dice: “Nostra haec ante statuta et praescripta nunc et in posterum firma et efficacia esse et fore volumus” [Ciò che prima noi abbiamo stabilito e prescritto vogliamo che abbia efficacia e sia confermato anche in futuro]; poiché di prescrizioni precise in detto documento si trovano solo quelle riguardanti le tre nuove preci eucaristiche e l’inciso “quod pro vobis tradetur [che sarà dato per voi] da far seguire alla formula della consacrazione del pane. Ora l’uso di dette preci è dichiarato facoltativo e l’addizione quod pro vobis tradetur [che sarà dato per voi] è suffragata da motivi del tutto insufficienti a renderla fuor di dubbio tassativa.
Fatta anche l’ipotesi che ci fosse stato un comando formale, non sarebbe abrogativo della Messa tradizionale d’origine apostolica, che resterebbe lecita, e senza bisogno di concessioni speciali. Che l’esplicita condanna a morte della liturgia tradizionale appaia qua e là in qualche disposizione liturgica, intenzionalmente pubblicata senza data e firma, o anche in qualche dichiarazione episcopale, non fa testo: deve apparire chiara e tonda nella Costituzione introduttoria del Messale, al posto di quel mistificato “Ad extremum” [Per finire] ed in temini tali da far impallidire l’espressione precipiente usata da S. Pio V il 14 luglio 1570, la quale resta pienamente, giuridicamente, canonicamente efficiente e vincolante: “Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostrae permissionis, statuti, ordinationis, mandati, praecepti, concessionis, indulti, declarationis, voluntatis, decreti et inhibitionis infringere vel ei ausu temerario contraire. Siquis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem omnipotentis Dei ac Petri et Pauli Apostolorum eius, se noverit incursurum” [Nessuno, quindi, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare o trasgredire questo Nostro documento: permesso, statuto, ordinazione, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Chi però abbia la spudoratezza di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi Apostoli Pietro e Paolo].
Quanto poi all’intenzione di Paolo VI, si sa che egli stesso dichiarò al cardinal Heenan non essere sua intenzione di proibire assolutamente la Messa Tradizionale. Con la Missale Romanum intese semplicemente dare ai fedeli possibilità di una celebrazione alternativa della Messa, e non intese abrogare alcunché.
Fosse pure stata manifestata da Paolo VI una tale volontà abrogativa della Messa tradizionale, tale Messa resterebbe nondimeno lecita a ogni celebrante in forza dell’indulto concessogli dalla prudenza lungimirante di San Pio V: “Atque ut hoc Missale in Missa decantanda aut recitanda in quibusvis Ecclesiis, absque ullo conscientiae scrupolo, aut aliquarum poenarum, sententiarum et censurarum incursu, posthac omnino sequatur, eoque libere et lecite uti possint et valeant auctoritate Apostolica, tenore praesertium, etiam perpetuo concedimus et indulgemus27 [Anzi, in virtù dell’Autorità Apostolica, noi concediamo, a tutti i sacerdoti, a tenore della presente, l’Indulto perpetuo di poter seguire, in modo generale, in qualunque Chiesa, sia nel dir Messa bassa che cantata, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo d’incorrere in alcuna pena, giudizio o censura, questo stesso Messale]. Or di detto indulto non c’è stata abrogazione di sorta. Si è cercato, con quella capziosità menzognera che ha stampato il proprio marchio infame su tante grida della rivoluzione postconciliare, d’indurre a credere che ci fosse stata una tale abrogazione, facendo sapere che si era disposti a concedere l’autorizzazione di celebrare la Messa tradizionale a quanti l’avessero chiesto, dimostrando d’essere vecchi perfettamente rimbambiti, ma di fatto abrogazione formale di detto indulto non ci fu.
Ci fosse pure stato detto conato abrogatorio della stessa Messa tradizionale, con tutti i requisiti giuridici formali, resterebbe tuttavia inefficace, poiché di fronte ad una tradizione millenaria non c’è abrogazione che tenga. In base alle norme generali del Diritto Canonico, lo stesso San Pio V, se inveve di reprimere degli abusi liturigici, avesse presunto di varare una nuova Messa, abrogando quella tradizonale, avrebbe fatto, dal punto di vista dell’obbligo, un buco nell’acqua.
Ci fu almeno l’accettazione pacifica universale da parte dei fedeli? Meno che meno! Venne rifiutata drasticamente dalla schiera innumerevole di quelli che per protesta contro la riforma liturgica, cessarono di andare a Messa. Venne rifiutata tacitamente dalla stragrande maggioranza di coloro che non ebbero tanto coraggio e che vanno alla Messa nuova, serbando nel cuore la nostalgia e il desiderio della Messa tradizionale. Ed è rifiutata ex animo [nell’intimo] anche da tutti quei sacerdoti, che pur dovettero celebrarla, perché messi nella necessità psicologica, per non dire fisica, di celebrarla.
Non essendo quindi legge universale quella concernente la riforma liturgica e la Messa, potrebbe essere – diciamo ‘potrebbe essere’, non diciamo ‘è’ – viziata e dannosa non solo per accidens [accidentalmente] ma anche per se [formalmente]. Che forse al tempo di Ario non inorridì il mondo intero allorché s’avvide d’essere caduto nell’eresia? Non fu forse allora l’arianesimo accolto e predicato dalla quasi totalità dei vescovi? Sì, la Chiesa è infallibile nelle sue disposizioni disciplinari universali, e più ancora nei dogmi dottrinali e morali universalmente accolti. Tutto sta nel determinare in modo circoscrittivo i confini della Chiesa, tenendo presente che va formalmente distinta dalla Cristianità.


Questo è un tempio dei protestanti, dove professano il loro eretico culto...


Questa è una moderna Chiesa, si puo' notare la perfetta somiglianza con il tempio protestante...


Questo e' un esempio del tempio inventato dalla diabolica ed eretica setta Neocatecumenale, recentemente approvata dalla gerarchia della nuova Chiesa Conciliare...

E ancora si dice che non ci sia stata rottura dottrinaria durante il Concilio, anche un cieco la vedrebbe...


Che fare?

Ora quale atteggiamento si deve assumere di fronte a un rito che allontana dalla Chiesa un numero sempre più imponente di cristiani, va raffreddando la vita cristiana negli altri, va generalizzando il disprezzo verso i Comandamenti di Dio, ha causato angosce inenarrabili alle anime più virtuose e devote, privandole brutalmente e senza possibilità di appello di tutto quello che costituiva la vita della loro vita. Ha svuotato i seminari e gli aspiranti missionari e reso agonizzanti tanti istituti religiosi. Ha autorizzato esperimenti sacrileghi della Messa tanquan in corpore vili [come su di un cadavere] come si fanno le prove di una commedia. Ha aperto la porta a mille altre profanazioni, raggiungendo il culmine dell’abiezione nelle concelebrazioni con eretici, promosse da prelati d’alto rango, nonostante siano intrinsecamente gravemente immorali, e per questo già bollate di scomunica.
Potrà dirsi ordinatio rationis [ordinamento ragionevole] quel complesso di norme, dall’apparenza giuridica, che presiede a tale rivoluzione? Se tali e tanti disastri si previdero e si vollero, è criminale. Se non si previdero, è per lo meno insipientissimo e temerario. Per ciò non fu rationis, non fuit lex, sed iniuria [non fu ragionevole, non fu legge, ma offesa]. Se poi si considera con quali espedienti subdoli e furbeschi venne portata avanti la riforma liturgica – si dichiarò che la si voleva affinché il popolo capisse, mentre tutt’altro era lo scopo cui si mirava; che la si era cominciata timidamente, al modo di chi si accinge a scrostare un’opera d’arte preziosissima e intangibile, senza immaginare cosa si sarebbe trovato sotto, mentre si aveva già stabilito in partenza di “dare strutture nuove a interi riti, operando una restaurazione di fondo, e in certi punti una vera nuova creazione, dato che l’immagine della liturgia data dal Concilio Vaticano II era completamente differente da quella che la Chiesa cattolica aveva avuto fino allora28 – se si considera tutto ciò, e si tiene presente che il padre della menzogna è Satana, si sa anche chi fu il grande manovratore della riforma liturgica della nuova Chiesa conciliare, consci o inconsci i suoi collaboratori.
È chiaro più del sole che solo la Messa di San Pio V, risalente alla tradizione apostolica, resta la Messa: la Messa cattolica, prescritta con tutti i crismi che la rendono lecita, sia ai sacerdoti che ai fedeli, recitata e cantata, senza bisogno d’ulteriori permessi e concessioni. Or che hanno luogo le celebrazioni liturgiche – chiamiamole ancora così – più stravaganti e sacrileghe, credere o indurre a credere che solo la santa Messa degli Apostoli, di sant’Agostino e di San Tommaso, dei martiri inglesi e di san Pio V, e di tutti i santi canonizzati fino ad oggi, sia illecita e cercare d’impedirla, d’estinguerla, implica un’insipienza e un’empietà spaventevoli, inconcepibili!
È del pari chiaro più del sole che i modernisti della rivoluzione liturgica si servono di questa per raggiungere il loro ultimo fine: quello di soppiantare la Chiesa cattolica, sostituendo ad essa la nuova Chiesa conciliare. Ora i modernisti lo sanno: la sussistenza sia pure di una sola Messa tradizionale costituisce per loro una minaccia mortale, vedono in essa e giustamente, quel sassolino, che mosso da mano umana, precipita sul colosso di Nabucodonosor e lo polverizza. Affinché sopravviva la loro nuova Chiesa conciliare, è indispensabile si estinga ovunque e per semrpe la santa Messa tradizionale. Essi precorrono con il desiderio, e affrettano con l’opera assidua l’estinzione della schiera dei tradizionalisti, vittime dei loro maneggi, dell’età avanzata, della stanchezza, della delusione. Da qui il grave nostro dovere di fare tutto quello che sta in noi a che continui a sussistere la santa Messa tradizionale: fino a quando la marea modernista, vomitata dall’inferno, svanisca, disseccata da quel vento dell’Est che disseccò il Mar Rosso, e la Cristianità si ritrovi al di là dei marosi, ritornata tutta cattolica.
Che fare? Il sacerdote che rifiutò sin dall’inizio la nuova Messa è tenuto sub gravi [sotto peccato grave] a rifiutarla tutt’ora e fino all’ultima sua Messa. Potrà almeno per modum actus [controvoglia] celebrarla? No, fosse pure il Santo Padre in persona che gli chiedesse di celebrarla o di concelebrarla assieme. Non lo potrebbe fare infatti senza impugnare per via di fatto la verità conosciuta, il che, in materia grave, è peccato grave e quella sua celebrazione sarebbe sacrilega. D’altra parte, celebrando egli la Messa tradizionale anche inattesa dai fedeli, farebbe loro la più gradita delle sorprese. Inoltre tale sua celebrazione, secondo l’antico rito, potrebbe tornare d’incoraggiamento ad altri sacerdoti esitanti, e potrebbe indurli a superare d’un balzo in senso inverso, il tragitto percorso sotto la spinta, ora subdola, ora minacciosa dei modernisti al comando.
Potrà tuttavia un sacerdote tradizionalista nella celebrazione della Messa tradizionale fare delle concessioni, accettando alcuni elementi del nuovo rito, al fine di tornare meno ostico al rettore della Chiesa nella quale celebra? Sì, lo può, e potrebbe anche accettare cum grano salis il nuovo calendario rivoluzionario, purché conservi il rito tradizionale dall’Offertorio alla Comunione, e conservi per la recita del Canone Romano la lingua latina. Queste concessioni non sono dovute a disistima verso il calendario tradizionale, e verso i riti tradizionali precedenti l’Offertorio e seguenti la Comunione; ma perché tutto ciò, pur essendo molto importante, non è tuttavia tale, se difettasse, da compromettere il valore della Messa tradizionale. Quanto al sacerdote che abilmente abbindolato, percorse a passettini la via della riforma liturgica, e si trovò quindi, quasi contro voglia, sull’altra sponda, quella del modernismo; appena si rendesse conto del torto subito, avrebbe l’obbligo di riprendere immediatamente la celebrazione secondo il rito tradizionale. Trovandosi in cura d’anime, farebbe loro un grande, grandissimo dono. Andrebbe incontro a delle persecuzioni? Beati coloro che saranno perseguitati a causa della giustizia, persecuzione che nel suo caso assumerebbe la formalità di tacito martirio.
E un laico, può assistere alla nuova Messa? Precisiamo: per nuova Messa intendiamo quella celebrata adamussim [perfettamente] secondo il nuovo Ordo Missae, non solo, ma anche senza quelle opzioni che la renderebbero per lo meno di dubbia validità, e senza quella creatività che potrebbe renderla fuor di dubbio invalida o per lo meno sacrilega.
Or di fatto molti laici assistono a tali celebrazioni, sia pure in numero via via diminuente. In numero diminuente? A sostegno di questa asserzione non c’è bisogno che la Congregazione per il Culto Divino faccia inchiesta alcuna: basta dare un’occhiata ai registri dove si segnano le richieste di Messe, per vedere come aumentino in essi le pagine bianche.
Ebbene, i laici che frequentano la nuova Messa sono in gran parte delle laiche, delle donne, e donne anziane, che un giorno assistettero incredule ai loro occhi, smarrite e con grande amarezza al cambiamento di Messa; e non osarono ribellarsi, poiché c’era di mezzo il Papa. Sì, alla nuova Messa partecipano talora anche degli uomini, lusingati dall’incarico di lettori, ed anche dei ragazzi, più sovente delle ragazze, raggruppate in schola cantorum.
Or se a costoro si dicesse che non devono più assistere a tale Messa si correrebbe il rischio di recare scandalo, anche se avvertono, come non pochi di fatto avvertono, il disagio spirituale che ne deriva alle loro anime. Sì, costoro sono in grado di comprendere la resistenza dei Tradizionalisti, di ascoltarne le ragioni e le esortazioni, se esposte a tempo, a luogo e coi dovuti modi, tenendo presente che se la psicologia umana si concretizza con mille sfumature diverse, tuttavia in fatto di fede e di liturgia è universalmente suscettibilissima.
Con queste persone – all’occasione opportuna – non insisteremo sul precetto della Messa festiva secondo il nuovo rito. Le illumineremo sulle carenze di questo stesso rito. Le esorteremo a frequentare la Messa tradizionale, anche se questo importasse notevole disagio.
A tale disagio in ogni modo non può sottrarsi il tradizionalista fedele, che sente il dovere di scoraggiare nei riguardi del nuovo rito e sacerdoti e laici, e viceversa incoraggiarli nei riguardi della Messa tradizionale.
Ciò facendo non illudiamoci di riscuotere facili consensi: poiché il nuovo rito è fatto su misura – misura quanto mai elastica – di una Cristianità scristianizzata e che contribuisce a scristianizzare ulteriormente, mentre la sublimità della Messa tradizionale è accessibile solo al piccolo gregge di coloro che, nonostante tutto, continuano a vivere d’intensa vita di fede.
Né lasciamoci scoraggiare dalla defezioni di alcuni, già a noi cari commilitoni, ricordando che stretta è la porta e difficile la via che conduce alla vita, e pochi sono coloro che la trovano! Ma preghiamo per loro, fiduciosi in una loro auspicabile resipiscenza.

Oremus

Concede, quaesumus, omnipotens Deus, intercedente beatissima semper Virgine Maria, ut veritas, sanctitas et pietas praedilectae Missae apostolicae traditionalis Ecclesiae tuae prompte et pacifice restituatur. Amen.



Concedi, Te ne preghiamo, onnipotente Dio, per l’intercessione della beatissima sempre Vergine Maria, che ci venga restituita pacificamente e quanto prima la verità, la santità e la pietà della prediletta Messa Apostolica tradizionale, e così sia!

1 c. 11, n. 7.
2 Concilio di Trento, Sess. XXII, can. 2.
3 Il Canone è la parte centrale del rito della Messa, culminante nelle formule consacratorie con cui il sacerdote compie la transustanziazione.
4 Enchiridion Symbolorum et definitionum, Denzinger, 1937, n. 414. D’ora in avanti: Denz. 414.
5 Denz. 715.
6 Denz. 932.
7 Denz. 953.
8 Denz. 954.
9 Denz. 956.
10 Denz. 956.
11 Denz. 955.
12 Denz. 934.
13 Denz. 1528.
14 Denz. 1110.
15 Denz. 1591.
16 Denz. 1110.
17 R. Bellarmino, De sacrificio Missae, c. 27.
18 Summa Theologiae, III, 78, 3.
19 Ossia l’opinione più certa e sicura.
20 Eretico del secolo IV che negava la divinità di Cristo.
21 Thomas Cranmer fu il responsabile dell’introduzione delle eresie protestanti nell’Inghilterra del XVI secolo. In particolare a lui si deve la stesura del nuovo messale ‘protestantizzato’ anglicano.
22 “Christian Order”, London, Dec. 1974, pp. 729-731.
23 “Itinèraires” Paris, Déc. 1973, pp. 2-3.
24 “Courrier de Rome”, Paris, 1969, n. 49, p. 6.
25 “Christian Order”, London, Dec. 1974, p. 734.
26 M. Luther, Werke, t. X, s. II, p. 220; t. XV, p. 774.
27 S. Pio V, Quo primum tempore, 14 luglio 1570.
28 Dichiarazione alla stampa di P. A. Bugnini il 4 gennaio 1967.
 
Tratto da Non possumus